Poesie

La poesia che ho pubblicato

La poesia che ho pubblicato
Era la stessa del foglio che ho lasciato
scritto in un angolo,
per anni dentro un cassetto.
La poesia che ho pubblicato
Era quella che il mio cuore
ha aperto sul mondo,
come un melograno maturo
col riso spalancato
in grani lucenti e rossi,
gustosi e acerbi.

Ho corretto qua e là,
gli errori, la lingua, la forma,
la grammatica.
È rimasta intatta la linfa
vitale che ha mosso la libertà
di parlare, agire, pensare,
sognare, partire, tornare, restare.

Immutata la voglia bruciante
del mio cuore di dire a voce alta,
pur sussurrando,
le cose che ho scritto
su quel foglio strappato,
e che dirò.

Parole impresse nel primo inchiostro
che desse segno,
pietra o telefono che ho trovato.
In tutti questi anni,
in tutto questo tempo,
so per certo che,
grazie alla poesia che ho pubblicato,
non è affatto cambiato il mio cuore,
sei tu a esser cambiato, o lettore.



L’Africa
(Scritta dopo l’attentato di Barcellona, 18/08/2017)

L’Africa è nel terrore.
Nel terrore di vivere e morire,
Nel terrore di partire e tornare.
Nel terrore dell’Africa
C’è il terrore dell’Occidente,
Nel terrore dell’Occidente
C’è il terrore dell’Africa.

Il terrore della presenza,
il terrore dell’assenza.
Quanto Occidente c’è in Africa?
Quanta Africa c’è in Occidente?
Dell’Occidente è il terrore dell’assenza,
Dell’Africa è il terrore della presenza.
Eppure l’Africa è assente
L’Occidente è presente.

Perché l’Africa è assente dalle Borse mondiali?
Perché in Africa non si corre il Gran Premio di Formula Uno?
Le macchine più veloci al mondo sono fatte,
e corrono, col petrolio africano,
e in Africa non si corre un Gran Premio!
Sono gli africani il petrolio dell’Africa.
Fuggono dalla schiavitù di casa
per diventare schiavi dell’Occidente.

Col terrore negli occhi
di chi ha conosciuto il terrore,
manifestano così la loro presenza al mondo.
Il terrore negli occhi sotto gli occhi
di chi è assente in casa propria.

Perché, allora, alla presenza dell’Occidente
l’Africa è assente?
È vero, è giusto – dirai anche tu –.
Eppure queste cose le dico io,
ma dovrebbe dirle un africano in Africa,
e con lui molti africani in Africa.
Io dovrei sentirle pronunciate da loro,
anche fuori dall’Africa.

Non tu, ma io, dovrei
avere il coraggio di ascoltarle qui
pronunciate da loro,
per dargli ragione.
Tutto questo nonostante i loro morti,
nonostante i nostri morti.



Devo tacere…

Devo tacere, lasciarla parlare,
Fermare il moto del mio cuore,
Saper ascoltare, smettere di dominare,
di aggredire il mondo con verbosità convincente,
di ammiccare alla comprensione che comprende,
evitare di voler possedere quei segreti inconfessabili
che lasciano senza fiato, col tambureggiare ripetuto
di una lingua indolente e ribelle.

Non pretendere, ancora, di arrivare alla mente,
per vedere lei semplicemente che parla,
gesticola, sorride, si ferma per darmi un bacio d’improvviso.
Vederla muoversi elegantemente
tra le vie di questa città nuova,
districarsi tra politica, storia dell’arte,
immigrazione, trucchi e alta società.

Mai avrei pensato di incontrare la parte
migliore di me facendola semplicemente tacere,
ascoltare lei come un dono del cielo,
mentre guarda l’infinito del mare con l’infinito dei suoi occhi,
persi tra le sfumature dell’ultimo colore al tramonto,
quando il mare s’infrange rumoroso di fronte a noi;
sentirla esultare davanti a una stella cadente,
sotto il cielo stellato, guardato con gli stessi occhi,
una donna all’altezza del cuore,
cui segue silenzio per esprimere il Desiderio segreto.
Proprio lei non sa che questo è sempre stato
l’inconfessabile mio segreto:
scrivere righe profetiche accanto a lei.

Rima & Rhythmus musicae nella Comedìa

Il ritmo definisce quasi interamente la propria musica. Ritmo che –anche nella poesia dantesca – serve alla musica del testo: canto, cadenza d’intonazione, respiro creativo del poeta, equilibrio della composizione stabilito da pause e accelerazioni, attraverso l’endecasillabo suggerisce il fluire del tempo, stabilisce il susseguirsi continuo di versi in terza rima.

Terza rima di endecasillabi che, nella Divina Commedia, determina la prima azione del ritmo in quel testo. La stessa radice etimologica della parola rima pone davanti a un bivio: considerare la rima dal punto di vista metrico o dal punto di vista ritmico? Dal punto di vista della metrica o della fruizione musicale?[1] A partire dall’ultima vocale tonica, nella parte finale tra una o più parole, o versi, la rima possiede un’identità di suono e di accento che determina l’andamento ritmico e melodico del testo.[2] Il ritmo è, dunque, parte integrante di una funzione costitutiva, o qualità, della poesia che la critica spesso studia nel campo dell’analisi metrica, ma che all’origine delle lingue volgari ricadeva più propriamente nel campo musicale, dal momento che la poesia stessa rientrava nell’ambitus artis musicae.[3]

L’attenzione musicale espressa da Dante[4] ha forse più che il sapore di una ‘consapevolezza’ della critica moderna evidenziata principalmente con funzione ‘retorica’. Il fatto – per esempio – che il sirventese e la canzone fossero musicati all’età della Commedia, suggerisce certamente la funzione di un metro, ma dà anche conto della necessità che fu di Dante di creare un metro nuovo per un poema nuovo: poema classico nella forma e nello scopo, ma contemporaneo, pregno di una valenza musicale, più legata ai chansonnier medievali francesi che non ai ritmi declamatori di Virgilio.[5]

Ritmo musicale

 

L’aspetto della cadenza ritmica della terzina, dunque, la perfectio rhythmica della musica, aiuta a capire quale fu la portata di tale invenzione per un poema morale, epico, cronacistico, attraverso la sua funzione mnemonica, evolutiva, narrativa, musicale, orale, teologica, sillogistica, determinante per lo svolgimento della fabula poetica.

