Manet e l’asparago mancante

Partiamo da “un” Asparago. Già solo uno! Ci si sofferma quasi di sfuggita davanti a questo piccolo quadro costruito sinteticissimamente, ton sur ton fra nuance di bianco latteo, grigi e malva.

Edouard Manet (1832 – 1883), L'asparago (1880)
Edouard Manet (1832 – 1883), L’asparago (1880)

Il “modello” è lì in bilico su un bordo di un piano di marmo dalle venature di un colore vicinissime a quello dell’asparago. Il piccolo quadro del 1880 viene colto dal visitatore quasi di sfuggita, mentre con gli occhi è alla ricerca dei capolavori di Manet nella mostra a Palazzo Reale a Milano intitolata Manet e la Parigi moderna, aperta fino al 2 luglio, con la curatela del presidente del Musee d’Orsay Guy Cogeval. Eppure è questo asparago che ci prende per il naso e che fa ripensare al breve ironico apologo di Achille Campanile, Asparagi e l’immortalità dell’anima, a offrirci un saggio sulla quintessenza del dipingere di Eduard Manet.  Basta leggere la scheda di presentazione all’operina nel catalogo Skira per cogliere la vena umoristica dell’artista: «Questo piccolo dipinto venne donato da Manet a Charles Ephrussi, storico dell’arte, editore della “Gazette des Beaux-Arts” e banchiere che gli aveva comprato il quadro Un mazzo di asparagi. Poiché Ephrussi aveva pagato una cifra superiore a quella richiesta, l’artista gli inviò L’asparago accompagnato dalle seguenti parole: “Al suo mazzo ne mancava uno”.» Spiritoso e ironico Eduard Manet, ma attenzione: l’opera di soli 16×21 centimetri, non è un regaluccio semplice, rivela tutto il talento di un artista e come scrive Georges Bataille, «Questa non è una natura morta come le altre! Morta, sì, ma al contempo vivace.» È un realismo straordinariamente tangibile quello di Manet, dato da una pittura     nervosa, sincopata, fatta di tache, macchie e righi veloci, spregiudicata, ma da non confondere mai con quella impressionista; seppure l’artista venga riconosciuto da Bazille, Renoir, Monet come il loro maestro e il capofila, Manet rifiuterà sempre di esporre con loro, gli Intransigenti, questo il primo nome del gruppo degli impressionisti. Manet va sempre alla ricerca di quel riconoscimento ufficiale, di quella patente accademica che a Parigi offriva solo il Salon, voleva essere un classico. E lo è. La sua meditazione sulla pittura classica è proprio quella che ne beve la lezione più vera e non la imita, ma la rende moderna. Manet a lungo non sarà compreso.  Le sue opere saranno dileggiate, irrise e ritenute scandalose: da Le déjeuner sur l’herbe dove un nudo femminile è esibito in compagnia di due gentiluomini parigini vestiti di tutto punto, alla nudissima, sprezzante e invitante Olympia; la donna con uno sguardo da “Nessuno mi può giudicare” guarda direttamente lo spettatore adescandolo, indossa solo un perverso collarino nero e dondola sciatta una ciabattina verde. Questa non è certo una posa da dea, i cui corpi perfetti dal vellutato color di mandorla venivano ammessi nella loro nudità sui quadri degli artisti accademici, da Ingres a Cabanelle in testa, ma qui invece c’è un corpo da pasto per i voyeur di una casa chiusa.  L’ Olympia non è in mostra, ma ce n’è una copia che occhieggia da un altro capolavoro di Manet: Il ritratto di Emile Zola del 1868, dove lo scrittore di Nanà e del J’accuse è lo strenuo difensore della “pittura moderna” di Manet con Baudelaire e il poeta Mallarmè, il cui ritratto fluido e melanconico è pure in mostra.

Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868)
Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868)
Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868), particolare
Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868), particolare

Nel quadro dietro a Zola di coltello occhieggia la riproduzione di quell’Olympia che sembra guardare riconoscente verso chi, in modo profetico, l’aveva definita un “capolavoro” degno del Louvre. In realtà  sono proprio gli elementi di contorno al profilo da medaglia, inespressivo e statico di Zola, ad essere una cartina di tornasole, anzi una “summa” dell’arte di Manet. Insomma questo non è il ritratto di Zola, ma l’autoritratto indiretto dello stesso artista francese e dei fondamenti del suo dipingere moderno: l’arte giapponese e Velázquez.  Il Giappone arriva in Francia proprio come la Grande Onda di Hokusai. Essenzialità e bidimensionalità colpiscono Manet come tutti gli Impressionisti; nel quadro il paravento nipponico e una stampa di Utamaro testimoniano questo amore. Ed ecco poi la Spagna con la presenza nell’opera di una incisione dai Borrachos (I beoni) di Velázquez, «il pittore dei pittori», afferma Manet quando, giunto in Spagna nel 186, vistando il Prado viene incantato dal Buffone Pablo di Valladolid di Velázquez, tanto da raccontare all’amico Fantin Latour: «Lo sfondo scompare: è solo aria, che circonda questo buffone di corte» E aria sia! Ed è quella che circonda l’icona della mostra: Il piffero – Le fifre del 1866.

