Donna Rosa

Donna Rosa era una vera siciliana, figlia di siciliani da generazioni.
Aveva il vento del sud nelle ossa, l’odore delle arance sulla pelle e il sapore della femmina sulle labbra.
Quando era arrivata per la prima volta al quartiere Buenos Aires la gente del luogo era semplicemente rimasta incollata alle sue gambe.
Perfetta, sicura. Due cosce abbronzate e piene, avvolte da uno stretto tailleur.
Un culo ondeggiante, scolpito, morbido e soave.
La camicetta bianca attaccata al corpo dal sudore. Intimo nero di pizzo. Un seno incredibile.
Aveva attraversato la piazza principale con disinvoltura, camminando fiera con lo sguardo alto. Gli occhi neri e le labbra carnose.
I lungi capelli mossi. Bella e siciliana.
Aveva stretto la valigia e non si era fermata di fronte a nessuno.
Il tram chiuso alle sue spalle si portava via il viaggio di ritorno.
Nessun ritorno per Donna Rosa: solo il quartiere Buenos Aires.
Aveva trovato alloggio alla pensione “La pergola”. Sudicia, piccola, dieci camere. Proprio di fronte alla Milonguita. Casa.
Aveva preso i soldi dal reggiseno e li aveva dati alla padrona di casa, poi era salita al piano di sopra, il suono dei tacchi ad ogni scalino.
Gino, il ragazzo delle pulizie, si era bloccato di colpo a guardarla, gli occhi spalancati.
-Che ti sei incantato?-  aveva sorriso lei con espressione ironica, poi era entrata in camera.
Il ventilatore girava senza posa, cigolante, annoiato.
Un bottone dopo l’altro, via la camicia. Una zip per la gonna. Nuda, sdraiata sul letto, le mani lungo il corpo, il fresco sulla pelle.
Quella sera stessa la città era sconvolta dall’arrivo di Donna Rosa. Si cercavano soluzioni al problema.
Chi era? Da dove veniva? Cosa voleva? Ma le domande più pericolose riguardavano i mariti.
Quanti ne avrebbe presi?
Gli uomini la amavano e le donne la odiavano.
Donna Rosa era il peccato della lussuria, giunto per portare all’inferno quella città. E ci sarebbe riuscita.
Si ingegnavano storie sul suo conto: una moglie in fuga dal marito, una donna di mali costumi, un’assassina.
Nessuno sapeva nulla, se non che era bella. Maledettamente bella.
La incontrarono poco nei giorni successivi. Una passeggiata dal tabaccaio per un pacchetto di sigarette, un giro tra le vecchie case; seduta al bordo di una fontana, una mano nell’acqua, lo sguardo perso, forse nei ricordi del lontano Mediterraneo.
Sempre uguale, un vestito leggermente scostato, le cosce calde accavallate, il seno in fuga.
Per i più maligni soffriva il ricordo del suo atroce peccato. Forse aveva ucciso l’uomo che amava.
Donna Rosa affascinava. Affascinava quando stava ferma a guardare il sole, o quando si chinava a raccogliere un oggetto.
A donna Rosa cade sempre qualcosa, aveva detto con malizia l’ostessa una mattina.
Non si sapeva nemmeno come si sapesse il suo nome. Lo si conosceva e basta.
Don Michele, il mafioso, fu il primo ad avvicinarsi a lei. E’ una compaesana, aveva detto, ci capiremo.
E si erano capiti. Si era tolto il cappello bianco in un piccolo inchino, i baffi ben lisciati, un fazzoletto nel taschino.
E lei gli aveva offerto la mano e avevano passeggiato, mangiato un’ arancia e parlato del vento del sud.
Le donne dai balconi li avevano guardati e avevano scosso la testa. Ma nessuno osò dire qualcosa, non a Don Michele. Nessuno poteva.
Padre Giovanni ricevette molte confessioni quella settimana. In troppi l’avevano amata nei loro sogni, in troppi la desideravano.
Molti occhi erano fuggiti senza tornare. In parrocchia si cercava una soluzione, dietro agli occhi fuggivano i mariti.
Alle donne non andava a genio, erano di loro proprietà
Il commissario scosse il capo. Non c’è reato ad essere belle.
C’è nel prendere gli uomini.
Non per la polizia.
Ma per Dio sì.
Poi donna Rosa aveva iniziato a colpire.
Il primo era stato Fabrizio.
Figlio del fattore, maniscalco, l’unico in città che sapesse montare un animale. Un vero mascalzone.
L’aveva raggiunta a cavallo, tutti i giorni lungo la via per il mercato. Aveva fischiato e portato dei regali.
Hey bella. Un mazzo di fiori, un sorriso e un pacchetto di sigarette.
E donna Rosa l’aveva preso.
In un fienile, con l’odore di stalla e il prurito dell’erba secca sulla schiena.
Le schegge tra le dita, il viso poggiato al legno.
Io indosso solo biancheria nera, aveva detto lei, portandosi la mano dell’uomo sulla coscia.
E lui l’aveva amata, in tutti i modi, nel caldo del pomeriggio di agosto, con le mani nodose che stringevano il petto molle.
Le gocce di sudore sulla fronte, lungo la schiena, nell’incavatura tra ginocchio e polpaccio.
E aveva baciato ognuna di quelle gocce, ogni traccia di lei, con ardore e desiderio irrefrenabile.
E lei si era lasciata dominare senza tregua, con la passione e la forza di una vera amante.
Donna Rosa era focosa. Esplosiva.
Erano caduti distesi uno sopra l’altro. Sazi d’amore e di calore, sazi di piacere.
Carne, fiamma e bramosia.
Lei aveva acceso una sigaretta. Splendida avvolta nel fumo.
Ah Fabri…mi fai morire
Il respiro affannoso e gli occhi stanchi.
E lui l’aveva guardata e gli aveva detto che era bella, bella e bella.
Poi Donna Rosa era tornata tra le vie della città, con le spighe tra i capelli e lo sguardo ardente, e i giorni erano ripresi.
