Un libro casto

Definire Il gioco (Mondadori, 2018, pp. 526, euro 20) di Carlo D’Amicis “un libro casto” può sembrare provocatorio, perché il romanzo, vuoi per l’argomento vuoi per il linguaggio, parrebbe situarsi ai limiti del pornografico. L’autore, soprattutto all’inizio, usa una terminologia cruda e brutale per descrivere un contesto fatto essenzialmente di pratiche sessuali borderline. Questa però è soltanto la cornice. In realtà, mentre apre il racconto introducendo il lettore in uno scenario pervaso di visioni torbide e costruito su situazioni “indecenti”, mentre ci parla di sesso, di ossessioni e perversioni, D’Amicis compie il miracolo di creare davanti a noi un mondo parallelo di assoluta purezza, che è quello delle vite vissute dai tre protagonisti, ciascuno con la sua storia unica e irripetibile, ciascuno con la sua dote di fantasmi, paure e desideri. Tutto questo teatro, in fondo, questo apparato liturgico di prestazioni sessuali fuori dalla norma è uno stratagemma per rendere più luminosa la vera scena che si svolge davanti a noi, fatta di personaggi in carne e ossa, con nomi, colori e intrecci, un passato, un presente, e corpi che non rispondono ai canoni immaginari del godimento. E a mano a mano che il racconto prende il volo, staccandosi dal terreno aspro e accidentato del tema di fondo con cui comincia il libro – due uomini e una donna legati da un “gioco” scabroso che si svolge in un club privé dell’Italia centrale tra l’inizio del nuovo millennio e i giorni nostri –, ti addentri nella storia delle vite vissute, che è bellissima e avvincente, e non ti lascia fino all’ultima pagina, quando scopri con tristezza che dovrai separarti dai tre eroi seguiti per oltre 500 pagine.

Carlo D’Amicis – Il gioco

Il gioco si compone di tre lunghe interviste ai tre protagonisti: un bull (Leonardo), una sweet (Eva) e un cuckhold (Giorgio). Come viene chiarito nelle primissime pagine, “il bull è un maschio dominante che sottomette cornuti consenzienti (i cuckhold) scopandosi le loro femmine (sweet)”.

Il primo a raccontarsi è Leonardo, alias Mister Wolf. Il suo esordio è gelido e asettico, disturbante, immette subito il lettore in un contesto narrativo crudo, da teatro anatomico, privo di riferimenti personali. Illustra con dovizia di particolari gli obblighi per chi stipula il particolarissimo contratto, nel quale “è lo stesso confine tra la regola e la sua trasgressione a risultare indistinguibile”. Già dopo poche pagine, però, ci introduce nel racconto vero, quello della sua vita prima del “gioco”. La morte del padre, rigido e taciturno ufficiale dei carabinieri con una passione segreta per Heather Parisi e Giorgio Almirante, vittima di un attentato quando Leonardo era molto giovane; poi le scuole in collegio, dove conosce Pretegrosso, sacerdote addetto alla biblioteca che gli trasmette la passione per i libri, insieme ad altre meno lecite. Per un breve periodo insegna inglese in una scuola media (da cui viene licenziato perché sorpreso a palpeggiare la figlia della sua amante durante la recita di fine anno), e quindi conosce Giacomo, folle e sensibile poeta con il quale inaugura la sua esperienza a “Le Ore”, rivista pornografica degli anni Settanta, su cui comincia a pubblicare dotti racconti erotici. Dopo varie vicende divertenti e tragiche, incontra Giorgio, primario al reparto di oncologia dell’ospedale di Grosseto nonché cuckhold, ed Eva, sua moglie, sweet, con i quali che si lancerà nell’avventura dell’Infinito, club privé destinato a durare, fra alterne vicende, quasi vent’anni.