Edouard Manet (1832 – 1883), Il piffero (1866)
Edouard Manet (1832 – 1883), Il piffero (1866)

La tavolozza dei colori è ridotta all’essenziale, lo spazio è privo di profondità: unico accenno alla tridimensionalità è l’esile ombra dietro al piede sinistro.  Si distingue a malapena il confine tra il piano orizzontale del pavimento e quello verticale dello sfondo, perché il Piffero è quasi sospeso nell’”aria” grigia uniforme, con pochissime sfumature e totalmente spoglia.

Ed è un rumor di nacchere e toreade nella sala della mostra “L’heure Espagnole”. Nel Combattimento di Tori (1866) la massa furoreggiante è data solo da brevi macchie indistinte, quasi en attendant Picasso, mentre il critico dell’epoca, Edmond About, descrive il quadro come “un torero di legno ucciso da un topo” per evidenziarne gli “errori” di prospettiva.

Edouard Manet (1832 – 1883), Corrida (1865–1866)
Edouard Manet (1832 – 1883), Corrida (1865–1866)

Pifferi  e massa, clochard e miserabili , tutti senza distinzione tra alto e basso, sono i muti testimoni della  Vita moderna che dà il titolo alla mostra, così come la vorticante ballerina gitana  del dipinto Lola di Valnciaq, o La cameriera della birreria,  del 1878-79, con i suoi boccaloni in equilibrio, ma dallo sguardo fisso e indagativo, quasi non sentisse dietro di lei il can can del ballo;  drasticamente  segata a metà la cantante, con un vero taglio della disciplina emergente, la fotografia.

Edouard Manet (1832 – 1883), La cameriera della birreria (1878-79)
Edouard Manet (1832 – 1883), La cameriera della birreria (1878-79)

Sguardi persi, solitudine e ombre che salgono fino al mistero nero del Balcone.

Edouard Manet (1832 – 1883), Il balcone (1868-1869)
Edouard Manet (1832 – 1883), Il balcone (1868-1869)

In bianco abbagliante c’è l’amata Berthe Morisot, sua modella, cognata e pittrice, accanto una coppia di amici, e dietro, nel buio di gazza, il figlio Leon: immobili, come persi in un vuoto interiore. Il quadro fa nuovamente scandalo. “Chiudete le imposte!” ironizza il caricaturista Cham, ma ormai, per mano di Manet, i neri abissi della psiche si fanno largo nella vita moderna.

Giuseppe Ungaretti, complice della nostra innocenza

Un poeta italiano enclave fra l’alfa e l’omega della poesia neoellenica del XX secolo

Quando New York non era ancora la big apple che oggi tutti conoscono, un ultra-millenario emblema di cosmopolitismo e integrazione si era già costituito sulle coste del Mediterraneo: Alessandria d’Egitto. L’eterogenia della popolazione aveva portato all’assenza di un sentimento patrio preciso, di una tradizione culturale definita, favorendo altresì una libertà di costume anomala per gli standard europei. L’unico spazio comune all’interno dei confini urbani non era un luogo o un edificio pubblico, ma una lingua, la lingua greca.

Assume i toni della favola pensare che in quella città fuori dal tempo, al tavolo di una latteria del boulevard di Ramleh, ogni sera Constantino Kavafis, impiegato part-time dell’Ufficio irrigazioni e massima voce poetica delle letteratura neoellenica di inizio secolo, sedesse al tavolo con i giovani redattori della rivista Grammata a cui spesso si aggregava un non ancora ventenne Giuseppe Ungaretti.

Costantino Kavafis
Costantino Kavafis

Ungaretti – nato ad Alessandria un quarto di secolo dopo Kavafis -, in tarda età, ricorderà il poeta greco con l’ammirazione di chi sapeva di essersi seduto non sulla spalla, ma accanto alla sedia di un gigante sentenzioso e assorto, ma pur sempre umile e affabile:

«non voleva che lo considerassimo più d’un compagno, sebbene ci fosse maggiore d’età e già dagli intenditori fosse salutato vero poeta. A volte, nella conversazione lasciava cadere un suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata, allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere».