Fondamentale è analizzare il ritmo per definire la distribuzione dell’accento, il numero delle sillabe del verso, la posizione per cui anche il metro, alla fine, stabilisce quel ritmo. La distribuzione dell’accento metrico,[6] casi canonici a parte, che investono il modo e cioè il carattere del verso, fa sì che l’endecasillabo offra varie soluzioni ritmiche. Ci si richiama ad accento variabile ma, per quanto riguarda le possibili modulazioni dell’accento secondario, la collocazione finale spetta all’esecutore.[7] Il Fubini in particolare ha sottolineato la contrapposizione tra lettura ritmica, o lettura metrica, e lettura ad sensum. Riteniamo che una soluzione di compromesso sia adottabile, per ciò che pare insanabile nella distanza di posizioni tra studiosi di metrica classica e gusto recitativo di dizione dell’arte moderna. Gli uni e gli altri pare si discostino contrapponendo tra loro scelte di gusto a scelte di metodo.[8]

Parliamo di una lettura ritmica che consenta di percepire la regolarità metrica dell’endecasillabo scandito in terzine, ma che non smetta di considerare la pausa a fine verso, capace, da sola, di suggerire il tempo, il respiro semantico dell’intera frase. È una pausa musicale indispensabile, quella, utile alla comprensione del testo, per una lettura rispettosa della sua ritmicità. In tal modo si eviterebbe, per esempio, che il senso venisse soffocato dall’esasperazione timbrica, e che proprio il ritmo, di fatto, alla fine non conceda diverse significative varianti. Così si considera la ritmica evitando di distruggere il significato. All’interno di una lettura ritmica, mentre ci si abbandona al motivo di una lettura a voce alta, il senso del testo si recupera esattamente per via di quelle distanze architettonicamente cadenzate, già disegnate dall’autore, in sé già rivelatrici di significato.

C’è poi da considerare che anche le pause sistematiche in Dante svolgono un ruolo ritmico-semantico. Vengono applicate differentemente a seconda del luogo e dello scopo della funzione narrativa che ricoprono. Qualcosa di simile accade proprio col ritmo, quale varietà del contorno accentuale che dal metro interagisce col contorno prosodico. Metro e lingua, così, s’impongono l’uno sull’altra, creando una complessità timbrica e sonora che per esempio nell’Inferno – sono segno di ricerca delle rime difficili, di rime infernali, secondo la convenientia d’ottenere anche per via ritmica le rime “aspre e chiocce” (Inf. XXXII, v. 1), così come in Purgatorio e Paradiso gradualmente troviamo l’opposto rispetto alla tematica di quelle Cantiche.

Per l’Inferno, in particolare, Marina Nespor individua un ritmo astratto di tipo giambico. Schema formato da un’alternanza di posizioni metriche in tesi (debole) e posizioni metriche in arsi (forte).[9] Come esempio di lettura ritmica prendiamo un passo di Inferno, con quattro posizioni ritmiche principali, non necessariamente combinate con quelle sillabiche.[10] Solo dopo aver assegnato lo schema ritmico notiamo alcune importanti caratteristiche: esistono delle identità ritmiche, dei patterns. Si tratta di isole ritmiche, o nuclei ritmici, che nel brano si ripetono in diversi luoghi, e che qui per esemplificazione li abbiamo individuati con due colori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si vede, anche una breve analisi di questo tipo porta a diversi interrogativi e a varie soluzioni rappresentative, in una lingua costruita attraverso l’intreccio consapevole di suoni e timbri che, pur in un solo metro, dia svariate ragioni comunicative utili alla propria causa: per cui suono e concetto perseguono un loro unico fine.

BIBLIOGRAFIA

  1. Alighieri Dante De Vulgari Eloquentia in Le Opere di Dante, a cura di Pio Rajna, Società Dantesca Italiana, Firenze, 1960.
  2. Alighieri Dante, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1994.
  3. Beltrami Pietro G., Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002.
  4. Fubini Mario, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962
  5. Nespor Marina, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994.
  6. Terni Clemente, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975.

Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[1]   “Altro è il ritmo preso in considerazione nei manuali di metrica, che di necessità prescindono dalla poesia in concreto, altro è il ritmo reale, che risulta da tanti elementi, dalle parole, dal loro peso, dalla loro estensione, del loro colore, dai loro suoni, dalla loro varia disposizione, e così via; bisogna però sempre tener presente che solo per necessità di analisi parliamo di elisioni, cesure, ecc., e che questi elementi non esistono uno per uno: ciò che esiste è il ritmo; isolando quegli elementi distruggiamo la poesia”, Mario Fubini, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962, pag. 45. Si veda anche Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[2]    Dal francese antico, risme, e il provenzale rim o rima, la funzione del suo significato originario si ricava dal latino rhythmus. Dove rhythmus della poesia metrica latina era considerato il rapporto di equilibrio e alternanza tra sillabe lunghe e sillabe brevi, che nella poesia latina medievale, veniva detta appunto rhythmica. Indicando, cioè, le forme che vanno a perdere dinamica quantitativa, per rispettare altro tipo di parametri: numero delle sillabe, distribuzione dell’accento e rima, appunto. Si veda Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 75.

[3]    “Il rapporto fra metrica e musica nasce storicamente dal fatto che in origine (un’origine ripetuta più volte nella storia) i testi in versi erano tali perché eran testi per musica: si pensi quante volte la poesia è stata detta canto, anche quando non era per musica, e quante volte è stata effettivamente cantata. Le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica; ma la metrica, come la musica, organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni (non puri suoni, ma segni linguistici, fatti inseparabilmente di suono e significato), mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora.”, Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 13.