E qui si innesta il racconto di Eva, protagonista della seconda intervista. Sua madre, incinta di lei, viene spedita a Livorno dalla Sicilia per sfuggire a una vendetta di mafiosi, e qui, cambiata identità, inizia una nuova vita con le suore dell’ospedale dove ha trovato rifugio e un lavoro dopo la nascita della bambina. La piccola cresce insieme alla madre e a Macigno, ex ricoverato dell’ospedale, uno dei molti personaggi straordinari di questo libro. Diventa una ragazzina bellissima, consapevole della propria carica seduttiva, che usa in modo cinico e strumentale, ma anche con generosità e altruismo; comincia a lavorare come cubista in una discoteca della Versilia e qui conosce Giorgio, che poi diventerà suo marito. Anche il terzo protagonista, forse all’inizio il più respingente, quello in cui è più difficile identificarsi (è lui che, in quanto cuckhold, spinge Eva tra le braccia di Leonardo) ci racconta la sua storia, stavolta, curiosamente, partendo dal momento in cui viene informato che Eva e Leonardo si sono “fidanzati”, lo stesso momento in cui egli scopre che quest’ultimo, ovvero il bull, è diventato quasi impotente. La scena, che si svolge nella camera da letto con i tre protagonisti, ha qualcosa di surreale. (Detto di passaggio, i tre protagonisti mostrano tra loro per tutto il libro una delicatezza di sentimenti, uno stile aristocratico, un rispetto d’altri tempi che spiazza e cattura). Alla fine dell’intervista, Giorgio confiderà all’intervistatore che lui, invece, impotente non lo è più, in un ribaltamento dei ruoli che rende ancora più inconsistente, quasi carta velina, l’intero apparato scenico su cui si è retto finora il libro. Del rapporto con Eva riusciamo a capire qualcosa solo quando rievoca la sua infanzia e la sua giovinezza con la madre, soprano affetta da disturbo bipolare, e il padre, primario ginecologo di chiara fama, che esercita sul figlio un potere quasi assoluto e delinea in modo incancellabile l’orizzonte del suo desiderio.

Ma allora, dopo tutto quello che è stato detto, perché definire Il gioco un libro casto? Perché non rassegnarsi al fatto che, fatte le debite precisazioni e i distinguo del caso, è un libro che parla essenzialmente di sesso?  Perché, oltre che svilupparsi su quello che potremmo definire un doppio piano narrativo, quello di cui parlavo all’inizio, il libro si fonda sulla coesistenza, portata all’estremo, di un piano puramente di linguaggio accanto a quello che dovrebbe essere di significato concreto, reale, ed è proprio questa contaminazione, che dà continuamente origine a effetti umoristici, a costituire la cifra stilistica del libro. Ogni volta che D’Amicis racconta cose “pesanti”, tipo gang bang (le vecchie ammucchiate) o altre pratiche analoghe, o si lascia andare alla descrizione di un particolare anatomico, inciampa in dettagli grotteschi, o ridicoli, o inverosimili, che strappano al lettore una risata e lo spostano dal registro su cui si trovava – nel quale il desiderio segue un canone e recita un copione – a un altro completamente diverso, mettendolo davanti alla irrealtà del primo. E a quel punto il mondo immaginario del sesso su cui era costruita l’intera scena va in frantumi, con un effetto comico irresistibile. In quel momento ti rendi conto che tutto il mondo del porno vero può essere costruito solo sul registro del serio, del cupo, del melodrammatico, o addirittura del drammatico, e non tollera la “cosa buffa”, perché si sgonfia immediatamente. Il decalogo del sesso – indispensabile alla sua esistenza – si regge solo a patto che non ci sia deviazione dalla scena “come dev’essere”, niente fuori programma. Più vicino a Palahniuk o a Mel Brooks che a Sade, D’Amicis, insomma. E infatti, in questo libro non c’è nulla di morboso, perché lo sguardo dell’autore, anche quando si insinua tra le pieghe del sesso più scontato, incontra sempre l’imprevedibile con cui inizia il gioco vero, che è un gioco di parole. In questo senso quello di D’Amicis è davvero un libro casto. La coesistenza ininterrotta di registro alto e basso – il rimando letterario, l’allusione colta – impedisce all’atto sessuale di consumarsi, il godimento è qualcosa di cui si può elucubrare ma che non avviene realmente, e rivela la sua natura in fondo squisitamente intellettuale.