Giuseppe Ungaretti
Giuseppe Ungaretti

La memoria si fa versi nella prima produzione dell’autore de Il porto sepolto e le lezioni desunte dal Canone Kavafis si delineano con saggezza sotto diversi aspetti: innanzitutto viene recuperata l’intenzione di scrivere una sorta di «Iliade rovesciata, in cui gli eroi sono sempre più grandi della loro caduta» (D. Grandmont), esempi fulgidi potrebbero trovarsi nella voci di San Martino del Carso o di Veglia che reagiscono strenuamente all’orrore della guerra, portando alla luce l’élan vital che abita chi sopravvive ad una catastrofe, parallelamente in Kavafis si potrebbero leggere Il dio abbandona Antonio e Troiani; la seconda influenza è presente, invece, nell’accento storicistico ravvisabile non solo nell’argomento trattato, ma soprattutto nella sua inclusione all’interno dell’assetto formale delle poesie, infatti costante della poesia ungarettiana è apporre una data che collochi il testo in una determinata dimensione cronica, proponendo un modo di poetare storico, che si concentri più sui particolari (τὰ καθ’ ἕκαστον) che sull’universale (τὰ καθόλου) – per utilizzare categorie aristoteliche -, eppure tale tipo di operazione talvolta era già stata praticata dallo stesso Kavafis in cui non è difficile rintracciare testi come Il gennaio del 1904 o Giorni del 1909, ’10 e ‘11.

Nel 1912 Giuseppe Ungaretti lascia l’Egitto ma porta con sé quel lampo di luce greca che Alessandria gli aveva donato per illuminare il mondo fra le due guerre, restando fedele alla lirica degli alberi delle nuvole e delle stelle di matrice arcaica. Questo bagliore sembra giungere alle isole dell’Egeo e avere la forza di irraggiare Odisseas Elitis, poeta ellenico e vincitore nel 1979 del premio Nobel per la letteratura, che scriverà un breve saggio sulla poetica di Ungaretti, contenuto in Carte scoperte (Atene, 1974) e pubblicato in Italia nella raccolta di saggi Il metodo del dunque (Roma, 2011, curatela di Paola Maria Minucci).

Odysseas Elytīs
Odysseas Elytīs

Nel suo lavoro critico Elitis si lascia andare all’autobiografia e confessa di accusare un forte senso di malessere ogni volta che si accosta alle mostruosità delle metropoli. Unico esorcismo possibile sembra allora fare o pensare semplici cose (mangiare del pane o pensare ad un’isola) per recuperare quella «sufficiente scorta di luce» che controbilancia il buio nel mondo. In questi casi la poetica ungarettiana sopraggiunge spontaneamente nell’animo del poeta greco per cercare di delimitare, nella complessa realtà che ci circonda, le linee della vita «in un disegno il cui limpido contorno, come il mare intorno a un’isola, ci lascia vedere meglio quale possa veramente essere il mondo degli uomini in tutte le epoche, una volta tolto il peso delle nostre vanità».

Il lettore profila un’immagine di Ungaretti come complice della sua innocenza, qualità che non concede scudi o armi contro ciò che quotidianamente subiamo, ma ci permette di osservare il mistero della vita e della morte con la certezza di essere mondi.

Il poeta di Mattina (M’illumino / d’immenso) e l’autore del Dignum est (ΣΤΗΝ ΑΡΧΗ τὸ φῶς, “In principio c’era la luce”) sono due uomini che hanno vissuto distintamente le loro esistenze, cercando di tracciare con i loro versi le traiettorie comuni dei raggi del sole mediterraneo: un sole onnipresente e intramontabile anche quando si è giunti al confine con l’abisso.

Giorgio de Chirico, L’archeologo (1927)

Pochi mesi prima di morire Ungaretti inseguirà ancora quella luminosa stella nella speranza estrema che una poesia possa fare deflagrare le tirannidi che ci attanagliano:


       Grecia 1970
       Roma, il 12 dicembre 1969

       Atene, Grecia, segreto, vertice di favola incastonata
    dentro il topazio che l’inanella
          Sul proprio azzurro insorta in minimi limiti, per esse-
    re misura, libertà della misura, libertà di legge che a sé
    liberi legge.
         Sino dal mare, dal cielo al mare, liberi l’umano verti-
    ce, la legge di libertà, dal mare al cielo.
        Non saresti più, Atene, Grecia, che tana di dissennati?
    Che tana della dismisura, Atene mia, Atene occhi aperti 
    che a chi aspirava all’umana dignità, apriva gli occhi.
          Ora, mostruosa, accecheresti?
          Chi ti ha ridotto a tale, quali mostri?

Come scalare il Guercino

Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola. Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.

Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.

Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola, Le vele con Davide e Isaia si devono al Morazzone, il resto del ciclo di affreschi è di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino
Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola Sibille

A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?

Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola, Riposo durante la fuga in Egitto
Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale… Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846. Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.

A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) La morte di Cleopatra, 1648, Olio su tela, 173 × 238 cm, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso

E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) Cristo risorto appare alla Madre, 1628-1630, Olio su tela, 260 × 179,5 cm, Cento, Pinacoteca Civica “Il Guercino”

Per mantenere le stimmate del mondo terreno – e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 – Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666), Immacolata Concenzione 1656, Olio su tela, 258 x 180cm, Ancona, Pinacoteca Civica “F. Podesti”

 

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666), Immacolata Concenzione 1656, particolare

Culiano, la gnosi come thrilling

Per raccontare questo thrilling filosofico conviene partire di lontano, dalla fine degli anni venti, quando Mircea Eliade, all’epoca giovane studente rumeno, in futuro scrittore fantastico e storico delle religioni, conosce a Firenze Giovanni Papini e due storici delle religioni, il sacerdote Ernesto Buonaiuti e il professor Vittorio Macchioro, entrambi ai ferri corti con la Chiesa e col fascismo. In Italia raccoglie la documentazione per la sua tesi di laurea sulla Filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno e legge A history of indian philosophy di Surendranath Dasgupta. È la lettura di questo libro a suggerirgli una di quelle idee che decidono il corso d’una vita. Poiché la sua famiglia non può permettersi di pagargli gli studi in India, dove vuole trasferirsi dopo aver letto Dasgupta, Eliade scrive al maharaja Manindra Chandra Nandy di Kassimbazar chiedendogli una borsa di studio. Questi gliene offre una a stretto giro di posta. Poche settimane più tardi Eliade è a Calcutta e studia con Dasgupta. Impara rapidamente il sanscrito, scrive novelle, tiene un diario, studia lo yoga e la storia della filosofia indiana.

Passano 45 anni e un giovanissimo studente dell’est, Ioan P. Culianu, scrive a Eliade una bella lettera dagli abissi della Romania di Ceasescu. A Bucarest, gli dice, non potrò mai studiare, come vorrei, storia delle religioni. Eliade, il suo modello, un compatriota, non potrebbe procurargli una borsa di studio americana? È praticamente la stessa lettera che Eliade, nel 1927, aveva scritto al maharaja di Kassimbazar. Come ci sono offerte che non si possono rifiutare, ci sono favori che non si possono negare: Eliade si prende a cuore il caso. Riesce a procurare al giovane rumeno (il solo rumeno che sotto Ceausescu osi manifestare interesse per una materia antisocialista come la storia delle religioni e per un nemico del popolo come il fascistissimo Eliade) una borsa di studio italiana; il Dipartimento di Stato americano, temendo un’infiltrazione dei servizi segreti rumeni, risponde infatti picche alla richiesta di Culianu, che in Italia pubblica alcuni libri fondamentali sul dualismo, sull’identità tra religione e politica, sulla filosofia rinascimentale, e in particolare su Giordano Bruno e sulle tecniche della propaganda. Soltanto all’inizio degli anni ottanta Culiano ottiene un visto per l’America. È assistente e professore supplente d’Eliade all’Università di Chicago, dove lo storico delle religioni insegna storia del cristianesimo; alla sua morte, nel 1986, gli succede sulla cattedra. Tre anni più tardi, quando Nicolae Ceausescu e signora sono finalmente sbalzati dal trono, Culianu non s’unisce al coro dei rumeni esultanti, ma sente subito odore d’imbroglio. Soprattutto quando a Timisoara comincia la macabra saga dei cadaveri: centinaia d’oppositori assassinati e sotterrati in un campo, che la polizia politica rumena, passata agl’insorti, disseppellisce uno dopo l’altro (puro Bram Stoker) in diretta televisiva, all’ora dei telegiornali americani.

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L’inquirente dimezzato (Joan Petru Culiano)

Il 21 agosto 1989, su invito degli organizzatori del Meeting di Comunione e Liberazione che si tiene ogni anno a Rimini, Joan Petru Culianu partecipò assieme a Roberto Barbolini e al moderatore Pier Alberto Bertazzi a una tavola rotonda sul tema “L’inquirente nella letteratura, cioè il protagonista dell’indagine”. Dall’archivio di Riminimeeting (www.meetingrimini.org) riprendiamo la la trascrizione del suo intervento, con qualche taglio e il titolo redazionale L’inquirente dimezzato. Per la figura e l’opera di Culianu, ucciso all’Università di Chicago in circostanze misteriose (probabilmente legate alla politica rumena del dopo-Ceausescu) ad appena quarantuno anni, si rimanda al mirabolante saggio di Diego Gabutti Culianu, la gnosi come thriller che TheLivingStone è lieto di pubblicare.