Una notte Fabrizio era stato costretto a fuggire, nel buio, sopra un treno senza addii.
Un coltello nell’oscurità, luminoso e veloce, per chi aveva guardato Donna Rosa. Un colpo nel buio per chi aveva desiderato un corpo che era suo.
E Fabrizio se ne era andato, silenzioso e triste, dopo aver appeso al collo la catenina di lei. Dopo l’amore fatto da cani, in un letto disfatto.
E aveva scritto qualche lettera da quella terra lontana da cui non sarebbe più tornato.
Ma Donna Rosa aveva un cuore ribelle, indomabile.
Il suo fuoco ardeva troppo caldo per essere imprigionato da un solo uomo.
Lei era una lupa, una pantera, una temibile fiera dagli occhi rossi e il corpo sinuoso.
Scese in piazza una mattina e il suo sorriso riprese ad incantare tutti.
Il commissario si recò a trovarla, intimorito e stanco di quel paese di arsura, perché con Donna Rosa era arrivato anche il caldo.
Bussò alla porta con colpo severo, lui era la polizia in fondo.
Lei indossava una vestaglia bianca. Duro lavoro il poliziotto, troppe domande. Che fine ha fatto Fabrizio? Perché è scappato? Lo sai che ha ucciso un uomo?
Ma Donna Rosa piazzava lì quello sguardo innocente e alzava le spalle dispiaciuta
-A me mi piaceva commissà, al mio fianco lo volevo, le pare che se sapessi dove sta non glielo direi?-
Femmina furba.
Femmina furba e sola, incastrò anche il commissario. L’amore sul pavimento come due brutti amanti, con ancora la camicia e il distintivo addosso.
Anche la legge cedeva a Donna Rosa.
Un giorno tutte le donne del paese si misero d’accordo per scendere in piazza a discutere.
Se Padre Gianni non voleva far niente e la polizia era corrotta ci avrebbero pensato loro a sistemare quella lì.
Ma proprio quel pomeriggio Donna Rosa passeggiava vicino a Nonno Anselmo, il più vecchio della città, aiutandolo a portare la spesa.
Lui le parlava come ad una figlia raccontandole della donna che aveva amato tanti anni prima, gli occhi pieni di tristezza.
E allora nessuno osò avvicinarsi, non si disturba Nonno Anselmo.
Le cose proseguirono in quel modo per molti giorni, ogni volta che si perdeva di vista un marito si gridava al furto d’amore.
I bar alla sera erano vuoti, gli uomini erano a casa, guardati a vista.
Solo il sabato sera potevano uscire. Si accompagnano le moglie a ballare.
E una notte anche Donna Rosa decise di seguire il suono di quella musica.
Un abito nero come la morte, il seno gonfio e le labbra più rosse che mai.
Mosse i tacchi sul selciato fino all’entrata della Milonga.
Ci fu quasi silenzio quando entrò.
Le donne la fissarono sbalordite, non poteva andare anche lì.
Gli uomini scricchiolarono sulla sedia. Pronti ad invitarla.
Chi avrebbe osato stringerla fra le braccia? Uno di loro l’avrebbe condotta con sé quella notte.
Lei guardò dritto davanti a sé e si sedette su uno sgabello al bancone.
Rum. Un bicchiere con ghiaccio, freddo gocciolante.
Le luci della milonga sulla pelle leggermente sudata.
Il fuoco di Donna Rosa ardeva.
Poi Paulo le fece un cenno dal piano. L’aveva vista dall’entrata e l’aveva capita subito.
Tolse le dita dai tasti e nel silenzio le porse la mano per invitarla a seguirlo.
La fece poggiare sulla coda scura dello strumento, buio come il suo vestito, poi tornò al suo posto.
-Canta per me-
Si sistemò i capelli bianchi e il solito smoking scuro.
Bevve un bicchiere di vino, ne aveva bisogno, poi poggiò le dita e riprese a suonare.
Gli occhi di tutta la sala sul volto di Rosa.
Ed iniziò a cantare.
Un brano che portava l’odore del mare e del vento, della sabbia e del sole.
Un canto di coltelli, di cocktail e malinconia.
La voce profonda e bella, commuovente.
Nel cuore di tutti svanì la rabbia e la gelosia: c’era posto solo per la tristezza. La perdita del paese che si è amato, delle persone care, il bisogno supremo di ogni persona: amare ed essere amati.
Perché era questo che faceva Donna Rosa, lei non rubava i mariti, lei amava ed era amata, per una sola ora.
E ogni donna cercò di imparare da quel canto di terre lontane, terre Argentine e terre Siciliane, terre di tango.
Le lacrime scesero dagli occhi di Paulo, mai aveva trovato qualcuno che desse una tale voce ai suoi suoni.
Ricordò la sua giovinezza, il suo amore per la musica, ricordò il suo primo pianoforte.
Quando la canzone svanì nessuno osò aprir bocca, rimasero tutti immobili, come incantati, in attesa di svegliarsi da quella strana magia.
Donna Rosa passò fra tutti, lentamente, e si allontanò nei vicoli scuri della città. Nessuno seppe mai dove fosse andata, forse a sdraiarsi nei raggi della luna alla ricerca della stessa stella che guardava dal patio di casa.
Ma quella notte dormì sola.
Nei giorni seguenti le cose cambiarono. Tutto iniziò con un piccolo gesto, un cesto con della frutta sotto la finestra di Donna Rosa.
Sa, sono passata al mercato e ho pensato di comprargliele.
Un aiuto per pagare l’affitto.
Fra donne bisogna aiutarsi.
E la vita riprese a scorrere inesorabile. E se ogni tanto spariva qualche marito nessuno ci faceva più tanto caso. Donna Rosa in fondo era una brava persona e poi gli uomini tornavano sempre più innamorati di prima.
Quando qualche giovane si allontanava le madri si guardavano complici.
Come biasimarlo, dicevano, in fondo si sa, non si può resistere:
Donna Rosa è una vera Siciliana.