L’altro mondo di Faustine

Faustine è una giovane donna alto-borghese che vive a Parigi nell’ultimo scorcio di secolo dell’Ottocento. Il marito è un brillante e abile finanziere che l’ha sposata per i suoi natali ma che non l’ama. È una donna sensibile e intelligente, incapace di comunicare al mondo la ricchezza della sua interiorità. Sappiamo che la sua infanzia è stata tormentata e solitaria, scandita in certi periodi da rituali ossessivi che l’hanno isolata ancora di più dal contesto sociale nel quale viveva:

“Sul far della sera, prima di cena, Faustine s’inginocchiava in camera davanti all’immagine di Gesù, accendeva due candele e pregava infervorata. A volte si presentava a tavola con gli occhi rossi e gonfi, segno che nella preghiera aveva pianto. Non toccava quasi cibo. La madre allora, per punizione, la rimandava in camera, e lì la bimba riprendeva il suo monologo davanti all’immagine di Gesù.”

Patrizia Crippa, Storia di Faustine (Copertina)
Patrizia Crippa, Storia di Faustine (Copertina)

Ha tre figli di cui non sappiamo quasi nulla, e un marito totalmente dedito ai giochi di potere, che non disdegna distrazioni erotiche, in particolare con una giovane pittrice folgorata ad Argenteuil da Monet in persona e che, oltre a farsi mantenere da personaggi facoltosi, a tempo perso ora dipinge.

Da alcuni anni nella vita di Faustine, una vita esangue e tutta giocata sulla sottrazione, in particolari circostanze – perlopiù davanti a opere d’arte e reperti archeologici –, accade qualcosa, un godimento imprevisto, quasi un miracolo: Faustine ha delle assenze, quasi delle allucinazioni, e percepisce la realtà in modo soprannaturale. Questi istanti di beatitudine, di puro godimento, diventano una seconda vita per lei, una vita segreta di cui chi le sta intorno non sa nulla.

L’esistenza di Faustine, che conosce la gioia solo quando sfiora pericolosamente il delirio e per il resto scorre piatta e solitaria, subisce uno scossone quando incontra nel negozio di un antiquario l’archeologo Henry Polsen, con cui scopre di poter condividere interessi e sensibilità, ma che con la sua inconsapevole sensualità  scatena nella donna una crisi isterica che espone la famiglia e il marito allo scandalo. Nella casa di campagna, dove il marito ha trasferito precipitosamente la famiglia, Faustine sembra lentamente riprendersi, ma solo per crollare definitivamente alla vista del quadro che la giovane pittrice ha fatto recapitare al marito e nel quale è ritratta una giovane donna impudicamente esposta allo sguardo di un uomo che ha tutta l’aria di essere Julien. Un corpo abitato dal desiderio, non murato come il suo, e del quale Faustine si sente defraudata. Quel corpo senziente, desiderante, gaudente che doveva essere il suo è, colmo dell’ironia, il corpo dell’amante di suo marito.

Mi sono chiesta che cosa renda disturbante il romanzo di Patrizia Crippa. E disturbante lo è per davvero, a una prima e ancor più a una seconda lettura.

Non ci lascia tranquilli la lingua che l’autrice ha deciso di utilizzare, una lingua inattuale, che vive nei nostri ricordi, ma che non usiamo più, che appartiene solo alla nostra memoria e ci costringe a confrontarci, volenti o nolenti, con il nostro passato, con i decenni che sono alle nostre spalle e con le letture che a quegli anni risalgono. Una scrittura quasi anacronistica, la sua, che sembra modellarsi sui suoi protagonisti e sulla città nella quale si muovono e che sembra non conoscere il nostro tempo. Impossibile, abbandonandosi al suo ritmo quasi ipnotico, non uscire dalla quotidianità fatta di cellulari, mail, ritmi frenetici, suoni metropolitani in cui siamo immersi, e non ritrovarsi come per incanto nella Parigi del 1885. Ma è anche una lingua capace di inaspettate crudezze, una lingua carnale che ci parla dei corpi e della loro insopprimibile materialità. Emblematico, a questo riguardo, il racconto che Faustine fa a padre Antonin, quando gli confida ciò che accade durante il parto, “il mistero della creazione”. Un racconto nel quale ciò che è alto, puro, soave, inviolabile si mescola in modo grossolano con ciò che è greve, sordido, violento, sporco. Il racconto di ciò che “davvero” accade durante il parto è qualcosa di volutamente raccapricciante, e il raccapriccio nasce proprio dalla commistione inammissibile: amore e odio, bellezza e bruttezza, purezza e putrefazione, corpo in gloria e organi separati dal corpo, dotati di vita autonoma, che formano un orrendo corteo dopo la nascita:

“Allora, le ragazze al tavolo vi depongono gli occhi, gli occhi che nascono dopo il bambino, occhi sempre aperti, li vedesse, padre Antonin, che occhi! Sono sempre lì di fronte a te, due piccoli occhietti obliqui, e a volte ti sembra di essertene liberata, ma proprio allora corri il rischio peggiore, ti stanno guardando la nuca e la schiena, e la spina dorsale ti si scioglie! E poi esce sempre odore di fiori marciti, lo conoscete, padre Antonin, l’odore dei fiori marciti?”

Nel romanzo di Patrizia Crippa, poi, è sottilmente disturbante la coesistenza di due piani narrativi, ben messi in luce da Piero Andujar nella prefazione, che mescolano continuamente e in modo impercettibile due realtà apparentemente estranee l’una all’altra: quella della vita che scorre sul piano di ciò che sta insieme, che si tiene, e di cui fa parte la convivenza sociale, la politica, il quotidiano, la rete sottile dei riconoscimenti e degli scambi tra individui presi nel gioco del vivere; e quella della sospensione del senso e del tempo, l’immobilità del mezzogiorno di cui parla Nietzsche e di cui fa esperienza Faustine nelle sue assenze, che evocano la Grecia e il dionisiaco, lo sfumare del limite e il perdersi nel tutto. Da una parte i dettagli anche frivoli, il richiamo a ciò che appare e seduce, il profumo e lo charme di un mondo favoloso, con gli allettamenti di una città magica; dall’altra l’incombere del dolore e del disfacimento.

Ma più di ogni altra cosa a creare disturbo è lei, Faustine, una donna che continua a sfuggirci fino all’ultima pagina e di cui in fondo non comprendiamo mai davvero il segreto. Il messaggio che ci consegna è la sua assoluta impossibilità a varcare la soglia. Ma non sappiamo perché. È bella, giovane, ricca, sa godere dell’arte e della natura. Eppure non può tenere insieme la sua vita interiore e quella che conosciamo come vita reale, il mondo che sta intorno a noi. È vero che è murata nel suo corpo, ma è anche posseduta da ciò che sta fuori del suo corpo: il marito, Annette, madame Tournelle, gli altri. E il suo dramma sta proprio nel non saper coniugare le due realtà che la abitano. Faustine, che non capiamo, che a tratti ci irrita e ci indispone con la sua incapacità di far fronte alla vita, tocca un tasto sensibile in tutti noi, ci ricorda quanto è difficile tenere insieme ciò che è separato e quanto il prezzo per tenerlo insieme sia spesso troppo alto. Alla fin fine, Faustine porta solo agli estremi quello scompenso di fondo che tutti noi sperimentiamo ogni giorno e che solo i ritmi e i rumori della vita quotidiana ci permettono di ignorare. “Il mondo va avanti perché ce n’è un altro di mondo, sommerso e muto, di cui, anche chi lo vede, non può dire niente”, come dice la protagonista del romanzo. Ma basta vivere una sospensione anche piuttosto breve di tali ritmi e rumori, per mettere in crisi un equilibrio che di solito percepiamo come stabile e naturale: uno degli elementi che nella giornata silenziosamente scandiscono il tempo viene a mancare e noi ci ritroviamo disorientati, ciò che era ovvio non lo è più, niente è più scontato, tutto quello che eravamo abituati a situare relativamente ai nostri punti fermi, il prima, il dopo, il durante, fluttua nel vuoto, sconosciuto e quindi minaccioso.  Faustine è come se sperimentasse qualcosa del genere nelle relazioni, quelle che, prima dell’incontro con Polsen, davano un ordine al suo mondo, che la ancoravano alla realtà, nonostante le sue assenze, i suoi rapimenti estatici di fronte ai reperti archeologici. Dopo che lui è entrato nella sua pupilla “come su un sentiero”, niente è più come prima, e lei si perde. Quello che prima era possibile – far convivere in pace i due piani esistenziali senza dover per forza sceglierne uno – adesso non lo è più, la punta del desiderio incrina la lastra di cristallo e Faustine va in pezzi.