L’INQUIRENTE DIMEZZATO

Sulla narrativa fantastica di Mircea Eliade

di Joan Petru Culianu

C’è una questione posta a tema anche in altri incontri di questo Meeting, come “Uomo animale paradossale e curioso”. Un’opinione diffusa tra i socio-biologi, è che quel che costituisce l’unicità della specie umana siano due tendenze in stretto rapporto tra di loro: la neofilia e la neotenia, due parole che appartengono al gergo dei biologi. Neofilia viene dal greco neos-nuovo e filia-amore, quindi amore del nuovo, curiosità, se si vuole; e neotenia dalla parola neotes, in greco infante. L’essere umano è tale perché è inquirente, perché è curioso del nuovo e della scoperta, ed è così perché è incline a restare giovane. Tra l’altro, i socio-biologi non esitano a mettere in relazione neotenia, cioè infantilismo, e perdita del pelo, allo scopo di continuare ad avere la pelle liscia come i bambini. E, se i maschi si radono la barba, è per conservare gli attributi degli infanti. Quindi l’essere inquirente va di pari passo con l’essere umano, e l’essere giovane, al punto che si può dire che è l’inchiesta a creare l’uomo e non l’uomo a creare l’inchiesta. La storia umana stessa appare come una lotta tra neofilia e neofobia, tra inchiesta al fine di scoprire e inquisizione al fine di arrestare la scoperta; tra indagine, esperimento nel campo del sapere e inchiesta poliziesca, per scoprire i desiderosi di cambiamento e mettere fine alla loro opera. Non mi stupirei se qualcuno vedesse in questa contrapposizione tra ricercatore e inquisitore anche una contrapposizione di sistemi politici. In questo Meeting si parlerà della Cina e della Romania, come rappresentanti di sistemi politici neofobi. Ma quel che c’è da ritenere da tutto ciò è che, quantunque di indagine si tratti in ambedue i casi, e quindi di soddisfazione dell’istinto neofilico umano, in un caso abbiamo a che fare con un’indagine per affermare la propria libertà, e nell’altro con un’inquisizione che mira ad arginare o sopprimere l’affermazione della libertà. In questo secondo caso, pur conservando l’aspetto dell’indagine, l’inchiesta è rivolta contro le sue stesse premesse neofiliche e finisce nella sclerosi totalitaria. Un teologo, chissà, potrebbe definire questa situazione inquisitoriale come male, o come demonismo (…).

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Leggete e Tacete

Che dire di Antonio Tacete, «questa sorta di vin Santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park »? Soprattutto: che dire di Tacete, che non abbia già detto lui, nascondendolo apertamente nella vanvera vorticosa d’una scrittura di ripugnante attrattiva? Il paragone immediato e blasfemo, giusto per non far torto alle sue non comuni aspirazioni, alle sue ardue traspirazioni narrative, è con un premio Nobel della letteratura: il cinese Mo Yan. Uno pseudonimo che significa «colui che non vuole parlare». Ora, immaginatevi che razza di buffo rendez-vous continuamente mancato sarebbe quello fra uno scrittore parmigiano che ha scelto come nickname l’imperativo «Tacete!» e il suo celebre collega, l’autore di Sorgo rosso, che dal canto suo non ha alcuna voglia di parlare. Ma potrebbe invece trattarsi d’ uno di quegli incontri fortuiti fra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico auspicati da un certo Lautréamont… E qui il vecchio Carl Gustav Jung andrebbe in brodo di giuggiole per via di una coincidenza straordinariamente significativa: l’autore dei Canti di Maldoror ha infatti avuto l’arduo privilegio di legare la sua morte alla nascita di Tacete. Come ci racconta col suo stile inconfondibile, costui è infatti nato proprio il 18 marzo del 1970, «un secolo esatto dalla morte dello scrittore Isidore Ducasse detto conte di Lautréamont, lui poeta benigno, l’altro poeta maleficissimo, un giorno prima della fiera di San Giuseppe, dove nonni gobbini portavano i nipoti pupattoli a vincere pesci rossi ». Questi nonni gobbini sono già gli antesignani del nano Villa e della corpulenta nonché crapulenta corte dei miracoli che si aggira spetezzante e sogghignante nelle pagine di Le lucciole nella lana delle pecore, carnevalesco sabba di parole che solo un coraggioso capitano di ventura come Mario Guaraldi poteva aver l’ardire di pubblicare. Come vedrete dalle paginette che TheLivingStone ha scelto, infatti, la prosa di Tacete non è per nulla accomodante. Può forse peccare di narcisismo, ma non di quella consolatoria ipocrisia che costella tanta narrativa italiana, soprattutto quando si finge dedita a scopi altamente sociali. D’accordo: Tacete è uno scrittore arrogante: solo un losco figuro può ordinarci così perentoriamente di tacere, arrogando unicamente a se stesso il diritto alla parola. Ma se vi azzardate a seguire le mille capriole verbali di questo stramboide, se vi lasciate catturare dal suo mondo teratofilo e blasfemo, da quell’immaginazione grottescamente copulante e dalla sua indisponente malalingua, capace di farvi prendere lucciole per lanterne e viceversa, avrete l’ambiguo e silenzioso privilegio di gustarvi una prosa irta, inconciliata e mai paga, che vi appagherà non poco. Tacete, dunque, e leggete.