Tango argentino

Milano come Buenos Aires

Anche Milano nasconde la sua Buenos Aires. Come uno specchio, nei vicoli più stretti, dove i palazzi si protendono sul selciato con le loro mura vecchie al gusto di mattoni, sporchi di una fuliggine del secolo precedente, con antri oscuri di mistero e donne affacciate sull’uscio delle case.
Case nascoste, usci a pagamento.
Il latrato di un cane che abbaia in lontananza e il profumo di cibo speziato dalle finestre, musica ambulante per qualche spicciolo e una voglia matta di mettersi a ballare.
La Buenos Aires di Milano è più timida e forse più cattiva. I coltelli si vedono solo all’ultimo minuto, quando urlare e mordere bestemmie è diventato ormai inutile, quando gli speroni di stivali da cowboy hanno smesso di tintinnare lungo le salite che portano ai selciati delle chiese e gli uomini si incontrano e brutto grugno sotto lo sguardo di un vecchio crocifisso.
Parole di sfida al cancello di un parco, puttane nel buio.
Uomini dallo sguardo duro sui gradini, sul bordo di una fontana, le dita in bocca per fischiare alle ragazze “Hey signorina”.
Baci strappati al sapore di tabacco, mani maledette nell’ombra.
Da lontano il suono stridulo di un bimbo che piange, coperto dal passaggio di un pullman, dal gorgoglio di una fontanella sempre aperta sul pavimento. La guerra dei briganti, uno scoppio di pistola nel buio, rivoltella nel cassonetto.
Milano di giorno, Milano di notte: Argentina in scala.
Al Vecchio Mulino l’oste è sulla porta, degustazione di vini per quel mezzogiorno, sole caldo tra l’edera rampicante, brocche d’acqua sulle vecchie tovaglie a quadri, una chitarra e un dondolo, per il sonno dei più anziani, per il riposo della pancia piena.
Palloni contro la parete, urla di ragazzini, la signora Giovanna urla dalla finestra: che la smettano o il marito verrà giù a suonargliene col bastone.
Corse in bicicletta, sempre in fuga? Da cosa? Dalla scuola, da sé stessi, dal maledetto lavoro.
Odore di tram e smog, di carne e di jazz.
La notte sorprende con la sua ironia.
Basta traffico, nessun grido di bambino, niente arsura al sudore. Rimangono l’odore del tabacco, il sapore del vino, le campane della sera.
Si sente ancora qualche colpo in lontananza, ma non si è certi che sia una pistola, forse è una gomma esplosa, forse chissà…
Un nuovo profumo riempie la città, acqua di colonia, per gli uomini che vanno a ballare con le camicie non stirate e le bretelle per i pantaloni larghi, delle ragazze nei vestitini al primo appuntamento, di nascosto dai padri, delle signore che si vendono, tutte gambe tette e sorrisi, lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. Una rosa in testa.
E la Milonguita. L’insegna che si accende con un ronzio, le porte che cigolano alla spinta.
All’interno il silenzio, riposo prima della notte.
Pista da ballo consumata, seggiolini senza schienali. Candele e fiori per le coppie di sposi, luci spente per gli amanti.
La gente entra e si siede, chiacchiera e sorride. Occhi che scrutano, cercano, assaporano.
Gambe scoperte che chiamano, giocano, danzano.
Le dita di Paulo sul pianoforte, vecchi tasti neri e bianchi. Uno è rotto. Pazienza, si salterà quella nota.
Un fiammifero acceso vicino al bancone, zac, strofinato sulla custodia, una fiammella per la candela.
E cala la notte. Inizia il tango.
Brano lento, sofferente, consunto. Suonato mille e mille volte, per gli innamorati, per gli assassini, per le belle donne.
Le prime coppie sulla pista. Posso invitarla? Mani tese, sguardi ardenti.
Donne composte a bordo pista, le mani in grembo e la testa alta. Attendono i cavalieri.
E poi la stretta, corpo contro corpo.
Le camicie a dividere la carne.
Birra nei boccali, vino sul bancone. Uomini solitari senza futuro, con le lacrime bloccate dietro gli occhi. Non escono, non per loro.
Una ragazza se ne va presto. È stufa per questa sera.
Due sconosciuti si baciano. Avranno modo di conoscersi quella notte.
Enzo ed Eva Ramirez sono all’ingresso, salutano i ballerini.
Ogni tanto fanno un tango. Unici, incredibili, la folla si ferma.
Conoscono il segreto del tango, quello che si tramanda da generazioni nella loro famiglia.
Lo ha portato Juan Ramirez quando ha aperto quel posto. Un regalo per sua figlia.
Si stringono e danzano, sottili e levigati, forti e inscindibili. Evita, occhi chiusi, bella e di fuoco.
L’abito scuro, le gambe tese.
Lo sguardo serio di Enzo, i passi distesi, l’eleganza.
E il silenzio cala intorno, perché il segreto del tango si muove in quella pista. Inaccessibile a chiunque, ma visibile a tutti.
È un’armonia che si può palpare con le dita, che si può annusare nell’aria.
E tutti riprendono a ballare, e si amano, e si odiano e sudano.
Cravatte, scollature, gonne, bretelle, cosce.
La pelle scura, le mani unite.
Uomini e donne che ballano. In mezzo a tutti loro, quella notte: il tango.
È sensibile, gentile, indossa un cappello. E sorride.
Si farà mattina.
Poi le porte chiuderanno e l’insegna smetterà di ronzare.
È presto. La notte è ancora molto lunga.
Notte di pelle e mani.
Notte di Milonguita.

