Io ti salverò, o scuola!

Cosa accadde quando decisi di smettere d’insegnare a scuola con mio grande rammarico, segnando così un’altra sconfitta nella mia vita da intellettuale.

Ma le delusioni e le sconfitte a metà del cammino della mia vita, dopo quasi un decennio del secondo millennio cristiano, si accumularono nel giro di pochi anni. Un giorno, mentre parlavo con un professore universitario in pensione, mi arrivò una telefonata. Era la scuola. Mi ero dimenticato di essere iscritto nelle liste delle supplenze sia per le medie che per le medie superiori. Così, per una settimana, avrei dovuto insegnare italiano in una classe di seconda media di una scuola cittadina. A cinque minuti da dove lavoravo. Mi sembrava una chiamata del destino. Non potevo dire di no all’occasione di tornare a insegnare, per almeno una settimana. Poche ore in tutto. Il fatto mi divertiva. La scuola era vicino, così accettai. Finalmente avrei toccato con mano come andava la scuola italiana, primo motore di un paese colto, economicamente e moralmente all’avanguardia come il nostro. E le sorprese furono importanti per il mio morale.

Cuore
Cuore

Gli avrei letto un racconto come Lo specchio deformante di Čechov, uno dei miei cavalli di battaglia con cui avrei fatto capire la mia passione per la scrittura e il leggere. Pensai di innovare il modo di fare lezione con le lavagne elettroniche, di preparare testi e immagini, per proporre ai ragazzi una didattica interattiva, moderna, degna di una scuola all’avanguardia, usando la televisione, la pubblicità e i giornali come strumenti didattici. Dopo poco meno di mezz’ora mi ritrovai di fronte a una classe incontrollabile di ragazzi che urlavano come pazzi, agitati, al limite della schizofrenia. C’era un gruppo di cinque bravi relegati in un angolo della classe, spauriti, muti e rassegnati, e due iperattivi, uno dei quali per salutarmi fece un paio di capriole per terra davanti a me, facendo ridere la classe intera. La metà erano extracomunitari che non conoscevano l’italiano, tra un marocchino un po’ svanito che non capiva ancora dove fosse capitato ormai da qualche mese, due ucraini, un russo, e un egiziano ammutoliti. Il più grande tra loro era un bosniaco ciccione, ripetente con la testa rasata che mi guardava torvo, probabile figlio di qualche guerrigliero della guerra serbo-croata della metà anni novanta. Infine c’erano due ragazzine dislessiche con gravi ritardi non solo nella comprensione del testo che mi mettevano molta tenerezza. Dopo mezz’ora di fatica presi il libro di Čechov e tra mille «Stai zitto!» «Restituisci la merenda!» «Sì, vai pure in bagno!» «Lascia stare la tua compagna di banco!», «Alzati! «Non tormentare la tua vicina, per piacere!» riuscii finalmente a trovare un po’ di calma e concentrazione.

Stavo finendo di leggere la prima pagina quando entrò in classe urlando un ragazzo autistico che picchiava una sedia, con tanto d’insegnante d’accompagnamento che lo inseguiva correndo. Si avvicinò  pericolosamente verso la finestra cercando di buttarsi giù nel cortile. Lo afferrai insieme alla professoressa di sostegno che ridendo mi disse: «Ma sa, fa sempre così! Non capisce niente, io cerco di tenerlo ma è difficile anche farlo star buono in classeª.

Ero sconvolto. Non riuscivo a capire dove avevo sbagliato o dov’ero finito, quindi il giorno dopo entrai in classe, mi appoggiai alla scrivania e aspettai guardandoli in silenzio. Il ciccione bosniaco cominciò a dare pugni alla spalla della sua compagna di banco, la ragazzina dislessica. Allora mi avvicinai, lo sollevai di peso insieme al banco, mettendolo in un angolo della stanza, e gli dissi con un sorrisino minaccioso: «Appena ti muovi o alzi la mano, io vengo qui e ti do indietro quello che hai appena fatto alla tua compagna!»

Ci fu subito un gran silenzio.

Quando entrò un ragazzo universitario, che aveva mandato la presidenza come osservatore psicologico per i due iperattivi che avevano aumentato le loro capriole per mettersi in mostra a quel giovane imberbe, lo presi per il colletto e senza nemmeno dargli tempo di entrare e parlare, lo buttai fuori dicendo che lì comandavo io e non c’erano psicologi del cazzo che venivano nella mia classe.

Si erano tutti zittiti. Poi presi il libro di epica e cominciai, in un grande silenzio, a leggere l’Odissea, Polifemo che si mangia i compagni di Ulisse, e feci vedere come strappava i corpi con un pezzo di torta salata rubata senza chiedere il permesso da sotto il banco ad uno dei due iperattivi che si guardò bene dal rispondere o dal protestare per il mio ladrocinio.

Nel giro di un’ora li avevo tutti sotto controllo, fino a quando non entrò il bambino autistico che portò di nuovo scompiglio, urlando, picchiando il tavolo e la seggiola con una violenza a cui decisi di non opporre resistenza.