[4] “Poesim (…) nichil aliud est quam fictio retorica musicaque poita”, < La poesia altro non è che una finzione costruita sulla retorica e sulla musica > (De vulgari eloquentia, II, IV, 2).

[5]    Dante compose un sirventese enumerativo, dedicato alle trenta più belle donne di Firenze, fatto certamente legato alle sue frequentazioni culturali in ambito musicale. Ma una delle argomentazioni portate avanti dal Fubini, sulla scia del De Lollis, è che il sirventese sia genere letterario meglio accreditato a inquadrare da vicino la costituzione genetica della terzina. Il sirventese era una forma di componimento musicato, che si adattava alle circostanze d’occasione, poesia di attualità, d’invettiva, con un metro pressoché identico a quello della canzone. Anche la canzone, stando alle affermazioni di Dante, era componimento che aveva forti attinenze con la musica, dato che – dopo che il poeta aveva fatto il lavoro di ‘armonizzare’ il testo, per renderlo più fruibile non solo all’ascolto, ma anche al canto – poteva essere accompagnata d musica musicata. Da questo tipo di opera derivava il suo nome: canzone. Ma nel De vulgari eloquentia troviamo importanti parole di teoria letteraria di fondamentale rilevanza per questa argomentazione. Sono parole dedicate alla descrizione del metro della canzone, e in particolare quando si parla del piede: “E se capita che nel primo piede ci sia una terminazione priva di rima, bisogna assolutamente assegnargliela nel secondo. Se invece ogni terminazione del primo piede ha qui stesso il suo accompagnamento di rima, nell’altro è lecito riprendere o invece rinnovare le rime, come si preferisce, o totalmente o in parte, purché si conservi in tutto e per tutto 1’ordine delle precedenti: mettiamo, dati piedi di tre versi, se nel primo piede le terminazioni dei versi estremi, cioè il primo e 1’ultimo, si rispondono, è necessario che si rispondano anche le terminazioni alle estremità del secondo piede; e quale si presenta nel primo piede la terminazione del verso mediano, voglio dire accompagnata o scompagnata, tale dovrà riaffacciarsi nel secondo: e la stessa regola va osservata per i restanti piedi.”, Dve, II, XIII, 10. Riteniamo che qui si possa individuare, in embrione, l’origine della genesi della terzina dantesca. È questo forse un passo che pertiene propriamente alla fase di elaborazione concettuale e culturale della terzina, anche se, in questo stadio, ancora inconscio.

[6]   Detto ictus, in metrica differente dall’accento dinamico, o d’intensità – nell’endecasillabo si basa su due tipi di schemi accentuativi fondamentali che determinano il profilo ritmico del verso: detti a maiore ed a minore. Il tipo a maiore è l’endecasillabo con l’accento principale sulla 6° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente solenne. Il tipo a minore è l’endecasillabo con l’accento principale che cade sulla 4° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente più pacato. Entrambi, nella loro nomenclatura, ricordano in musica il modo delle tonalità maggiore o minore.

[7]    Decisivo, dunque, il tipo di lettura scelta dal lettore, il quale decide gli spostamenti e determina il profilo ritmico del verso, pur avendo i punti di riferimento negli accenti primari. “Gli altri accenti sono secondari rispetto al metro, ma sono altrettanto importanti per il ritmo del verso; la disposizione di tutte le sillabe toniche o atone, soprattutto nei versi ad accentazione variabile, è anzi il primo strumento in mano al poeta per l’elaborazione ‘musicale’ del discorso”. Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag 54. La varietà dell’endecasillabo è elogiata da Dante nel De Vulgari Eloquentia per quella flessibilità determinata dal tempo e dalla durata dell’esecuzione del verso. Una lettura in grado di restituire la qualità musicale del testo, insieme a quella ritmica del metro, è certamente la recitazione a voce alta, all’interno di una regolarità metrica che di per sé è già musicale.

[8]    In maniera particolare nel Medioevo si posero le basi per la futura terminologia metrica, quella che noi oggi, seppure con una consapevolezza differente, correntemente utilizziamo. In questa esposizione veniamo confortati dalle applicazioni della musicologia allo studio letterario. In uno studio non recente, del 1975, infatti, Clemente Terni, musicista e musicologo sensibile alla lezione del Contini, aveva individuato un metodo prettamente musicale per determinare i modi ritmici di tutte le varietà tipiche della principale versificazione italiana. “In una prima fase vi sarà distinzione tra sillabe accentate con accento di diverso tipo, ma subito dopo si osserverà che solo alcuni accenti dànno ritmo alla frase. Questi accenti, che saranno poi chiamati accenti ritmici, usurperanno il ruolo di kyrios tonos all’accento acuto e gli accenti grave, acuto, e circonflesso resteranno alla grammatica.” Clemente Terni, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975, pag 14. Basandosi sullo scritto di un autore del V secolo d.c. (De nuptiis Philologiae et Mercurii, di Marziano Capella, nel quale si evidenzia una particolare attenzione alla caratteristica musicale del linguaggio), Terni dice che in questa fase viene elaborato il naturale processo da una prosodia classica basata sulla quantità vocalica alla qualità sillabica, solo grazie al mantenimento dell’apporto concreto della musica. Il passaggio dalla percussio all’accentus, dunque, da un fatto temporale a un fatto sonoro, è il marchio di un cambiamento epocale nella metrica e nella versificazione medievale: dalla classica, appunto, a quella volgare. Il numero sillabico determina, così, la collocazione dell’accento, il ritmo è equiparato a quello musicale, il fatto sonoro della rima ripetuta a fine verso acquista una valenza ritmica, e non solo melodica. Le opposte maniere versificatorie, prosegue il Terni, ricadono nell’ambitus artis musicae, “naturale humus della loro origine”. Ma Terni va oltre, attraverso l’associazione musicale del tetracordo prima e, dopo la lezione di Guido D’Arezzo, dell’esacordo, poi, ricava i modi ritmici della versificazione italiana a partire dalla distribuzione dell’accentus. Posti in relazione con la semiminima della scala diatonica naturale, presente tra il terzo e quarto grado e il settimo e ottavo, lungo cui l’accentuazione ritmica doveva essere più marcata. Le soluzioni ritmiche accordali arrivano a riguardare anche l’endecasillabo, e a tal proposito si formulano varie ipotesi perfino per una esecuzione ritmica delle rime dantesche della Commedia. L’endecasillabo, infine, a seconda della sua distribuzione accentuale, si può considerare un pentasillabo più un eptasillabo, congiunto o viceversa, così da ottenere, per parte ritmica, rispettivamente, un tetracordo più un esacordo, congiunto o viceversa. Riteniamo questo un importante lavoro nella ricerca filologica, per un terreno comune riconosciuto nelle varie epoche come sempre vivo tra musica e poesia. Significati e accezioni moderne ridotte oggi a settori, rispetto al loro campo di applicazione originario.