Tango

Leggete e Tacete

Che dire di Antonio Tacete, «questa sorta di vin Santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park »? Soprattutto: che dire di Tacete, che non abbia già detto lui, nascondendolo apertamente nella vanvera vorticosa d’una scrittura di ripugnante attrattiva? Il paragone immediato e blasfemo, giusto per non far torto alle sue non comuni aspirazioni, alle sue ardue traspirazioni narrative, è con un premio Nobel della letteratura: il cinese Mo Yan. Uno pseudonimo che significa «colui che non vuole parlare». Ora, immaginatevi che razza di buffo rendez-vous continuamente mancato sarebbe quello fra uno scrittore parmigiano che ha scelto come nickname l’imperativo «Tacete!» e il suo celebre collega, l’autore di Sorgo rosso, che dal canto suo non ha alcuna voglia di parlare. Ma potrebbe invece trattarsi d’ uno di quegli incontri fortuiti fra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico auspicati da un certo Lautréamont… E qui il vecchio Carl Gustav Jung andrebbe in brodo di giuggiole per via di una coincidenza straordinariamente significativa: l’autore dei Canti di Maldoror ha infatti avuto l’arduo privilegio di legare la sua morte alla nascita di Tacete. Come ci racconta col suo stile inconfondibile, costui è infatti nato proprio il 18 marzo del 1970, «un secolo esatto dalla morte dello scrittore Isidore Ducasse detto conte di Lautréamont, lui poeta benigno, l’altro poeta maleficissimo, un giorno prima della fiera di San Giuseppe, dove nonni gobbini portavano i nipoti pupattoli a vincere pesci rossi ». Questi nonni gobbini sono già gli antesignani del nano Villa e della corpulenta nonché crapulenta corte dei miracoli che si aggira spetezzante e sogghignante nelle pagine di Le lucciole nella lana delle pecore, carnevalesco sabba di parole che solo un coraggioso capitano di ventura come Mario Guaraldi poteva aver l’ardire di pubblicare. Come vedrete dalle paginette che TheLivingStone ha scelto, infatti, la prosa di Tacete non è per nulla accomodante. Può forse peccare di narcisismo, ma non di quella consolatoria ipocrisia che costella tanta narrativa italiana, soprattutto quando si finge dedita a scopi altamente sociali. D’accordo: Tacete è uno scrittore arrogante: solo un losco figuro può ordinarci così perentoriamente di tacere, arrogando unicamente a se stesso il diritto alla parola. Ma se vi azzardate a seguire le mille capriole verbali di questo stramboide, se vi lasciate catturare dal suo mondo teratofilo e blasfemo, da quell’immaginazione grottescamente copulante e dalla sua indisponente malalingua, capace di farvi prendere lucciole per lanterne e viceversa, avrete l’ambiguo e silenzioso privilegio di gustarvi una prosa irta, inconciliata e mai paga, che vi appagherà non poco. Tacete, dunque, e leggete.