Parlai col preside, denunciando che la presenza del bambino autistico era assolutamente sbagliata, che per lui ci volevano strutture adeguate, e che metterlo in una classe come quella era controproducente per tutti. E questo, sottolineai, per colpa di una scuola imbecille, incapace d’intendere che esere democraticamente aperta a tutti non voleva dire mescolare tutti in uno zoo. CosÏ i dislessici e gli extracomunitari avevano bisogno di un aiuto per recuperare alla svelta. Protestai vivamente e il povero preside mi guardò con gli occhi rassegnati, come per dire di lasciar stare, di non infervorarmi troppo per quei disgraziati, sia normali che autistici o semideficienti. «Cosa vuole che facciano nella vita. Sono la maggior parte figli di disgraziati. Non pretenderà di cambiare il mondo della scuola dopo un giorno di supplenza?»

Protestai, dissi che ci voleva un’altra insegnante di sostegno perché quella era un’incapace, che diceva cose tremende contro il ragazzo in sua presenza.

«Ma guardi che capisce tutto!» dissi alla donna. Era una quarantacinquenne, napoletana, che non avendo voglia di insegnare, si era data al sostegno.

«Ma cosa vuole che capisca, E’ autistico! La sua famiglia è esasperata dalla sua presenza: ce l’ha in casa tutto il giorno. Non dormono più perché urla e corre anche di notte, buttando tutto all’aria. Suo fratello, che era normale, ha dato segni di autolesionismo e convulsioni per colpa sua. Stress emotivi. Capisce, un figlio così è una disgrazia». E lo diceva mentre teneva per mano il ragazzo chiuso in una stanza tutta imbottita di materassi in quella scuola all’avanguardia nel trattamento dei ragazzi autistici. Il tutto aveva l’aspetto di un ring di pugilato.

Pensai che il sostegno ci voleva per lei più che per l’autistico e glielo feci capire, tanto che per un’intera settimana il ragazzo entrò solo una volta sbattendo la sedia.

In classe la soglia di attenzione dei ragazzi era ridotta a cinque, dieci minuti al massimo, poi saltava per aria tutto, con risa, gridolini e lotte, e  riprendere la loro attenzione era sempre più difficile.

Alla fine della settimana cercai di far recuperare gli stranieri assegnando dei grandi esercizi di copiatura da testi italiani, con l’idea di un vocabolarietto personale dove accanto alla parola scritta in italiano si doveva anche stilizzare un disegnino e la parola nella loro lingua madre. Per i dislessici inventai un esercizio di copiatura e di lettura di testi facili e umoristici molto brevi; infine, per i bravi, cominciai a far leggere in fotocopia racconti assolutamente nuovi, per invogliarli ad andare avanti più velocemente nel programma. Era una didattica diversificata che non portò, in breve, nessun beneficio, ma solo col tempo avrei risolto qualcosa: ero il supplente e il supplente sta solo una settimana che spesso si considera di vacanza. Ma con me, dopo aver fatto capire chi comandava, erano stati bravi e li premiai, come avevo promesso loro, con l’ultima ora della settimana in giardino, all’aperto.

Presero tutti la sedia e si sedettero in circolo. La mia presenza attirò l’attenzione di alcuni insegnanti, tra cui una che seguiva un ragazzo down, Matteo, serissimo.

«Non ha chiesto il permesso al preside. Queste cose non si fanno. Non si portano fuori i ragazzi senza permesso» disse l’insegnante di sostegno.

Senza risponderle la guardai come si guarda un cane schiacciato da una macchina.

«Le responsabilità sono sue se accade qualcosa!»

«Non me ne frega un bel niente!» risposi sorridente. Dovevo avere una faccia da schiaffi.

Raccontammo insieme quello che era accaduto nella caverna di Polifemo e avrei letto la vendetta di Ulisse che avrebbe dichiarato il suo nome al gigante accecato, scatenando le ire degli dei. Per mezz’ora tutti mi seguirono con grande partecipazione. Nell’aria calda della primavera, all’ombra di un albero, riuscii a fare finalmente lezione. Poi accadde di tutto. Prima si alzò l’autistico che si avvicinò a me, fece come tre salti di gioia dentro al cerchio delle seggiole, si avvicinò toccandomi le labbra con le dita e poi cominciò ad urlare saltando. Io restai come di sasso per quel gesto che valeva mille ringraziamenti. Poi all’improvviso, in un momento di silenzio, mentre parlavo di Nessuno che urlava contro Polifemo che aveva cominciato a tirare i suoi enormi pietroni in mare, il ragazzo down lasciò andare un’immensa scoreggia che fece ridere tutti. «Matteo ha scoreggiato!», ´Oh, Matteo, che puzza!».

L’insegnante mi guardò sorridendo imbarazzata per lui. Anch’io scoppiai a ridere di fronte alla faccia serissima di Matteo che non si era minimamente scomposto. Quello era il segno che aspettavo, un’immensa scoreggia al mio destino di insegnante da parte di un bambino down, la cui faccia serissima definiva perfettamente la gravità del segno divino come il tuono di Zeus sulla mia testa. Un monito sacro. E lì capii. Così si chiudeva la mia carriera scolastica d’insegnante, e quando mi chiamarono per aver vinto tre concorsi per le elementari, medie e superiori, rinunciai a tutte e tre le cattedre perché non ero nato per fare l’assistente sociale, rinunciando così, da pazzo, al posto statale, sicuro per una vita.