Patrizia Crippa, Storia di Faustine, Polimnia Digital Edition. E-book, euro 6,49 disponibile nei formati pdf, epub, kindle

Le due Iris di Shalev

Iris è una donna israeliana di quarantacinque anni che vive a Gerusalemme. Ha una famiglia – un marito e due figli grandi – e un lavoro in cui mette tutta se stessa: è direttrice in una scuola dove si tenta con coraggio e tenacia l’integrazione tra arabi ed ebrei, è stimata da tutti. Dieci anni prima è rimasta coinvolta in un attentato a un autobus, passava di lì nel momento dell’esplosione (a causa di un cambio di programma forse imputabile a un tradimento del marito) e ha riportato gravi ferite per le quali ha subito interventi chirurgici e lunghi periodi di ricovero. Dopo un decennio di relativo benessere fisico, improvvisamente il dolore fisico si risveglia, lancinante, insopportabile. “Devo aver  fatto un movimento sbagliato, prendo una pastiglia e vado a lavorare” dice a Michi, il marito che la soccorre spaventato.

Zeruya Shalev, Dolore (Copertina)

Invece il dolore non passa, anzi peggiora. Così decide di interpellare un luminare nel campo della terapia del dolore e qui un’incredibile coincidenza le fa reincontrare l’unico vero grande amore della sua vita, Eitan, con cui a diciassette anni aveva vissuto una storia travolgente e che l’aveva abbandonata dopo la morte della propria madre, amorevolmente assistitita da Iris per tutta la malattia. Dopo l’abbandono lei era caduta in una profondissima crisi e aveva trascorso mesi di completa abulia, sfiorando l’annientamento fisico e psichico. Da allora non l’aveva più incontrato. Iris decide di rivederlo, lo cerca, chiede insistentemente alla sua segretaria un appuntamento per un’altra visita. Le pare che la sua vita possa finalmente uscire dai binari grigi su cui ha proceduto per vent’anni con un matrimonio insoddisfacente, con un uomo che non è quello giusto e con cui ha generato due figli che dovevano essere invece i figli di Eitan. La sua vita può riprendere il corso naturale che per un errore era stato abbandonato. Per caso, proprio in quei giorni viene a sapere che Eitan, poco tempo dopo l’abbandono, era andato a cercarla per tentare un riavvicinamento. Ma lei quel giorno non era in casa, e lui, cacciato in malo modo dalla madre, non l’aveva più cercata. Questa tremenda beffa del destino la convince ancora di più a perseverare nel suo tentativo di riavere l’uomo che è stato la sua gioia e la sua rovina e di recuperare il tempo perduto. E ci riesce. I due riprendono la relazione lì dove l’avevano interrotta, convinti di poter cancellare con un colpo di spugna i decenni di lontananza e le nuove vite che nel frattempo si sono costruiti. E subito Iris si caccia in situazioni che sfiorano il grottesco – nel giardino del condominio dove abita Eitan, di sera al buio, nascosta come un ladro nel folto di una siepe, o a casa sua, dove, febbricitante, in pagine tra le più riuscite e divertenti del libro, riceve l’amante-medico senza accorgersi della domestica che li sorprende in atteggiamento quantomeno sospetto e alla quale lei fornisce spiegazioni decisamente inverosimili.