[9]   L’analisi della stringa ritmica prevede di considerare una griglia metrica astratta, in grado di inglobare la maggioranza dei casi regolari, e sopportare le modificazioni che il materiale linguistico impone, per variatio e accidente, al materiale metrico: “Il primo vantaggio consiste nel rendere conto del fatto che i versi uniformemente giambici sono i più diffusi nella Commedia. Il secondo vantaggio è che si rende conto del fatto che anche negli altri casi, di endecasillabi che non sono completamente giambici, le posizioni pari sono di preferenza forti e quelle dispari deboli. Presumendo che l’endecasillabo abbia solo una posizione obbligatoriamente forte, la decima, e che ci siano diverse possibilità non connesse tra di loro per le altre posizioni, non si rende conto di queste due caratteristiche fondamentali dell’endecasillabo dantesco. Il terzo vantaggio di questo schema è che da esso, con poche regole ben definite si possono derivare tutti i versi dell’Inferno e che tali regole forniscono una misura della tensione o complessità: un verso completamente giambico avrà, a questo livello, tensione zero, e ogni deviazione da esso (espressa da una regola) aumenterà progressivamente la tensione”, Marina Nespor, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994, p. 298. Il ritmo metrico astratto è collocato dalla Nespor al secondo livello della griglia metrica, quella dei piedi metrici, mentre ciò che rende giustificazione del ritmo dell’endecasillabo si registra al terzo livello della struttura metrica di un’analisi fonologica, quello degli emistichi. Sono infatti queste le porzioni di verso che hanno le prominenze accentuali maggiori o minori, quelle che definiscono la stringa ritmica del verso, che stabiliscono la distinzione del modo a maiore, a minore, basano sulla lunghezza temporale dell’intero verso, e sul contorno accentuale dell’intera frase.

[10] LEGENDA: Le posizioni metriche che ricevono l’accento ritmico sono rappresentate da *; le posizioni isolate sono rappresentate da °, e indicano una pausa verbale che occupa a tutti gli effetti una posizione ritmica, rendono conto sia della pausa di fine verso, che – dove è concepita – della pausa della cesura a centro verso. Già il Sesini [1939] aveva chiamato questa pausa col nome ‘silenzio musicale’ e, anche egli, mentre studiava le caratteristiche dello scontro accentuale a centro verso in uno studio sul Petrarca, propese per una lettura ritmica di quei testi.

Barnum

Se al gigante pietrificato di Cardiff nessuno crede più

I baci appassionati a leoni della savana, gli abbracci a tigri e dromedari, le evoluzioni di acrobati e trapezisti, le gag di clown e attori, le parate trionfali di artisti inguainati in costumi che luccicano in un tripudio di piume di struzzo che sembrava senza fine, non ci faranno, mai più, compagnia.

Il circo Barnum, dopo 146 anni di attività, ha chiuso definitivamente i battenti.

Sembra una notizia fake. Invece è vera.

Nato nel 1872 come Museo dei Grandi Viaggi, Serragli, Carovane ed Ippodromi, rapidamente ribattezzato lo spettacolo più grande del mondo, mostrava da oltre un secolo i suoi prodigi artistici ad un pubblico di affezionati.

Phineas Taylor Barnum gli aveva dato vita dopo aver inventato l’American Museum e aveva portato sotto un tendone che sembrava uscire ogni sera come un coniglio bianco dal cappello di un mago, elefanti, cavalli, leoni, orsi, lo scheletro di Cristoforo Colombo, la sirena delle isole Fiji (un busto di scimmia legato alla coda di un enorme pesce), Joyce Heth, una donna di colore che dichiarava 161 anni di età e pretendeva di essere stata la nutrice del presidente George Washington, Buffalo Bill e Toro Seduto. Fra gli altri.

Barnum's Freaks
The ‘freaks’ at Barnum’s menagerie.

Nel terzo millennio, dopo diversi passaggi di proprietà, cadute e rinascite, ultimo rimasto nella sua categoria a muoversi su rotaia, il circo viaggiava su e giù per l’America su due treni da sessanta vagoni ciascuno. Proponeva 2 spettacoli differenti, organizzati in una doppia tournée che si esibiva ad anni alterni ma che incontrava sempre meno il favore del pubblico. Oggi al gigante pietrificato di Cardiff non crede più nessuno, di donne barbute ce n’è a volontà e i lillipuziani non vengono più considerati degni di nota, nemmeno dalle favole.

Per quanto la voce degli animalisti si sia levata, non senza ragione, contro questa incredibile arca di Noè, addomesticata a colpi di frusta, incatenata, imbellettata, stupefatta da lustrini e finimenti in lamè, al grido di battaglia “Bye-Bye Animal Abusers”, la storia del circo Barnum dovrà comunque essere consegnata ai posteri. Perché perdere del tutto questa esperienza significa perdere un po’ della nostra capacità di sognare.

