Manet e l’asparago mancante

Partiamo da “un” Asparago. Già solo uno! Ci si sofferma quasi di sfuggita davanti a questo piccolo quadro costruito sinteticissimamente, ton sur ton fra nuance di bianco latteo, grigi e malva.

Edouard Manet (1832 – 1883), L'asparago (1880)
Edouard Manet (1832 – 1883), L’asparago (1880)

Il “modello” è lì in bilico su un bordo di un piano di marmo dalle venature di un colore vicinissime a quello dell’asparago. Il piccolo quadro del 1880 viene colto dal visitatore quasi di sfuggita, mentre con gli occhi è alla ricerca dei capolavori di Manet nella mostra a Palazzo Reale a Milano intitolata Manet e la Parigi moderna, aperta fino al 2 luglio, con la curatela del presidente del Musee d’Orsay Guy Cogeval. Eppure è questo asparago che ci prende per il naso e che fa ripensare al breve ironico apologo di Achille Campanile, Asparagi e l’immortalità dell’anima, a offrirci un saggio sulla quintessenza del dipingere di Eduard Manet.  Basta leggere la scheda di presentazione all’operina nel catalogo Skira per cogliere la vena umoristica dell’artista: «Questo piccolo dipinto venne donato da Manet a Charles Ephrussi, storico dell’arte, editore della “Gazette des Beaux-Arts” e banchiere che gli aveva comprato il quadro Un mazzo di asparagi. Poiché Ephrussi aveva pagato una cifra superiore a quella richiesta, l’artista gli inviò L’asparago accompagnato dalle seguenti parole: “Al suo mazzo ne mancava uno”.» Spiritoso e ironico Eduard Manet, ma attenzione: l’opera di soli 16×21 centimetri, non è un regaluccio semplice, rivela tutto il talento di un artista e come scrive Georges Bataille, «Questa non è una natura morta come le altre! Morta, sì, ma al contempo vivace.» È un realismo straordinariamente tangibile quello di Manet, dato da una pittura     nervosa, sincopata, fatta di tache, macchie e righi veloci, spregiudicata, ma da non confondere mai con quella impressionista; seppure l’artista venga riconosciuto da Bazille, Renoir, Monet come il loro maestro e il capofila, Manet rifiuterà sempre di esporre con loro, gli Intransigenti, questo il primo nome del gruppo degli impressionisti. Manet va sempre alla ricerca di quel riconoscimento ufficiale, di quella patente accademica che a Parigi offriva solo il Salon, voleva essere un classico. E lo è. La sua meditazione sulla pittura classica è proprio quella che ne beve la lezione più vera e non la imita, ma la rende moderna. Manet a lungo non sarà compreso.  Le sue opere saranno dileggiate, irrise e ritenute scandalose: da Le déjeuner sur l’herbe dove un nudo femminile è esibito in compagnia di due gentiluomini parigini vestiti di tutto punto, alla nudissima, sprezzante e invitante Olympia; la donna con uno sguardo da “Nessuno mi può giudicare” guarda direttamente lo spettatore adescandolo, indossa solo un perverso collarino nero e dondola sciatta una ciabattina verde. Questa non è certo una posa da dea, i cui corpi perfetti dal vellutato color di mandorla venivano ammessi nella loro nudità sui quadri degli artisti accademici, da Ingres a Cabanelle in testa, ma qui invece c’è un corpo da pasto per i voyeur di una casa chiusa.  L’ Olympia non è in mostra, ma ce n’è una copia che occhieggia da un altro capolavoro di Manet: Il ritratto di Emile Zola del 1868, dove lo scrittore di Nanà e del J’accuse è lo strenuo difensore della “pittura moderna” di Manet con Baudelaire e il poeta Mallarmè, il cui ritratto fluido e melanconico è pure in mostra.

Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868)
Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868)
Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868), particolare
Edouard Manet (1832 – 1883), Ritratto di Emile Zola (1868), particolare

Nel quadro dietro a Zola di coltello occhieggia la riproduzione di quell’Olympia che sembra guardare riconoscente verso chi, in modo profetico, l’aveva definita un “capolavoro” degno del Louvre. In realtà  sono proprio gli elementi di contorno al profilo da medaglia, inespressivo e statico di Zola, ad essere una cartina di tornasole, anzi una “summa” dell’arte di Manet. Insomma questo non è il ritratto di Zola, ma l’autoritratto indiretto dello stesso artista francese e dei fondamenti del suo dipingere moderno: l’arte giapponese e Velázquez.  Il Giappone arriva in Francia proprio come la Grande Onda di Hokusai. Essenzialità e bidimensionalità colpiscono Manet come tutti gli Impressionisti; nel quadro il paravento nipponico e una stampa di Utamaro testimoniano questo amore. Ed ecco poi la Spagna con la presenza nell’opera di una incisione dai Borrachos (I beoni) di Velázquez, «il pittore dei pittori», afferma Manet quando, giunto in Spagna nel 186, vistando il Prado viene incantato dal Buffone Pablo di Valladolid di Velázquez, tanto da raccontare all’amico Fantin Latour: «Lo sfondo scompare: è solo aria, che circonda questo buffone di corte» E aria sia! Ed è quella che circonda l’icona della mostra: Il piffero – Le fifre del 1866.

Edouard Manet (1832 – 1883), Il piffero (1866)
Edouard Manet (1832 – 1883), Il piffero (1866)

La tavolozza dei colori è ridotta all’essenziale, lo spazio è privo di profondità: unico accenno alla tridimensionalità è l’esile ombra dietro al piede sinistro.  Si distingue a malapena il confine tra il piano orizzontale del pavimento e quello verticale dello sfondo, perché il Piffero è quasi sospeso nell’”aria” grigia uniforme, con pochissime sfumature e totalmente spoglia.

Ed è un rumor di nacchere e toreade nella sala della mostra “L’heure Espagnole”. Nel Combattimento di Tori (1866) la massa furoreggiante è data solo da brevi macchie indistinte, quasi en attendant Picasso, mentre il critico dell’epoca, Edmond About, descrive il quadro come “un torero di legno ucciso da un topo” per evidenziarne gli “errori” di prospettiva.

Edouard Manet (1832 – 1883), Corrida (1865–1866)
Edouard Manet (1832 – 1883), Corrida (1865–1866)

Pifferi  e massa, clochard e miserabili , tutti senza distinzione tra alto e basso, sono i muti testimoni della  Vita moderna che dà il titolo alla mostra, così come la vorticante ballerina gitana  del dipinto Lola di Valnciaq, o La cameriera della birreria,  del 1878-79, con i suoi boccaloni in equilibrio, ma dallo sguardo fisso e indagativo, quasi non sentisse dietro di lei il can can del ballo;  drasticamente  segata a metà la cantante, con un vero taglio della disciplina emergente, la fotografia.

Edouard Manet (1832 – 1883), La cameriera della birreria (1878-79)
Edouard Manet (1832 – 1883), La cameriera della birreria (1878-79)

Sguardi persi, solitudine e ombre che salgono fino al mistero nero del Balcone.

Edouard Manet (1832 – 1883), Il balcone (1868-1869)
Edouard Manet (1832 – 1883), Il balcone (1868-1869)

In bianco abbagliante c’è l’amata Berthe Morisot, sua modella, cognata e pittrice, accanto una coppia di amici, e dietro, nel buio di gazza, il figlio Leon: immobili, come persi in un vuoto interiore. Il quadro fa nuovamente scandalo. “Chiudete le imposte!” ironizza il caricaturista Cham, ma ormai, per mano di Manet, i neri abissi della psiche si fanno largo nella vita moderna.

Come scalare il Guercino

Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola. Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.

Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.

Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola, Le vele con Davide e Isaia si devono al Morazzone, il resto del ciclo di affreschi è di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino
Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola Sibille

A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?

Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola, Riposo durante la fuga in Egitto
Piacenza, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Cupola, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale… Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846. Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.