Roberto Barbolini

Antonio Tacete – Le lucciole nella lana delle pecore

 

Per gentile concessione dell’editore Guaraldi, pubblichiamo i brani iniziali della vanvera narrativa  Le lucciole nella lana delle pecore di Antonio Tacete.

Il noce

Villa il nano ed Uringrissin, un torinese dotato di un pene che, se in erezione, era sottile e lungo come un grissino, andarono a trovare nella sua abitazione umidiccia di Via Pontremoli il barbiere detto Scravata che raccontava ilarità e barzellette, come quando ad Abbiate Grasso era giunta su un pullman una comitiva di lottatori di sumo e il torinese ridolava ed inframmezzava al riso esclamazioni del tipo di ‘neh’. così giunsero a Noceto, in un casolare dal cortile erboso della corte dove si ergevano noci giganteschi e nel cui pollaio videro un uovo schiudersi e crepare e nascere due pulcini contemporaneamente. L’indomani, il giorno di San Martino – l’estate d’inverno – per la festa dell’omonimo santo nella chiesa a lui intitolata, in un fondale-piscina pieno d’acqua della sagrestia, assistettero alle battaglie navali dove, su gusci di noci giganti come se queste fossero botti grosse da 5000 mila litri di vino, con per alberi rami di noce munito di vele, paesani combattevano a colpi di cannonate sparanti palloni per affondare l’altrui nave.

 

La Spalla cotta di San Secondo

Un nano di San Secondo detto Spalla innamorata San Secondo – nel paese che si chiamava così perché nei pranzi il secondo non toccato, vergine, veniva sostituito dall’antipasto del salume di prosciutto, fatto con la parte superiore dell’arto anteriore del maiale – sostava a Busseto dove, in quel momento, il musico Verdi era salito su una carrozza a forma di cigno e smaltata di bianco e invitò l’estate successiva Villa il nano in un coltivo immerso dal mare verde di un’onda di cavallette, alcune giganti e verdi come draghi, ed in cima al mucchio immenso faceva capolino un grillo nero e così Villa il nano assistette anche al Palio nel paese dove cavalieri dovevano infilare aste a forma di lunghissime dita indici stando in equilibrio sul cavallo in un anello sostenuto a mezz’aria da un saracino e due delle contrade erano la ‘dragonda’ ed il ‘grillo’: simbolo delle invasioni di orteotteri e di pulcensi nei campi. Dopo l’agone del palio c’era la fiera e Villa il nano vide davanti ad un banco di dolciumi un nonno chiamato di cognome Vescuovi con il suo pupattolo nipote detto Bimbiberon, che rimiravano i croccanti a forma minuscola di rocche parmensi, come se fossero fatti di mandorle con calce di miele e comprarono il castellino di Soragna e se lo sgranocchiarono mentre nella calca della sagra il nano scorse incedere a carponi un quarantesimo cugino del marchese Meli Lupi al quale, imprigionato nelle prigioni del feudo da quel dinasta parente, erano cresciuti peli spessi da lupo, e proprio come questa bestia camminava appoggiandosi come alle zampe, alle braccia e alle gambe. Con il comico mercenario nonché capitano di ventura chiamato Ubertosacqua, il nano Villa giunse a Soragna dove piovevano dal cielo mele a forma di teste di lupo e peli neri di questi animali voraci.

 

La barba fluente

il poeta gobbo Leopardi, ospitato a Napoli nella casa dell’amante letterato Antonio Ranieri, preparandosi un minestrone scambiava il pentolone pieno di verdure per la selva oscura di boschi di fagioli, carote e sedani dell’inferno rosso infuocato di passata di pomodoro in cui, incuriosito come l’Alighieri, sfidando i bollori voleva entrare nella bocca della pentola gigante come se fosse l’ingresso di un girone infernale. Dopo aver sorseggiato la pietanza il recanatese ed il napoletano fecero sesso su un letto matrimoniale. Un leguleio partenopeo dalle scorregge legumiche aveva processato la camorra che regalava a Leopardi bocconcini giganti di mozzarelle, pizze, maccheroni, confetti, strufoli, pastiere, barrette di cioccolato, gelati, zabaioni, limoncini e carne d’asinina da fare in umido, doping del poeta per scrivere i suoi versi. La notte dopo il coito il figlio di Monaldo fece sogni stramboni e in una visione onirica vedeva crescere la barba fluente ad un regnante Borbone la cui peluria risaliva lo stivale italiano impossessandosi e ricoprendo la sua crosta terrestre fino ad arrivare con la punta ricciola della bazza allo zerbino dell’abitazione torinese di Cavour e su questo tappeto peloso il Leopardi si sognava di giungere in Sicilia a mangiare babà e cassate. Nel sogno si sognò con l’amico di giungere nel Granducato di Toscana dove allora regnava Leoppolodo, precisamente al Palio di Siena, che vinse un fantino gibbo come lui chiamato il Santini detto Saragiolo, che portato in trionfo dai contradaioli e denudato da questi mostrava questa gibba sulla schiena a forma minuscola di un groppo del Monte Amiata detto Saragiolo, dal quale aveva preso il nomignolo.