Mentre il desiderio di rivedersi si fa ogni giorno più impellente e si scontra con le complicazioni della vita familiare e lavorativa di entrambi, Iris scopre che sua figlia Alma è in pericolo: a Tel Aviv dove lavora è caduta nella rete di una setta a capo della quale c’è proprio il titolare del locale dove la ragazza fa la cameriera. E subito si affaccia il pensiero che, se vuole salvare la figlia, dovrà rinunciare all’uomo che ha appena ritrovato e che cerca di convincerla a lasciare la sua famiglia per cominciare una nuova vita con lui. L’aut-aut è immediato nella sua testa. Così come non riesce a cogliere l’opportunità di un incontro che, comunque, sarà un nuovo incontro e continua a riproporre la messa in scena di un canovaccio ormai defunto da secoli, allo stesso modo Iris non riesce a tenere separati i fili della sua esistenza, ciascuno con la propria responsabilità, i propri sentimenti, il proprio tempo, e ha bisogno di barattare l’uno con l’altro, senza riuscire a venire a capo di niente. Se io rinuncio a Eitan, allora Alma si salverà. Questo il pensiero che guida le ore frenetiche di Iris a Tel Aviv. Dopo una sequenza drammatica in cui, nel tentativo di impedire ad Alma di distruggersi con le proprie mani, Iris rischia di finire un’altra volta in ospedale, nelle ultime pagine la famiglia si trova finalmente riunita al suo capezzale, in un quadretto che cerca di ricomporre un’armonia mai esistita, e dove traspare un senso di incompiutezza molto forte.  Se è vero infatti che Iris non può pensare sul serio di riesumare come se niente fosse una storia che aveva vissuto all’età di diciassette anni (e la scena in cui Eitan, in trattoria, la costringe a ingoiare della carne, a lei che da vent’anni è vegetariana, lo dimostra con una violenza che nessuna spiegazione avrebbe potuto esprimere e misura l’abisso che in realtà separa i due amanti), è altrettanto vero però che nel libro non si spiega mai cosa veramente c’è stato di “necessario” nella storia con suo marito. Michi per tutto il libro ci appare una figura di contorno, insignificante. La domanda che il lettore si fa dall’inizio del libro è: “Ma perché lo ha sposato?”. Le figure femminili (Iris, Alma, l’amica Noa con la figlia Daphne) sono ben delineate, vive, si impongono al lettore. Quelle maschili invece (Michi, Omer, perfino Eitan, che a un certo punto Iris comincia a chiamare Dolore) sono sfuocate, sbiadite, incoerenti. Ma, nonostante tutto, l’autrice sembra incapace di credere che un’altra storia, al di là di quella fantasticata e di quella reale, sia possibile. La scelta per lei è tra la farsa di un amore tra liceali e il presente, a cui lei attribuisce un valore “a prescindere”. E infatti, nelle ultime pagine, alla figlia che le dice “Dolore ti ha cercato” e che chiede spiegazioni su quest’uomo dal nome bizzarro, Iris confida:“ [È stato] il mio primo fidanzato. L’ho rivisto per caso nello studio medico, qualche settimana fa”, e Alma la ascolta interessata: “L’hai rivisto dopo trent’anni? Allora è per questo che stanotte l’hai sognato! Davvero sembra un sogno!”. “Hai ragione, non fa parte della realtà” mormora Iris … “è una specie di fuga dalla realtà,” e Alma dice: “che c’è di male nella fuga?”, e sua madre esita un attimo, prima di rispondere: “quando si scappa non è mai libertà”.

Il presente di Iris tuttavia in realtà è la greve storia di un attuale senza passione, senza posta in gioco, segnata solo dal dolore fisico che non dà tregua e dal legame creato dal lavoro e dai figli. Non una parola riscatta davvero questo presente, dove per tutti a dettare legge è il senso del dovere e l’impegno quotidiano. Come a dire: nel presente non c’è posto per il sogno e l’amore, solo ciò che accade sul piano del reale conta davvero. Non a caso, sarà la figlia rientrata all’ovile a gettar via il biglietto di Eitan, nel quale egli aveva scritto a Iris “Torna da me”.

Una scrittura potente quella di Zeruya Shalev, verrebbe da dire quasi maschile, senza tentennamenti, senza mezze misure. Travolgente, brillante. In questa storia senza pause si piange, si ride, si mangia, si beve, si suda. I corpi sono ora puliti e profumati, ora sporchi e puzzolenti. Come le strade, le città e le case in cui i personaggi della storia si muovono. Immagini dai colori saturi, le sue, che vengono da un altro mondo, quello di Israele, dove la vita e la morte, il bene e il male, i sentimenti, le percezioni sensoriali, le parole hanno il rigoglio di un tempo arcaico, sono esposti alla luce di mezzogiorno. Una scrittura che rimbalza di continuo dal tempo attuale – fatto di cellulari, computer, messaggini, rumori di città, auto nel traffico, cosmetici, negozi, ospedali – al tempo biblico, scandito da altri ritmi e altri suoni, un tempo sospeso che ricorda l’eternità e la morte, ciò che – come il dolore per Iris – non passa e insiste.

Dolore, di Zeruya Shalev, sul sito dell’editore