A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) La morte di Cleopatra, 1648, Olio su tela, 173 × 238 cm, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso

E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) Cristo risorto appare alla Madre, 1628-1630, Olio su tela, 260 × 179,5 cm, Cento, Pinacoteca Civica “Il Guercino”

Per mantenere le stimmate del mondo terreno – e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 – Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666), Immacolata Concenzione 1656, Olio su tela, 258 x 180cm, Ancona, Pinacoteca Civica “F. Podesti”

 

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666), Immacolata Concenzione 1656, particolare

Trame – I mille fili dell’arte tessile

«Il mio cucire ha più merito degli scarabocchi di entrambi voi» sorride canzonandoli Fanny Brawne, musa ispiratrice del poeta inglese Keaton, rivolgendosi all’amato che la dileggia per le sue “opre femminili”. La scena appare nel film di Jane Campion Bright star dedicato alla tragica esistenza del poeta romantico inglese ed è un vero saggio (fra comunanza e forza metaforica) di ricamo e parola poetica

Non a caso la pellicola si apre con il primissimo piano di un ago che esce ed entra in una stoffa bianca e finisce con un’immagine speculare, un altro ago che penetra una stoffa nera. Fra i due aghi passano gli anni e irrompe la morte, perché John Keats muore a Roma, a soli 26 anni, il 23 febbraio del 1821. La ricerca della parola poetica di Keats crea la trama su cui Fanny ricama ossessivamente mentre lei si tramuta in anima e musa del poeta, spesso immersa in un brulichio poetico di farfalle, la rappresentazione grecadella psiche.

A Giulia Niccolai, cofondatrice della rivista Tam Tam assieme ad Adriano Spatola nel 1972, legatasi successivamente alla poesia concreta e visiva, sono bastati cinque rocchetti di filo rimbaudiano, uno rosso, gli altri blu, verde, giallo e nero tratteggiati a pastello su un foglio da disegn,, ma dalle cui spolette disegnate escono fili veri , per intrecciare la parola poema. È un’opera del 1974 e il filo si lega nuovamente alla parola poetica, certo con lo scarto semantico di finti fusi di filato solo dipinto, ma queste pure forme, con la presenza vivida di legami, rimandano alla traccia antica del filato e delle storie che si dipanano o ci confondono.

Forse che Ulisse si sia fermato a Ulassai in Sardegna? Maria Lai (1919-2013) è un’artista sarda, asciutta, caparbia, carismatica, senza veli. Proprio lei, che riprende a tessere e sprigiona nella gentilezza della forma delle sue opere una forza mitica e sorgiva, deve aver sentito voci di sirene e le ha trascritte nei suoi Libri cuciti, pagine nate fra gli anni ‘70 e riprese nei ‘90, tutte impunturate di fili che trasbordano come onde, code fuori dai margini, grovigli di storie che scivolano via.  Nei suoi Percorsi di invenzione Maria Corti narra come Ulisse si sarebbe rimesso in mare dopo aver domato i Proci a Itaca, come gli aveva profetizzato l’Indovino Tiresia nell’XI libro dell’Odissea:

«quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,/o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,/allora parti, prendendo il maneggevole remo ». Ed ecco che le nuove strade di Odisseo sulle tracce dell’antica via Herakleia portano anche in Sardegna, in un percorso tramato di invenzione che Maria Lai ha trascritto nella lingua dei fili magari, quelli delle barbe di bisso che solo in Sardegna ancora si filano, lunghi filamenti di grandi valve immerse nel mare.

Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi
Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi

Se Pontiggia nei Contemporanei del futuro afferma che i classici non sono alle nostre spalle, ma davanti a noi, che li si deve ancora raggiungere, anche la ricerca di Maria Lai ha avuto il passato come futuro: dai Ready-made del telaio, dal pane carasau, alle arti di ricamo e tessuti del passato arcaico sardo, dall’antico gesto della tessitura agli interventi ambientali. Tutti modi di «fare i conti con le madri » scrive Vanna Romualdi in Off Loom, un testo dedicato alle mostre della Fiber Art in Itali. E prosegue: «Aspetti che passano attraverso un sistema di cura e attenzione e pongono il fare al centro di relazioni essenziali con la memoria, la natura il tempo». Implacabile destino questo del tessere: all’inizio doveva ottemperare a requisiti di robustezza e leggerezza creato dall’arma femminile delle maglie, del colpo di spola che unisce madri e progenie come un cordone ombelicale, una tradizione che si annoda e si snoda nel tempo. Poi nel 900 tutte queste trame sviluppano lentamente una dimensione estetica.

Fili, intrecci, reti e nodi, ricami e uncinetti, tessuti e fibre, storie antiche del filare e la Berta che sempre filava, diventano materia e soggetto d’arte.