Lettere d’amore

Donna che scrive una lettera (Vermeer)

per M e M
sempre all’altezza del cuore

 

Inchiodato alla responsabilità di una risposta che non sapeva dare, M si guardava attorno, distratto. Il mento sulle ginocchia, la schiena incurvata. La posizione – scomoda, in verità – favoriva il ricordo di M.

Dove si erano conosciuti? Leggi tutto “Lettere d’amore”

Il cammino. Un dialogo

Paesaggio italiano (Camille Corot)

“Senti le mie scarpe che urtano sulle pietre”.

“Ti seguo, nel buio vedo la tua sagoma. Vedo anche le ombre del bosco”.

“Ci sono lecci e ginepri, tutt’intorno, e anche faggi. Quell’ombra più cupa è forse un castagno”.

“Sì, dev’essere un castagno, dev’essere a questo punto che si entra tra i castagni”.

Leggi tutto “Il cammino. Un dialogo”

Il midollo della vita

«Dev’essere necessario un grande coraggio per donare a molti quel che spesso non si dà che all’amato». Questa frase di Anaïs Nin l’ho trovata rovistando su internet e mi ha fatto venire in mente una puttana. Mi correggo: la puttana per antonomasia. Si chiamava Gina, esercitava a orari fissi tra via Fontanelli e via Montecuccoli, indossando l’inseparabile pelliccia leopardata che era insieme un richiamo ferino e un segno di riconoscimento a distanza.

A Modena la Gina era un mito. Ai tempi del liceo ne sentivo parlare dai ragazzi più grandi con iperboli così smaccate da non poter essere altro che figlie della loro imbranataggine. Andare a puttane non faceva  più  parte dei nostri riti di passaggio, ma quella prodigiosa nave scuola bionda, bella e disinibita, già sulla breccia ai tempi delle case chiuse, continuava a esercitare un fascino indescrivibile e lievemente incestuoso. Era come se nella Gina, la donna «più bella di un’auto da corsa», fossero condensati al loro apice i sogni erotici dei nostri padri e fratelli maggiori, e nella fantasticheria di possederla si nascondesse da parte nostra un desiderio di stupro verso quel loro passato odoroso di rispettabilità e di casino che un po’ ci stomacava ma un poco anche ci attirava.

Purtroppo eravamo soltanto dei liceali imbranati. Gli universitari che si presentavano alla Gina con un trenta e lode fresco sul libretto potevano sperimentare gratis di persona quel coraggio nel donare a molti ciò che spesso non si dà che all’amato, o neppure a lui, di cui parla Anaïs Nin. Lo so: il dono di sé della Gina agli studenti meritevoli può sembrare di portata limitata, paragonabile al massimo –senza confondere il buon costume con la Buoncostume – alle coeve elargizioni delle pie dame di San Vicenzo ai poveri e ai diseredati in base all’etica dell’«arriverò fin lì, ma non oltre», giusto quanto basta per sentirsi la coscienza a posto. E questo, ammoniva San Francesco, «significa non dare assolutamente nulla».

Ma il caso della Gina è diverso. Se nei consueti rapporti professionali era ben chiara la mercificazione del suo corpo in cambio di denaro, la  cessione gratuita seppure temporanea di se stessa e della propria arte come premio per un esame superato col massimo dei voti costituiva un’autentica violazione del principio di scambio e, dunque, un dono. Che cosa mai può farsene, una puttana, d’un trenta e lode stampato sul libretto di qualche studente brufoloso?  L’etica della Gina era quella del regalo disinteressato, una specie di bonus che premiava la qualità e l’impegno negli studi: in largo anticipo sui tempi, aveva adottato un ingenuo ma efficace antidoto alla fuga dei cervelli. Qualcosa d’impensabile per i papponi, i banchieri, le multinazionali e le agenzie di rating oggi al potere, che sono i nuovi vampiri del capitale. Li stigmatizzava già Marx , scrivendo che «il capitale è come un vampiro, il capitale è lavoro morto che succhia sempre lavoro vivo e più ne succhia più si ricostituisce». La Gina invece succhiava il midollo della vita, con quel gioioso spreco di sé che –per dirla con Benjamin- «contrassegna l’amore». Non dovrebbero fare lo stesso anche i poeti?

Io ti salverò, o scuola!

Cosa accadde quando decisi di smettere d’insegnare a scuola con mio grande rammarico, segnando così un’altra sconfitta nella mia vita da intellettuale.