YouTube può offrirci la registrazione dell’ultimo spettacolo che probabilmente, così, non potrà mai essere derubricata dalla memoria collettiva, né sfuggire all’incalzare del tempo. Ma le foto d’archivio teniamocele strette perché anche in bianco e nero raccontano una storia così affascinante che sembra a colori.

I 500 artisti l’ultima sera hanno pianto. I 100 animali rimasti forse no.

Sullo sfondo dell’arena, una volta spente le luci, la magia ha dato la mano alla fantasia e il sogno all’illusione, anche grottesca, di un mondo che non c’è più ma che, con tutte le sue contraddizioni, vale la pena ricordare.

Come diceva Phineas Taylor Barnum “Molte persone, nel complesso, sono ingannate dal non credere in nulla, e non dal credere troppo.”

 

 

La solitudine degli animali

Qualcuno di noi è nato libero. Gli scheletri danzanti della Nuova Guinea ad esempio, gli aborigeni australiani, i cacciatori kazaki della Mongolia, alcune remote tribù della steppa, diverse etnie africane. Ma non mi riferisco a loro. Parlo delle creature che hanno agitato la coda e allungato il collo in una savana, che si sono addormentate nel cuore di fronde impenetrabili, che hanno partorito e poi nutrito i propri cuccioli osservando una sola legge. Quella della natura.

Poi è arrivato lo zoo e con lui la solitudine. Per toccarla con mano bastano le immagini scattate da Britta Jaschinski e Jo-Anne McArthur in diversi zoo del Vecchio Continente. Sono fra quelle che sono state esposte al Parlamento Europeo nell’ambito della campagna Born Free. Un’indagine che ha coinvolto circa venti Paesi. Una denuncia che non ha bisogno di parole per raccontare le condizioni in cui questi animali, spesso, sono costretti a vivere.

Uno schiaffo, iconografico, alla nostra, altrimenti impermeabile, indifferenza.

Tigri, leoni, elefanti, scimpanzé, giraffe, delfini, orsi. Anche in Italia li trattiamo al nostro peggio. Su 68 strutture riconosciute solo 5 sono risultate in regola con le direttive dell’Unione Europea. I giardini zoologici possono trasformarsi in veri e propri lager per ospiti permanenti increduli, attraversati da una malinconia che passa dritta attraverso i loro occhi.

Il mondo è ricco di spazi dedicati agli animali e al consumo turistico che gravita attorno ad essi: zoo safari, rettilari, delfinari, bioparchi, acquari, parchi marini. Ogni volta che ci andiamo a spasso facciamo questa considerazione: la solitudine non è solo umana. Fa male in modo universale.

La tigre che si aggrappa a un muretto per guardare oltre il muro di recinzione ci ricorda, dolorosamente, che qualcuno di noi è nato libero. Un privilegio che non è toccato nemmeno a parecchi dei nostri animali da compagnia, spesso tragicamente umanizzati, perfino nel look, qualche volta fatti oggetto di attenzioni maniacali che tolgono respiro alla loro natura.

Imporre a un cane, nel periodo natalizio, di indossare un maglioncino con il muso della renna Rudolph ricamato e un ponpon rosso luccicante non è solo crudele. È bestiale.

 

 

L’orso pittore

Dopo che nel regno della fantasia l’han fatta da padrone Yoghi e Bubu, il mitico Baloo, Little John di Robin Hood,  Winnie The Pooh di A.A. Milne, e in natura l’orso Grizzly, l’orso bruno e il nobile e bianco orso polare, nella vita reale, ora, ci fa compagnia l’orso pittore.

In questo strano mondo che spesso ci sorprende intrappolati in uno specchio anamorfico, qualche volta la realtà che vediamo non è deformata, ma di forma differente.

L’orso Juuso, ospite del Kuusamo Predator Centre, sta spopolando come artista in Finlandia, dacché si è scoperto che si diverte a dipingere strofinandosi prima sul colore e poi su tela. Le sue opere, da subito molto apprezzate, sono state acquistate anche per 300 euro ciascuna. Gli introiti che la vena artistica del gigantesco plantigrade ha assicurato al centro per animali finlandese sono stati fino ad ora reinvestiti nel mantenimento di altri orsi orfani ospiti della struttura.

Albert Einstein ha detto: “La creatività è l’intelligenza che si diverte” e bisogna vedere come Juuso si impegni a dargli ragione, mentre i suoi genitori adottivi, Sulo Karjalainen e Pasi Jäntti, lo guardano scegliere i colori e … lavorare.

Ecco. Ci fa davvero piacere aver incontrato un orso pittore. Nella sua semplicità animale ha molti pregi, in effetti. Non predica l’appartenenza o l’invenzione di alcuna corrente. Non fa capricci. In cambio del suo operato s’accontenta di qualche acino d’uva. Si strofina tutto imbrattato di colore come un animale felice e appagato. Le occhiate feroci le lascia agli artisti depressi.

È il protagonista, involontario, di un moderno e rinnovato bestiario culturale. Dopo gli animali parlanti, a lungo primi attori della scena letteraria da Fedro a Pennac, era ora che si aprissero le porte agli animali artisti, stanchi di essere solo rappresentati.

Juuso, in qualche modo, ha capito che l’arte è fatta per chi la elegge a propria amica del cuore (© Angela Vettese). Ecco, la vita qualche volta ci svela l’arte dell’impossibile, in modo bestiale.

 

 

Vita da pappagalli

Capitoli 1, 2 e 3

In Australia c’è un pappagallo che sa suonare la batteria. Gli scienziati dell’università del Queensland e i ricercatori della Deakin University non sanno se usa il doppio pedale o la doppia cassa come alcuni fra i migliori batteristi del mondo, se preferisce la spazzola o il rullante, il charleston o il tamburo. Quel che sanno è che per corteggiare la femmina si costruisce da solo una batteria e che è in grado di suonare un ritmo non casuale. Anzi originale. Ogni pennuto ha la sua canzone.