Roberto Barbolini

Antonio Tacete – Le lucciole nella lana delle pecore

 

Per gentile concessione dell’editore Guaraldi, pubblichiamo i brani iniziali della vanvera narrativa  Le lucciole nella lana delle pecore di Antonio Tacete.

Il noce

Villa il nano ed Uringrissin, un torinese dotato di un pene che, se in erezione, era sottile e lungo come un grissino, andarono a trovare nella sua abitazione umidiccia di Via Pontremoli il barbiere detto Scravata che raccontava ilarità e barzellette, come quando ad Abbiate Grasso era giunta su un pullman una comitiva di lottatori di sumo e il torinese ridolava ed inframmezzava al riso esclamazioni del tipo di ‘neh’. così giunsero a Noceto, in un casolare dal cortile erboso della corte dove si ergevano noci giganteschi e nel cui pollaio videro un uovo schiudersi e crepare e nascere due pulcini contemporaneamente. L’indomani, il giorno di San Martino – l’estate d’inverno – per la festa dell’omonimo santo nella chiesa a lui intitolata, in un fondale-piscina pieno d’acqua della sagrestia, assistettero alle battaglie navali dove, su gusci di noci giganti come se queste fossero botti grosse da 5000 mila litri di vino, con per alberi rami di noce munito di vele, paesani combattevano a colpi di cannonate sparanti palloni per affondare l’altrui nave.

 

La Spalla cotta di San Secondo

Un nano di San Secondo detto Spalla innamorata San Secondo – nel paese che si chiamava così perché nei pranzi il secondo non toccato, vergine, veniva sostituito dall’antipasto del salume di prosciutto, fatto con la parte superiore dell’arto anteriore del maiale – sostava a Busseto dove, in quel momento, il musico Verdi era salito su una carrozza a forma di cigno e smaltata di bianco e invitò l’estate successiva Villa il nano in un coltivo immerso dal mare verde di un’onda di cavallette, alcune giganti e verdi come draghi, ed in cima al mucchio immenso faceva capolino un grillo nero e così Villa il nano assistette anche al Palio nel paese dove cavalieri dovevano infilare aste a forma di lunghissime dita indici stando in equilibrio sul cavallo in un anello sostenuto a mezz’aria da un saracino e due delle contrade erano la ‘dragonda’ ed il ‘grillo’: simbolo delle invasioni di orteotteri e di pulcensi nei campi. Dopo l’agone del palio c’era la fiera e Villa il nano vide davanti ad un banco di dolciumi un nonno chiamato di cognome Vescuovi con il suo pupattolo nipote detto Bimbiberon, che rimiravano i croccanti a forma minuscola di rocche parmensi, come se fossero fatti di mandorle con calce di miele e comprarono il castellino di Soragna e se lo sgranocchiarono mentre nella calca della sagra il nano scorse incedere a carponi un quarantesimo cugino del marchese Meli Lupi al quale, imprigionato nelle prigioni del feudo da quel dinasta parente, erano cresciuti peli spessi da lupo, e proprio come questa bestia camminava appoggiandosi come alle zampe, alle braccia e alle gambe. Con il comico mercenario nonché capitano di ventura chiamato Ubertosacqua, il nano Villa giunse a Soragna dove piovevano dal cielo mele a forma di teste di lupo e peli neri di questi animali voraci.

 