Ma le delusioni e le sconfitte a metà del cammino della mia vita, dopo quasi un decennio del secondo millennio cristiano, si accumularono nel giro di pochi anni. Un giorno, mentre parlavo con un professore universitario in pensione, mi arrivò una telefonata. Era la scuola. Mi ero dimenticato di essere iscritto nelle liste delle supplenze sia per le medie che per le medie superiori. Così, per una settimana, avrei dovuto insegnare italiano in una classe di seconda media di una scuola cittadina. A cinque minuti da dove lavoravo. Mi sembrava una chiamata del destino. Non potevo dire di no all’occasione di tornare a insegnare, per almeno una settimana. Poche ore in tutto. Il fatto mi divertiva. La scuola era vicino, così accettai. Finalmente avrei toccato con mano come andava la scuola italiana, primo motore di un paese colto, economicamente e moralmente all’avanguardia come il nostro. E le sorprese furono importanti per il mio morale.

Cuore
Cuore

Gli avrei letto un racconto come Lo specchio deformante di Čechov, uno dei miei cavalli di battaglia con cui avrei fatto capire la mia passione per la scrittura e il leggere. Pensai di innovare il modo di fare lezione con le lavagne elettroniche, di preparare testi e immagini, per proporre ai ragazzi una didattica interattiva, moderna, degna di una scuola all’avanguardia, usando la televisione, la pubblicità e i giornali come strumenti didattici. Dopo poco meno di mezz’ora mi ritrovai di fronte a una classe incontrollabile di ragazzi che urlavano come pazzi, agitati, al limite della schizofrenia. C’era un gruppo di cinque bravi relegati in un angolo della classe, spauriti, muti e rassegnati, e due iperattivi, uno dei quali per salutarmi fece un paio di capriole per terra davanti a me, facendo ridere la classe intera. La metà erano extracomunitari che non conoscevano l’italiano, tra un marocchino un po’ svanito che non capiva ancora dove fosse capitato ormai da qualche mese, due ucraini, un russo, e un egiziano ammutoliti. Il più grande tra loro era un bosniaco ciccione, ripetente con la testa rasata che mi guardava torvo, probabile figlio di qualche guerrigliero della guerra serbo-croata della metà anni novanta. Infine c’erano due ragazzine dislessiche con gravi ritardi non solo nella comprensione del testo che mi mettevano molta tenerezza. Dopo mezz’ora di fatica presi il libro di Čechov e tra mille «Stai zitto!» «Restituisci la merenda!» «Sì, vai pure in bagno!» «Lascia stare la tua compagna di banco!», «Alzati! «Non tormentare la tua vicina, per piacere!» riuscii finalmente a trovare un po’ di calma e concentrazione.

Stavo finendo di leggere la prima pagina quando entrò in classe urlando un ragazzo autistico che picchiava una sedia, con tanto d’insegnante d’accompagnamento che lo inseguiva correndo. Si avvicinò  pericolosamente verso la finestra cercando di buttarsi giù nel cortile. Lo afferrai insieme alla professoressa di sostegno che ridendo mi disse: «Ma sa, fa sempre così! Non capisce niente, io cerco di tenerlo ma è difficile anche farlo star buono in classeª.

Ero sconvolto. Non riuscivo a capire dove avevo sbagliato o dov’ero finito, quindi il giorno dopo entrai in classe, mi appoggiai alla scrivania e aspettai guardandoli in silenzio. Il ciccione bosniaco cominciò a dare pugni alla spalla della sua compagna di banco, la ragazzina dislessica. Allora mi avvicinai, lo sollevai di peso insieme al banco, mettendolo in un angolo della stanza, e gli dissi con un sorrisino minaccioso: «Appena ti muovi o alzi la mano, io vengo qui e ti do indietro quello che hai appena fatto alla tua compagna!»

Ci fu subito un gran silenzio.

Quando entrò un ragazzo universitario, che aveva mandato la presidenza come osservatore psicologico per i due iperattivi che avevano aumentato le loro capriole per mettersi in mostra a quel giovane imberbe, lo presi per il colletto e senza nemmeno dargli tempo di entrare e parlare, lo buttai fuori dicendo che lì comandavo io e non c’erano psicologi del cazzo che venivano nella mia classe.

Si erano tutti zittiti. Poi presi il libro di epica e cominciai, in un grande silenzio, a leggere l’Odissea, Polifemo che si mangia i compagni di Ulisse, e feci vedere come strappava i corpi con un pezzo di torta salata rubata senza chiedere il permesso da sotto il banco ad uno dei due iperattivi che si guardò bene dal rispondere o dal protestare per il mio ladrocinio.

Nel giro di un’ora li avevo tutti sotto controllo, fino a quando non entrò il bambino autistico che portò di nuovo scompiglio, urlando, picchiando il tavolo e la seggiola con una violenza a cui decisi di non opporre resistenza.