Al cacatua delle palme che vive nella penisola di Cape York, non deve essere sfuggito che un sound come si deve nel corteggiamento fa la differenza e che la base ritmica di qualunque brano non è un dato accessorio.

La bacchetta è un rametto secco lungo circa 20 centimetri, la cassa è la noce di una pianta che si trova lì d’attorno e che lui sistema all’uopo a colpi di becco.

Sono note altre (rare) specie animali capaci di costruire strumenti, che però, in genere, sono funzionali solo all’alimentazione.

Non di solo pane vive il pappagallo.

 

Einstein, uccello attrazione dello zoo texano di Knoxville, se gli va si esibisce cantando “Smoke on the water”. Non che ti sembri di risentire i Deep Purple, ma lo fa con un certo stile. Fumo sull’acqua e fuoco nel cielo e mi sa che è più contento così di quando imita cane, cavallo o altri suoni umani.

Quattro note in salsa blues per uno dei motivi più famosi della storia del rock. Vuoi mettere?

 

Un cartello appeso all’ingresso di un supermercato richiama in modo esotico l’attenzione dell’utenza: “Pappagallo smarrito”. Manca dal giorno tale alle ore tali. (Segue cellulare)”. Un becco arancione su un mantello di penne bianche spicca sullo sfondo di una fotografia che ritrae l’animale sull’erba di un prato. Nel magico mondo (digitale) in cui viviamo siamo circondati da app funzionali a qualunque esigenza, operative 24 ore su 24 ed efficienti ovunque nel mondo. Strumenti di nuova generazione in grado di risolvere una quantità impressionante di bisogni, ma non è proprio “tutto” quello che sono in grado di fare. Se hai perso un pappagallo, ad esempio, non c’è l’app che lo riporta a casa. Puoi cliccare e ordinare subitamente sushi, pizza, hamburger, patatine, una grigliata “masala”, pollo, yogurt, telefonini, fiori, spesa a domicilio. Ma il nuovo fenomeno sociale delle consegne smart non può risolvere un problema domestico come lo smarrimento di un amato pennuto.

Un cartello appeso all’ingresso del supermercato è uno strumento di comunicazione d’altri tempi che in realtà può ancora dare qualche risultato. Infatti l’animale è stato ritrovato.

Un altro annuncio, collocato a fianco, comunica il ritrovamento di una bicicletta. Chi l’avesse smarrita può rivolgersi all’interno del negozio.

Questa bacheca delle cose perdute di quartiere, quasi un tacchi, dadi e datteri di antica memoria, è come una ventata di umanità che mette di buonumore. Anche quel verbo individuato dall’estensore dell’avviso, quel “manca” accanto a giorno e ora della scomparsa, non l’avremmo forse utilizzato in riferimento a una persona piuttosto che a un animale?

Questo pappagallo, così umanizzato, paradossalmente manca del nome, che invece avrà senz’altro.

Alla fine dell’avventura, mi resta la curiosità. Si chiamerà mica Ulisse?

 

 

Ma dove vai se l’uccello non ce l’hai?

L’apericena non basta più. Insalate, vegetali o di pasta, vol au vent, stuzzichini dolci e salati, quiches e tutta la schiera, ben nutrita, di fantasiosi divertissement alimentari tipici del rito laico dell’aperitivo, all’improvviso non sono più up to date. Ammiccano ancora dai tavolini del locale di tendenza, apparecchiano come un raffinato ricamo tavole imbandite in giardini accoglienti, si arrendono al piano bar, al jazz, ai dj-set, ai reading letterari. Ma non sono più trendy.

Lo so, è un colpo per tutti i creatori di eventi, una mazzata per influencer, youtuber, socialite e blogger d’assalto, ma anche se ti spari uno spritz con tempura di verdure appena scodellata dal cuoco giapponese di una rockstar inguainata in una tuta di latex, al giorno d’oggi, senza uccello, non sei nessuno.

Perché Milano, che con buona evidenza è ancora da bere, ha inventato l’aperitivo con birdwatching, che si può consumare con amici o in tête-à-tête, dal tetto di un albergo, da una terrazza, comunque sia da una vetta urbana, per aggiungere volatili e skyline all’almanacco delle opportunità, alcoliche o analcoliche, crepuscolari.

Vuoi mettere un mojito, come dire, a volo d’uccello? Gustando con ghiaccio e menta Prealpi e scorci unici del centro storico mentre stormi di cinciallegre o allegre brigate di germani reali fanno capolino? Fatti un Bloody Mary con un colombaccio, una vodka and soda con un falco pellegrino, una Coca e rum con un parrocchetto dal collare. Che la guida alla postazione migliore l’ha scritta un naturalista e la scienza conferma che gli uccelli sono molto attivi proprio all’ora dell’aperitivo. Nidificano, migrano, si riproducono. Insomma si mostrano volentieri a guardoni green armati di patatine, aperol e binocolo.

L’idea, bisogna dirlo, non è male. Anche perché qualche volta è preferibile inseguire con lo sguardo il volo in picchiata di animali liberi e selvaggi piuttosto che stare a sentire chi ci sta di fronte, col bicchiere in mano. Meglio dare uno sguardo a boschi e castelli, quartieri e caseggiati altrimenti nascosti alla vista, scoprire che proprio a due passi da noi si librano in cielo pappagalli amazzone fronteblu e fieri sparvieri, perché altrimenti, anche senza binocolo, spesso si vedrebbe bene il buio oltre la siepe dello sguardo dell’interlocutore.

I codirosso spazzacamino, lassù sul grattacielo, facciano una allegra comparsata e insieme piazza pulita di temibili esemplari di imbecilli. Sono una specie, non rara, che si muove su due gambe, ha il pollice opponibile (per reggere il bicchiere) e che, purtroppo, ha il dono della parola. Mica sempre è una buona notizia.