Certo sdoganare il manufatto per connotarlo come creazione artistica è stato un percorso difficile, soprattutto in Italia, per il pregio del suo tessile come arte applicata.

Dove finisce l’artigianato e dove comincia l’arte? È la domanda quasi ossessiva che si ripresenta fra gli studiosi della Fiber art o Textile art, Soft sculpture, Art fabric: «tutti nomi inglesi che non hanno ancora trovato una soddisfacente traduzione nella lingua italiana» , come scrive Lydia Predominato , artista che combatte il pregiudizio contro la manualità della Fiber art . L’artista è anche una delle promotrici con Bianca Cimotti Lami della prima mostra italiana di Off Loom, Fuori dal telaio nel 2000 e poi delle Biennali della Fiber Art di Ameglia.

Rompere resistenze culturali. Già la strada veniva dissodata nella «seconda metà dell’800 con il movimento inglese Arts and Crafts, proseguito con l’Art Noveau e, soprattutto, con le avanguardie del ‘900, Futurismo e Bauhaus in primis, Espressionismo astratto americano». I tessuti di Depero, il suo Arazzo festa 25, ritagli di pannolenci cuciti secondo un disegno dell’artista, narrazione quasi ludica di episodi bellici e il vestito antineutrale di Giacomo Balla. L’Arazzo dei leoni di Cambellotti, i tessuti di Mariano Fortuny e Gio Ponti che interviene nel sostenere il tessile come arte.

E poi i Sacchi di Alberto Burri, le tele tagliate di Lucio Fontana e i feltri di Joseph Beuys: l’artista –sciamano racconta che il feltro è per lui il tessuto dal potere salvifico che lo ha restituito alla vita. Ferito gravemente durante la seconda guerra mondiale, viene salvato da una tribù di Tartari che lo raccolgono morente e lo avvoltolano in un panno di feltro, spalmato di grasso. Feltro e grasso ricompaiono in decine di sue performance.

Nel 1958 al Moma di New York si allestisce la mostra Textile Usa. Per la nuova progettazione tessile.

La storia italiana nella genesi del movimento della Fiber Art procede a punti lenti e ha un momento nodale nella Biennale Internationale de la Tapisserie Ancienne et Moderne di Losanna, progettata dall’ artista-arazziere Jean Lurçat con Pierre Pauli. Nascono opere tessili, Trame d’artista, riprendendo il titolo di un libro critico informatissimo di Marina Giordano sul tessuto nell’arte contemporanea. Si va alla ricerca di quello scarto emblematico che rende unico l’operato tessile dell’artista rispetto alla creazione dell’utile. Ma anche in questo tentativo di trovare i profili di opera d’ arte diversi dal prodotto di artigianato la pezza della fiber art si trova imbastita con la grande corrente del design.

Marisa Merz – Senza titolo - s.d.
Marisa Merz – Senza titolo – s.d.

La diffusione del tessile si capillarizza nella seconda metà del Novecento, rinverdisce linguaggi anche sulla spinta italiana dell’Arte Povera che rivaluta i materiali e  gesti artigianali poveri come il fare la maglia, ma con quale nuovo empito: Marisa Merz sferruzza,  filo certo, ma di rame: dalle sue mani nascono reti modulate in tasselli geometrici , trapezoidali o triangolari disposti ad esempio in forma crescente l’uno dentro nell’altro secondo rapporti matematici,  in una progressione essenziale, primordiale. O utilizza matasse di canapa che pendono come lunghi capelli su una rete metallica, sorta di scalpi galleggianti, elementi naturali e astratti, richiamo ad un troppo umano e al suo esser perduto.

Marisa Merz - Untitled, 1966 - Wire mesh and hemp
Marisa Merz – Untitled, 1966 – Wire mesh and hemp

Il medium tessile con gli anni 70/80 è sdoganato e si possono individuare alcune linee cruciali del rapporto tra le pratiche contemporanee e le tecniche del filo. Permane la memoria del tessere e ricamare, quella della tradizione lenta e rigorosa associate a Penelope o Creusa, tutte fuso e focolare domestico. Ma questo filare e cucire è sottoposto a un fitto interrogarsi sull’ “art and craft” :  ecco  il  ricamo maniacale di Francesco Vezzoli , “l’artista delle lacrime” . Si è divertito, con un certo sadismo, a far piangere le sue dive, lacrime sincere nel deserto dell’apparire, ricamate in colori pastello su foto in mortuario bianco e nero. Vezzoli ricama con perizia artigianale, per chi ha visto nel taglio e cucito un riscatto per quelle pratiche basse, di femminea quotidianità, un riscatto nei confronti di un’arte maschile troppo sicura di sé.

