Giuseppe Ungaretti, complice della nostra innocenza

Un poeta italiano enclave fra l’alfa e l’omega della poesia neoellenica del XX secolo

Quando New York non era ancora la big apple che oggi tutti conoscono, un ultra-millenario emblema di cosmopolitismo e integrazione si era già costituito sulle coste del Mediterraneo: Alessandria d’Egitto. L’eterogenia della popolazione aveva portato all’assenza di un sentimento patrio preciso, di una tradizione culturale definita, favorendo altresì una libertà di costume anomala per gli standard europei. L’unico spazio comune all’interno dei confini urbani non era un luogo o un edificio pubblico, ma una lingua, la lingua greca.

Assume i toni della favola pensare che in quella città fuori dal tempo, al tavolo di una latteria del boulevard di Ramleh, ogni sera Constantino Kavafis, impiegato part-time dell’Ufficio irrigazioni e massima voce poetica delle letteratura neoellenica di inizio secolo, sedesse al tavolo con i giovani redattori della rivista Grammata a cui spesso si aggregava un non ancora ventenne Giuseppe Ungaretti.

Costantino Kavafis
Costantino Kavafis

Ungaretti – nato ad Alessandria un quarto di secolo dopo Kavafis -, in tarda età, ricorderà il poeta greco con l’ammirazione di chi sapeva di essersi seduto non sulla spalla, ma accanto alla sedia di un gigante sentenzioso e assorto, ma pur sempre umile e affabile:

«non voleva che lo considerassimo più d’un compagno, sebbene ci fosse maggiore d’età e già dagli intenditori fosse salutato vero poeta. A volte, nella conversazione lasciava cadere un suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata, allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere».

Giuseppe Ungaretti
Giuseppe Ungaretti

La memoria si fa versi nella prima produzione dell’autore de Il porto sepolto e le lezioni desunte dal Canone Kavafis si delineano con saggezza sotto diversi aspetti: innanzitutto viene recuperata l’intenzione di scrivere una sorta di «Iliade rovesciata, in cui gli eroi sono sempre più grandi della loro caduta» (D. Grandmont), esempi fulgidi potrebbero trovarsi nella voci di San Martino del Carso o di Veglia che reagiscono strenuamente all’orrore della guerra, portando alla luce l’élan vital che abita chi sopravvive ad una catastrofe, parallelamente in Kavafis si potrebbero leggere Il dio abbandona Antonio e Troiani; la seconda influenza è presente, invece, nell’accento storicistico ravvisabile non solo nell’argomento trattato, ma soprattutto nella sua inclusione all’interno dell’assetto formale delle poesie, infatti costante della poesia ungarettiana è apporre una data che collochi il testo in una determinata dimensione cronica, proponendo un modo di poetare storico, che si concentri più sui particolari (τὰ καθ’ ἕκαστον) che sull’universale (τὰ καθόλου) – per utilizzare categorie aristoteliche -, eppure tale tipo di operazione talvolta era già stata praticata dallo stesso Kavafis in cui non è difficile rintracciare testi come Il gennaio del 1904 o Giorni del 1909, ’10 e ‘11.

Nel 1912 Giuseppe Ungaretti lascia l’Egitto ma porta con sé quel lampo di luce greca che Alessandria gli aveva donato per illuminare il mondo fra le due guerre, restando fedele alla lirica degli alberi delle nuvole e delle stelle di matrice arcaica. Questo bagliore sembra giungere alle isole dell’Egeo e avere la forza di irraggiare Odisseas Elitis, poeta ellenico e vincitore nel 1979 del premio Nobel per la letteratura, che scriverà un breve saggio sulla poetica di Ungaretti, contenuto in Carte scoperte (Atene, 1974) e pubblicato in Italia nella raccolta di saggi Il metodo del dunque (Roma, 2011, curatela di Paola Maria Minucci).

Odysseas Elytīs
Odysseas Elytīs

Nel suo lavoro critico Elitis si lascia andare all’autobiografia e confessa di accusare un forte senso di malessere ogni volta che si accosta alle mostruosità delle metropoli. Unico esorcismo possibile sembra allora fare o pensare semplici cose (mangiare del pane o pensare ad un’isola) per recuperare quella «sufficiente scorta di luce» che controbilancia il buio nel mondo. In questi casi la poetica ungarettiana sopraggiunge spontaneamente nell’animo del poeta greco per cercare di delimitare, nella complessa realtà che ci circonda, le linee della vita «in un disegno il cui limpido contorno, come il mare intorno a un’isola, ci lascia vedere meglio quale possa veramente essere il mondo degli uomini in tutte le epoche, una volta tolto il peso delle nostre vanità».

Il lettore profila un’immagine di Ungaretti come complice della sua innocenza, qualità che non concede scudi o armi contro ciò che quotidianamente subiamo, ma ci permette di osservare il mistero della vita e della morte con la certezza di essere mondi.

Il poeta di Mattina (M’illumino / d’immenso) e l’autore del Dignum est (ΣΤΗΝ ΑΡΧΗ τὸ φῶς, “In principio c’era la luce”) sono due uomini che hanno vissuto distintamente le loro esistenze, cercando di tracciare con i loro versi le traiettorie comuni dei raggi del sole mediterraneo: un sole onnipresente e intramontabile anche quando si è giunti al confine con l’abisso.

Giorgio de Chirico, L’archeologo (1927)

Pochi mesi prima di morire Ungaretti inseguirà ancora quella luminosa stella nella speranza estrema che una poesia possa fare deflagrare le tirannidi che ci attanagliano:


       Grecia 1970
       Roma, il 12 dicembre 1969

       Atene, Grecia, segreto, vertice di favola incastonata
    dentro il topazio che l’inanella
          Sul proprio azzurro insorta in minimi limiti, per esse-
    re misura, libertà della misura, libertà di legge che a sé
    liberi legge.
         Sino dal mare, dal cielo al mare, liberi l’umano verti-
    ce, la legge di libertà, dal mare al cielo.
        Non saresti più, Atene, Grecia, che tana di dissennati?
    Che tana della dismisura, Atene mia, Atene occhi aperti 
    che a chi aspirava all’umana dignità, apriva gli occhi.
          Ora, mostruosa, accecheresti?
          Chi ti ha ridotto a tale, quali mostri?