Caro gheppio, vien da dire, prosit!

 

 

Giungla metropolitana

Due passi in città e sembra di stare allo zoo. La proliferazione di umani conciati da zebre, lupi e capre impazzite – nuovi avatar di una specie che qualche volta pare aver perso il controllo di sé – si deve in parte alla moda, che non smette di suggerire accessori animalier, in parte alla sua libera interpretazione. La legge della giungla (metropolitana) impone ai consumatori del terzo millennio elefanti, panda e procioni da mettere al polso mentre libellule, cavalli e camaleonti zampettano su borse, pochette, valigie e gioielli. Dal boa di struzzo alle borse di coccodrillo non ci facciamo mancare niente: siamo zebrati dentro, maculati fuori e portiamo con orgoglio la nostra seconda pelle, sicuri che tanto, alla prossima stagione, potremo cambiarla di nuovo, come i serpenti.

Tranne quando l’intervento è permanente: il tattoo di un’otaria gigante che guizza sul polpaccio con la scritta forever young nuoterà felice sotto lo stesso cielo anche l’anno prossimo.

Spesso vestiamo da cani, mentre schiere di inconsapevoli bestiole somigliano in modo sempre più inquietante a tristi Paris Hilton a quattro zampe.

Il confine con il mondo animale non è così netto. Grafici e giornalisti operano in gabbia, le donne – soprattutto se sono a un tempo mogli, madri e lavoratrici – spesso si sentono in gabbia, anche se non hanno il tempo di accorgersene. Chi disprezza gli scarafaggi ha amato i Fab Four più di ogni altra cosa trasformando i Beatles nei migliori insetti antropomorfi che si siano mai visti.

Ecco, si inserisce in questo contesto, a modo suo bestiale, la storia del fotografo indiano Sujatro Ghosh che per protestare contro le condizioni in cui sono costrette a vivere le donne del suo Paese le ha ritratte con una maschera da mucca sul viso, postando le fotografie su Instagram e invitando le donne che volevano partecipare al progetto a contattarlo tramite il medesimo social. L’ha fatto per rappresentare “l’assurdità di un Paese dove occorre più tempo a rendere giustizia a una donna che a una vacca”.

In India, come è noto, la mucca è un animale considerato sacro, intoccabile, difeso alla maniera dell’uomo di Neanderthal da uomini armati di spranghe e bastoni.

In India, come è altrettanto noto, le donne vengono stuprate senza pietà. Secondo le statistiche una ogni 15 minuti. Fra gli innumerevoli massacri registrati dalla cronaca basti la citazione del caso che segue. Due sorelle, dopo esser state brutalizzate, sono state uccise e impiccate a un albero di mango. Avevano 14 e 15 anni. Nel gruppo degli aguzzini anche un ufficiale di polizia. L’inchiesta dei federali indiani ha poi stabilito che si è trattato di un doppio suicidio.

 

Le modelle di Ghosh, travestite da mucche dal collo in su, mentre si proteggono celando la propria identità denunciano il divario fra diritti e rispetto assicurati a un animale, (per quanto sacro possa essere considerato), e i diritti brutalmente negati agli esseri umani.

Raccontano una storia per immagini che non ha bisogno di parole per essere ascoltata.

Guardatela, è un imperativo presente.

 

 

Bugiardi a caccia di Pokémon, vestiti da conigli mannari

Per andare a spasso nella giungla moderna non abbiamo più bisogno di appenderci a una liana, ma un machete forse farebbe ancora comodo. Non per abbattere varchi nella foresta intricata e invalicabile ma per riportare tutti quanti a una dimensione chiara e accettabile della realtà. Che ha cominciato a mutare qualche anno fa quando al sostantivo “realtà” abbiamo aggiunto l’aggettivo “virtuale”.

Come per magia, improvvisamente, si poteva accedere ad un mondo che era più di un alias del nostro mondo, era un alias della nostra vita, della nostra stessa identità. Si poteva andare alla guerra, diventare agenti segreti, fidanzarsi e conquistare galassie lontane. Tutto questo dopo aver tirato giù la serranda di un lavoro d’ufficio dalle 9 alle 5, di un bar dove si servono caffè e spremute, di un negozio dove si vendono abbigliamento e accessori. Da Lara Vattelapesca a Lara Croft in un clic. Ed è sembrato un bel gioco per un po’, anche se per qualcuno è diventato una galera, perché dalle galassie lontane non è più tornato indietro. Poi è arrivata la realtà “aumentata”. Grazie alle nuove tecnologie possiamo guardare ciò che ci circonda e vederlo non come si presenta realmente ma “aumentato” di presenze o informazioni. Fantasmi contemporanei che temo non ci faranno onore con i posteri, dato che per inseguire i Pokémon più di un giocatore ci ha rimesso automobile e patente e che forse avremmo potuto evitare di vestirci da coniglio mannaro su Snapchat.

Poi è venuto l’anno della post-verità, il gorgo delle informazioni non vere però capaci di influenzare grandi eventi di rilevanza politico-sociale. Una volta le chiamavamo bugie. Oggi sono in tanti quelli col naso lungo che spacciano post-verità come se piovesse e insieme al resto delle varianti della realtà contribuiscono a gettarci nella più grande e confusa dimensione di sempre.

Ecco, forse è arrivato il momento di fare un passo indietro. Di guardare la persona con la quale stiamo parlando negli occhi. Di scoprire, fatta salva la fantasia, ciò che abbiamo davanti.

Come diceva Antonio Delfini “La luna è come la libertà: sta in cielo e in fondo al pozzo“.