La barba fluente

il poeta gobbo Leopardi, ospitato a Napoli nella casa dell’amante letterato Antonio Ranieri, preparandosi un minestrone scambiava il pentolone pieno di verdure per la selva oscura di boschi di fagioli, carote e sedani dell’inferno rosso infuocato di passata di pomodoro in cui, incuriosito come l’Alighieri, sfidando i bollori voleva entrare nella bocca della pentola gigante come se fosse l’ingresso di un girone infernale. Dopo aver sorseggiato la pietanza il recanatese ed il napoletano fecero sesso su un letto matrimoniale. Un leguleio partenopeo dalle scorregge legumiche aveva processato la camorra che regalava a Leopardi bocconcini giganti di mozzarelle, pizze, maccheroni, confetti, strufoli, pastiere, barrette di cioccolato, gelati, zabaioni, limoncini e carne d’asinina da fare in umido, doping del poeta per scrivere i suoi versi. La notte dopo il coito il figlio di Monaldo fece sogni stramboni e in una visione onirica vedeva crescere la barba fluente ad un regnante Borbone la cui peluria risaliva lo stivale italiano impossessandosi e ricoprendo la sua crosta terrestre fino ad arrivare con la punta ricciola della bazza allo zerbino dell’abitazione torinese di Cavour e su questo tappeto peloso il Leopardi si sognava di giungere in Sicilia a mangiare babà e cassate. Nel sogno si sognò con l’amico di giungere nel Granducato di Toscana dove allora regnava Leoppolodo, precisamente al Palio di Siena, che vinse un fantino gibbo come lui chiamato il Santini detto Saragiolo, che portato in trionfo dai contradaioli e denudato da questi mostrava questa gibba sulla schiena a forma minuscola di un groppo del Monte Amiata detto Saragiolo, dal quale aveva preso il nomignolo.

Le due Iris di Shalev

Iris è una donna israeliana di quarantacinque anni che vive a Gerusalemme. Ha una famiglia – un marito e due figli grandi – e un lavoro in cui mette tutta se stessa: è direttrice in una scuola dove si tenta con coraggio e tenacia l’integrazione tra arabi ed ebrei, è stimata da tutti. Dieci anni prima è rimasta coinvolta in un attentato a un autobus, passava di lì nel momento dell’esplosione (a causa di un cambio di programma forse imputabile a un tradimento del marito) e ha riportato gravi ferite per le quali ha subito interventi chirurgici e lunghi periodi di ricovero. Dopo un decennio di relativo benessere fisico, improvvisamente il dolore fisico si risveglia, lancinante, insopportabile. “Devo aver  fatto un movimento sbagliato, prendo una pastiglia e vado a lavorare” dice a Michi, il marito che la soccorre spaventato.

Zeruya Shalev, Dolore (Copertina)

Invece il dolore non passa, anzi peggiora. Così decide di interpellare un luminare nel campo della terapia del dolore e qui un’incredibile coincidenza le fa reincontrare l’unico vero grande amore della sua vita, Eitan, con cui a diciassette anni aveva vissuto una storia travolgente e che l’aveva abbandonata dopo la morte della propria madre, amorevolmente assistitita da Iris per tutta la malattia. Dopo l’abbandono lei era caduta in una profondissima crisi e aveva trascorso mesi di completa abulia, sfiorando l’annientamento fisico e psichico. Da allora non l’aveva più incontrato. Iris decide di rivederlo, lo cerca, chiede insistentemente alla sua segretaria un appuntamento per un’altra visita. Le pare che la sua vita possa finalmente uscire dai binari grigi su cui ha proceduto per vent’anni con un matrimonio insoddisfacente, con un uomo che non è quello giusto e con cui ha generato due figli che dovevano essere invece i figli di Eitan. La sua vita può riprendere il corso naturale che per un errore era stato abbandonato. Per caso, proprio in quei giorni viene a sapere che Eitan, poco tempo dopo l’abbandono, era andato a cercarla per tentare un riavvicinamento. Ma lei quel giorno non era in casa, e lui, cacciato in malo modo dalla madre, non l’aveva più cercata. Questa tremenda beffa del destino la convince ancora di più a perseverare nel suo tentativo di riavere l’uomo che è stato la sua gioia e la sua rovina e di recuperare il tempo perduto. E ci riesce. I due riprendono la relazione lì dove l’avevano interrotta, convinti di poter cancellare con un colpo di spugna i decenni di lontananza e le nuove vite che nel frattempo si sono costruiti. E subito Iris si caccia in situazioni che sfiorano il grottesco – nel giardino del condominio dove abita Eitan, di sera al buio, nascosta come un ladro nel folto di una siepe, o a casa sua, dove, febbricitante, in pagine tra le più riuscite e divertenti del libro, riceve l’amante-medico senza accorgersi della domestica che li sorprende in atteggiamento quantomeno sospetto e alla quale lei fornisce spiegazioni decisamente inverosimili.