Parlai col preside, denunciando che la presenza del bambino autistico era assolutamente sbagliata, che per lui ci volevano strutture adeguate, e che metterlo in una classe come quella era controproducente per tutti. E questo, sottolineai, per colpa di una scuola imbecille, incapace d’intendere che esere democraticamente aperta a tutti non voleva dire mescolare tutti in uno zoo. CosÏ i dislessici e gli extracomunitari avevano bisogno di un aiuto per recuperare alla svelta. Protestai vivamente e il povero preside mi guardò con gli occhi rassegnati, come per dire di lasciar stare, di non infervorarmi troppo per quei disgraziati, sia normali che autistici o semideficienti. «Cosa vuole che facciano nella vita. Sono la maggior parte figli di disgraziati. Non pretenderà di cambiare il mondo della scuola dopo un giorno di supplenza?»

Protestai, dissi che ci voleva un’altra insegnante di sostegno perché quella era un’incapace, che diceva cose tremende contro il ragazzo in sua presenza.

«Ma guardi che capisce tutto!» dissi alla donna. Era una quarantacinquenne, napoletana, che non avendo voglia di insegnare, si era data al sostegno.

«Ma cosa vuole che capisca, E’ autistico! La sua famiglia è esasperata dalla sua presenza: ce l’ha in casa tutto il giorno. Non dormono più perché urla e corre anche di notte, buttando tutto all’aria. Suo fratello, che era normale, ha dato segni di autolesionismo e convulsioni per colpa sua. Stress emotivi. Capisce, un figlio così è una disgrazia». E lo diceva mentre teneva per mano il ragazzo chiuso in una stanza tutta imbottita di materassi in quella scuola all’avanguardia nel trattamento dei ragazzi autistici. Il tutto aveva l’aspetto di un ring di pugilato.

Pensai che il sostegno ci voleva per lei più che per l’autistico e glielo feci capire, tanto che per un’intera settimana il ragazzo entrò solo una volta sbattendo la sedia.

In classe la soglia di attenzione dei ragazzi era ridotta a cinque, dieci minuti al massimo, poi saltava per aria tutto, con risa, gridolini e lotte, e  riprendere la loro attenzione era sempre più difficile.

Alla fine della settimana cercai di far recuperare gli stranieri assegnando dei grandi esercizi di copiatura da testi italiani, con l’idea di un vocabolarietto personale dove accanto alla parola scritta in italiano si doveva anche stilizzare un disegnino e la parola nella loro lingua madre. Per i dislessici inventai un esercizio di copiatura e di lettura di testi facili e umoristici molto brevi; infine, per i bravi, cominciai a far leggere in fotocopia racconti assolutamente nuovi, per invogliarli ad andare avanti più velocemente nel programma. Era una didattica diversificata che non portò, in breve, nessun beneficio, ma solo col tempo avrei risolto qualcosa: ero il supplente e il supplente sta solo una settimana che spesso si considera di vacanza. Ma con me, dopo aver fatto capire chi comandava, erano stati bravi e li premiai, come avevo promesso loro, con l’ultima ora della settimana in giardino, all’aperto.

Presero tutti la sedia e si sedettero in circolo. La mia presenza attirò l’attenzione di alcuni insegnanti, tra cui una che seguiva un ragazzo down, Matteo, serissimo.

«Non ha chiesto il permesso al preside. Queste cose non si fanno. Non si portano fuori i ragazzi senza permesso» disse l’insegnante di sostegno.

Senza risponderle la guardai come si guarda un cane schiacciato da una macchina.

«Le responsabilità sono sue se accade qualcosa!»

«Non me ne frega un bel niente!» risposi sorridente. Dovevo avere una faccia da schiaffi.

Raccontammo insieme quello che era accaduto nella caverna di Polifemo e avrei letto la vendetta di Ulisse che avrebbe dichiarato il suo nome al gigante accecato, scatenando le ire degli dei. Per mezz’ora tutti mi seguirono con grande partecipazione. Nell’aria calda della primavera, all’ombra di un albero, riuscii a fare finalmente lezione. Poi accadde di tutto. Prima si alzò l’autistico che si avvicinò a me, fece come tre salti di gioia dentro al cerchio delle seggiole, si avvicinò toccandomi le labbra con le dita e poi cominciò ad urlare saltando. Io restai come di sasso per quel gesto che valeva mille ringraziamenti. Poi all’improvviso, in un momento di silenzio, mentre parlavo di Nessuno che urlava contro Polifemo che aveva cominciato a tirare i suoi enormi pietroni in mare, il ragazzo down lasciò andare un’immensa scoreggia che fece ridere tutti. «Matteo ha scoreggiato!», ´Oh, Matteo, che puzza!».

L’insegnante mi guardò sorridendo imbarazzata per lui. Anch’io scoppiai a ridere di fronte alla faccia serissima di Matteo che non si era minimamente scomposto. Quello era il segno che aspettavo, un’immensa scoreggia al mio destino di insegnante da parte di un bambino down, la cui faccia serissima definiva perfettamente la gravità del segno divino come il tuono di Zeus sulla mia testa. Un monito sacro. E lì capii. Così si chiudeva la mia carriera scolastica d’insegnante, e quando mi chiamarono per aver vinto tre concorsi per le elementari, medie e superiori, rinunciai a tutte e tre le cattedre perché non ero nato per fare l’assistente sociale, rinunciando così, da pazzo, al posto statale, sicuro per una vita.