 

 

Freaks si diventa

Siamo figli di una generazione di fenomeni, come preconizzavano gli Stadio, o di sconvolti come cantava Vasco Rossi. In ogni caso desideriamo soprattutto essere perfetti. Vincenti già dal look, avanziamo su protesi dell’autostima con molti zeri e ci preoccupiamo di due cose in particolare: esserci e piacere. Di recente sono stata invitata a un beauty party, vengo continuamente omaggiata di sconti non richiesti su trattamenti estetici, se entro in profumeria prima tutto mi propongono campioni di prodotti miracolosi per il viso o per il corpo. Cerco di non scoraggiare la mia autostima, anche se tutte queste offerte di aiuto mi fanno sentire come un mazzo di fiori della settimana scorsa. Un po’ appassita.

In questo mondo c’è spazio solo per il fenomeno. Quello vero, non quello da baraccone. I freaks, individui con caratteristiche fuori dall’ordinario che nell’Ottocento diventavano attrazioni per i circhi, oggi sono solo degli emarginati. Come tutti i diversi. Che non ci piacciono ma che dovremmo imparare a guardare con occhi nuovi.

Frank Lentini, siciliano, classe 1889, con tre gambe, due apparati genitali e quattro piedi, divenne una star del freak show negli Usa e con lui un albino, una donna cannone, un incantatore di serpenti e una donna tatuata. Sull’onda di un successo (al tempo) planetario andò in tournée con Elephant Man, uomini scimmia, donne barbute e un gigante alto quasi tre metri. Ciononostante sposò una donna bellissima che faceva l’attrice e a cinquant’anni della morte, la città d’origine che l’aveva cacciato lo ha celebrato.

Nel diciannovesimo secolo anche Toro seduto, grande capo guerriero, guaritore, membro della società della danza, della pioggia e di quella degli spiriti, padre di Piede di Corvo, marito di Capelli Lucenti, è stato per un periodo attrazione del circo Barnum. Era un freak dalla pelle rossa senza più una tenda dove poter andare. “Se il grande spirito mi avesse voluto bianco – diceva – mi avrebbe creato così. Ha messo nei vostri cuori alcuni desideri ed altri nel mio, e sono ben diversi. Non è necessario per un’aquila essere un corvo”.

Un trattato di biodiversità che potrebbe darci ancora molte lezioni.

Nelle mani di ciarlatani e della sorte: uno sguardo a La Mort de Louis XIV

Trasportato sopra una rudimentale e scricchiolante sedia a rotelle, Luigi XIV fissa lo sguardo verso un imprecisato orizzonte che si staglia di fronte alla sua villa. L’unico momento di respiro in tutto il film, segue la clausura imposta dalla corte dei non miracoli e composta da medici e ciarlatani. Due ore. Poi la morte preannunciata nel titolo. Fin.

Luigi XIV non riesce più a muoversi, un problema ad una gamba gli impedisce di camminare e passa le sue giornate a letto, mangiando pochissimo, bevendo brodini da cucchiai d’oro, ricevendo cortigiani con cui non dialoga neanche, accarezzando i suoi amati cani, cambiando più parrucche di Phil Spector, provando collezioni di occhi di vetro, subendo salassi, osservando la propria gamba andare in cancrena, ascoltando inutili rassicurazioni sul suo impossibile ricovero e contemplando il tempo che muore insieme a lui prima di spirare.

La mort de Louis XIV
La mort de Louis XIV

E dire che Luigi XIV vorrebbe che gli amputassero quella gamba, ma niente da fare, i suoi medici non sono d’accordo. Vogliono farlo guarire o farlo morire? Bende, unguenti, persino una pozione a base di sperma, sangue di toro e grasso di rana. Nulla di quello che fanno può impedire la necrosi, ma forse il loro intento è proprio quello di provocare la morte del Re.

Quando non c’è più nulla da fare, piangono e chiedono perdono per non aver sconfitto la malattia. La battuta con cui La Mort de Louis XIV si chiude è perfetta: “Faremo meglio la prossima volta”. Ecco chiarificato il duplice senso del film di Albert Serra, non solo un’osservazione della morte come di vita che appassisce (vedi il suo precedente lungometraggio Historia de la Meva Mort), ma anche uno sguardo e un’indagine su cosa fosse la Medicina dell’epoca.

La morte ci rende tutti uguali e il caso di Luigi XIV, al di là delle mille e più cure (tra l’altro rivelatesi non solo inutili, ma dannose), serve per farsi un’idea di cosa sia stato il progresso scientifico che ha portato i benefici conosciuti nell’ultimo arco di secolo. Nessuna profezia o virtù divinatorie, la sopravvivenza del futuro si basa sui morti del passato. Per evocare ancora una volta il finale del film: le volte successive, i medici hanno fatto meglio. Tra l’altro, non direttamente collegato ad una possibile soluzione momentanea per ritardare il destino di morte, un dialogo tra aiutanti del Re riguardante la conservazione degli alimenti sotto ghiaccio per impedirne il deterioramento suona quasi come un’ipotesi di proto-criogenesi. D’altronde, negli ultimi cinquant’anni, non è quello che hanno fatto molti ricconi? Farsi mettere in sarcofagi d’acciaio a temperature sotto zero per essere risvegliati secoli dopo, una volta trovate le cure per i loro mali ad oggi ancora incurabili? Zero K, il più recente romanzo di Don DeLillo, è un viaggio negli orrori di questa pratica in-umana.

I ricchi possono curarsi meglio e i poveri devono sperare di non ammalarsi, ma alla luce del film di Serra è lampante il messaggio universale che nel momento del bisogno si è sempre nelle mani di qualcun altro e della sorte, funesta o benevola o fortunata che sia.

Proiettato fuori concorso alla 69ma edizione del festival di Cannes, La Mort de Louis XIV ha entusiasmato la critica internazionale, che l’ha eletto uno dei migliori film dell’anno scorso, ed è ancora in attesa di una improbabile distribuzione italiana. Da applausi l’interpretazione sommessa e sofferente di Jean-Pierre Léaud. Sì, proprio lui, il ragazzino de I 400 colpi (F. Truffaut, 1959). Se c’è un’affermazione che della vita può essere fatta è che il tempo passa e passa per tutti.