Mentre il desiderio di rivedersi si fa ogni giorno più impellente e si scontra con le complicazioni della vita familiare e lavorativa di entrambi, Iris scopre che sua figlia Alma è in pericolo: a Tel Aviv dove lavora è caduta nella rete di una setta a capo della quale c’è proprio il titolare del locale dove la ragazza fa la cameriera. E subito si affaccia il pensiero che, se vuole salvare la figlia, dovrà rinunciare all’uomo che ha appena ritrovato e che cerca di convincerla a lasciare la sua famiglia per cominciare una nuova vita con lui. L’aut-aut è immediato nella sua testa. Così come non riesce a cogliere l’opportunità di un incontro che, comunque, sarà un nuovo incontro e continua a riproporre la messa in scena di un canovaccio ormai defunto da secoli, allo stesso modo Iris non riesce a tenere separati i fili della sua esistenza, ciascuno con la propria responsabilità, i propri sentimenti, il proprio tempo, e ha bisogno di barattare l’uno con l’altro, senza riuscire a venire a capo di niente. Se io rinuncio a Eitan, allora Alma si salverà. Questo il pensiero che guida le ore frenetiche di Iris a Tel Aviv. Dopo una sequenza drammatica in cui, nel tentativo di impedire ad Alma di distruggersi con le proprie mani, Iris rischia di finire un’altra volta in ospedale, nelle ultime pagine la famiglia si trova finalmente riunita al suo capezzale, in un quadretto che cerca di ricomporre un’armonia mai esistita, e dove traspare un senso di incompiutezza molto forte.  Se è vero infatti che Iris non può pensare sul serio di riesumare come se niente fosse una storia che aveva vissuto all’età di diciassette anni (e la scena in cui Eitan, in trattoria, la costringe a ingoiare della carne, a lei che da vent’anni è vegetariana, lo dimostra con una violenza che nessuna spiegazione avrebbe potuto esprimere e misura l’abisso che in realtà separa i due amanti), è altrettanto vero però che nel libro non si spiega mai cosa veramente c’è stato di “necessario” nella storia con suo marito. Michi per tutto il libro ci appare una figura di contorno, insignificante. La domanda che il lettore si fa dall’inizio del libro è: “Ma perché lo ha sposato?”. Le figure femminili (Iris, Alma, l’amica Noa con la figlia Daphne) sono ben delineate, vive, si impongono al lettore. Quelle maschili invece (Michi, Omer, perfino Eitan, che a un certo punto Iris comincia a chiamare Dolore) sono sfuocate, sbiadite, incoerenti. Ma, nonostante tutto, l’autrice sembra incapace di credere che un’altra storia, al di là di quella fantasticata e di quella reale, sia possibile. La scelta per lei è tra la farsa di un amore tra liceali e il presente, a cui lei attribuisce un valore “a prescindere”. E infatti, nelle ultime pagine, alla figlia che le dice “Dolore ti ha cercato” e che chiede spiegazioni su quest’uomo dal nome bizzarro, Iris confida:“ [È stato] il mio primo fidanzato. L’ho rivisto per caso nello studio medico, qualche settimana fa”, e Alma la ascolta interessata: “L’hai rivisto dopo trent’anni? Allora è per questo che stanotte l’hai sognato! Davvero sembra un sogno!”. “Hai ragione, non fa parte della realtà” mormora Iris … “è una specie di fuga dalla realtà,” e Alma dice: “che c’è di male nella fuga?”, e sua madre esita un attimo, prima di rispondere: “quando si scappa non è mai libertà”.

Il presente di Iris tuttavia in realtà è la greve storia di un attuale senza passione, senza posta in gioco, segnata solo dal dolore fisico che non dà tregua e dal legame creato dal lavoro e dai figli. Non una parola riscatta davvero questo presente, dove per tutti a dettare legge è il senso del dovere e l’impegno quotidiano. Come a dire: nel presente non c’è posto per il sogno e l’amore, solo ciò che accade sul piano del reale conta davvero. Non a caso, sarà la figlia rientrata all’ovile a gettar via il biglietto di Eitan, nel quale egli aveva scritto a Iris “Torna da me”.

Una scrittura potente quella di Zeruya Shalev, verrebbe da dire quasi maschile, senza tentennamenti, senza mezze misure. Travolgente, brillante. In questa storia senza pause si piange, si ride, si mangia, si beve, si suda. I corpi sono ora puliti e profumati, ora sporchi e puzzolenti. Come le strade, le città e le case in cui i personaggi della storia si muovono. Immagini dai colori saturi, le sue, che vengono da un altro mondo, quello di Israele, dove la vita e la morte, il bene e il male, i sentimenti, le percezioni sensoriali, le parole hanno il rigoglio di un tempo arcaico, sono esposti alla luce di mezzogiorno. Una scrittura che rimbalza di continuo dal tempo attuale – fatto di cellulari, computer, messaggini, rumori di città, auto nel traffico, cosmetici, negozi, ospedali – al tempo biblico, scandito da altri ritmi e altri suoni, un tempo sospeso che ricorda l’eternità e la morte, ciò che – come il dolore per Iris – non passa e insiste.

Dolore, di Zeruya Shalev, sul sito dell’editore