Ma c’è chi ha fatto del ricamo tradizionale con macchina da cucire un percorso sapiente per dare ascolto ai tessuti, alla loro anima tattile. Nessun richiamo alla pittura in Marialuisa Sponga, anima della Fiber Art italiana, da poco scomparsa. Forte controllo formale e la macchina che ricama assemblando non solo materie, stoffe della tradizione, ma si espande al polietilene, al cellophane, a metalli, reti, assemblaggi con punti antichi, affermando una nuova estetica tattile e visiva.

Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003
Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003

Altri artisti hanno prediletto l’uso della forma purissima delle fibre. In un lavoro che sfida la percezione Gabriel Dawe, artista messicano, crea spiazzanti arcobaleni indoor, spettri nati da un’apparente visione prismatica di un raggio di sole, confinato entro le quattro mura di uno spazio della galleria. Da vicino, i trucchi dell’artista si rivelano. L’opera d’arte è fatta di ordinari fili da ricamo agganciato dal pavimento al soffitto in sovrapposizioni replicazioni e variazioni cromatiche. Una perizia artigianale altissima quella di Dawe che crea, come in un miraggio, un’illusione ottica che incanta i sensi, distorcendo le percezioni; è quasi come se l’artista ricamasse l’aria.

Gabriel Dawe
Gabriel Dawe

E ancora fili che diventano ossessivi, intricati, spesso rossi di un magenta da vasi sanguigni o all’opposto così inchiostrati come quelle ragnatele pendule dei bui sottopassi sono quelli di Chiharu Shiota, giapponese trapiantata a Berlino. Certo i suoi sono fili di ragno e rappresentano un risorgente mito di Aracne, la giovane fanciulla che sfidata a duello la dea Atena per la creazione di una tela perfetta, ne viene punita e trasformata in grosso ragno. L’impressione a Venezia, all’ultima Biennale, visitando nel padiglione giapponese l’installazione di Chiharu Shiota, era quella di immergersi nel rosso viscoso dei fili penduli e molli, dai quali sgocciolavano chiavi che l’artista si è fatta spedire da tutto il mondo. Sotto, due imbarcazioni derelitte, carcasse che mai avrebbero riportato i proprietari di quelle chiavi ad un loro porto o posto sicuro. Patria ricordi sentimenti vita e anime si sarebbero imbozzolate e perdute.

Chiharu Shiota - The Key in the Hand - Biennale di Venezia 2015
Chiharu Shiota – The Key in the Hand – Biennale di Venezia 2015

Ci possono essere ragnatele salvifiche? Secondo alcuni aracnologi, i ragni usano riferimenti astronomici come coordinate per tessere le tele, come la posizione della Luna o la polarizzazione della luce nel cielo. Gli astrofisici hanno individuato un collegamento tra le ragnatele e l’origine dell’universo e Tomas Saraceno, artista argentino che crea architetture utopiche, vagabondando tra le teorie sulla genesi delle galassie e la logica di crescita delle ragnatele, ha ideato un’installazione dal titolo 14 Billlions (2010) dove ha digitalizzato, ricostruito e rielaborato una ragnatala tridimensionale in una tessitura spaziale fatta di fili neri di nylon, immersa in un flou visivo e bioacustico. La costruzione ragnesca nasce da un’ibridazione fra la logica costruttiva di una vedova nera e quella di una tegenaria, sovrapposte e ribaltate in una specie d’intersezione galattica. Il tutto immerso in una stanza lattiginosa, che dilata lo spazio. La ragnatela sembra essere tanto scolpita quanto disegnata nell’aria e gli spettatori possono entrare dentro, strisciando sotto i fili, a … rivedere le stelle.

Photo credits: catalogo della mostra 14 Billions (Working Title), Skira, Milano 2011