Poesie

La poesia che ho pubblicato

La poesia che ho pubblicato
Era la stessa del foglio che ho lasciato
scritto in un angolo,
per anni dentro un cassetto.
La poesia che ho pubblicato
Era quella che il mio cuore
ha aperto sul mondo,
come un melograno maturo
col riso spalancato
in grani lucenti e rossi,
gustosi e acerbi.

Ho corretto qua e là,
gli errori, la lingua, la forma,
la grammatica.
È rimasta intatta la linfa
vitale che ha mosso la libertà
di parlare, agire, pensare,
sognare, partire, tornare, restare.

Immutata la voglia bruciante
del mio cuore di dire a voce alta,
pur sussurrando,
le cose che ho scritto
su quel foglio strappato,
e che dirò.

Parole impresse nel primo inchiostro
che desse segno,
pietra o telefono che ho trovato.
In tutti questi anni,
in tutto questo tempo,
so per certo che,
grazie alla poesia che ho pubblicato,
non è affatto cambiato il mio cuore,
sei tu a esser cambiato, o lettore.



L’Africa
(Scritta dopo l’attentato di Barcellona, 18/08/2017)

L’Africa è nel terrore.
Nel terrore di vivere e morire,
Nel terrore di partire e tornare.
Nel terrore dell’Africa
C’è il terrore dell’Occidente,
Nel terrore dell’Occidente
C’è il terrore dell’Africa.

Il terrore della presenza,
il terrore dell’assenza.
Quanto Occidente c’è in Africa?
Quanta Africa c’è in Occidente?
Dell’Occidente è il terrore dell’assenza,
Dell’Africa è il terrore della presenza.
Eppure l’Africa è assente
L’Occidente è presente.

Perché l’Africa è assente dalle Borse mondiali?
Perché in Africa non si corre il Gran Premio di Formula Uno?
Le macchine più veloci al mondo sono fatte,
e corrono, col petrolio africano,
e in Africa non si corre un Gran Premio!
Sono gli africani il petrolio dell’Africa.
Fuggono dalla schiavitù di casa
per diventare schiavi dell’Occidente.

Col terrore negli occhi
di chi ha conosciuto il terrore,
manifestano così la loro presenza al mondo.
Il terrore negli occhi sotto gli occhi
di chi è assente in casa propria.

Perché, allora, alla presenza dell’Occidente
l’Africa è assente?
È vero, è giusto – dirai anche tu –.
Eppure queste cose le dico io,
ma dovrebbe dirle un africano in Africa,
e con lui molti africani in Africa.
Io dovrei sentirle pronunciate da loro,
anche fuori dall’Africa.

Non tu, ma io, dovrei
avere il coraggio di ascoltarle qui
pronunciate da loro,
per dargli ragione.
Tutto questo nonostante i loro morti,
nonostante i nostri morti.



Devo tacere…

Devo tacere, lasciarla parlare,
Fermare il moto del mio cuore,
Saper ascoltare, smettere di dominare,
di aggredire il mondo con verbosità convincente,
di ammiccare alla comprensione che comprende,
evitare di voler possedere quei segreti inconfessabili
che lasciano senza fiato, col tambureggiare ripetuto
di una lingua indolente e ribelle.

Non pretendere, ancora, di arrivare alla mente,
per vedere lei semplicemente che parla,
gesticola, sorride, si ferma per darmi un bacio d’improvviso.
Vederla muoversi elegantemente
tra le vie di questa città nuova,
districarsi tra politica, storia dell’arte,
immigrazione, trucchi e alta società.

Mai avrei pensato di incontrare la parte
migliore di me facendola semplicemente tacere,
ascoltare lei come un dono del cielo,
mentre guarda l’infinito del mare con l’infinito dei suoi occhi,
persi tra le sfumature dell’ultimo colore al tramonto,
quando il mare s’infrange rumoroso di fronte a noi;
sentirla esultare davanti a una stella cadente,
sotto il cielo stellato, guardato con gli stessi occhi,
una donna all’altezza del cuore,
cui segue silenzio per esprimere il Desiderio segreto.
Proprio lei non sa che questo è sempre stato
l’inconfessabile mio segreto:
scrivere righe profetiche accanto a lei.

Rima & Rhythmus musicae nella Comedìa

Il ritmo definisce quasi interamente la propria musica. Ritmo che –anche nella poesia dantesca – serve alla musica del testo: canto, cadenza d’intonazione, respiro creativo del poeta, equilibrio della composizione stabilito da pause e accelerazioni, attraverso l’endecasillabo suggerisce il fluire del tempo, stabilisce il susseguirsi continuo di versi in terza rima.

Terza rima di endecasillabi che, nella Divina Commedia, determina la prima azione del ritmo in quel testo. La stessa radice etimologica della parola rima pone davanti a un bivio: considerare la rima dal punto di vista metrico o dal punto di vista ritmico? Dal punto di vista della metrica o della fruizione musicale?[1] A partire dall’ultima vocale tonica, nella parte finale tra una o più parole, o versi, la rima possiede un’identità di suono e di accento che determina l’andamento ritmico e melodico del testo.[2] Il ritmo è, dunque, parte integrante di una funzione costitutiva, o qualità, della poesia che la critica spesso studia nel campo dell’analisi metrica, ma che all’origine delle lingue volgari ricadeva più propriamente nel campo musicale, dal momento che la poesia stessa rientrava nell’ambitus artis musicae.[3]

L’attenzione musicale espressa da Dante[4] ha forse più che il sapore di una ‘consapevolezza’ della critica moderna evidenziata principalmente con funzione ‘retorica’. Il fatto – per esempio – che il sirventese e la canzone fossero musicati all’età della Commedia, suggerisce certamente la funzione di un metro, ma dà anche conto della necessità che fu di Dante di creare un metro nuovo per un poema nuovo: poema classico nella forma e nello scopo, ma contemporaneo, pregno di una valenza musicale, più legata ai chansonnier medievali francesi che non ai ritmi declamatori di Virgilio.[5]

Ritmo musicale

 

L’aspetto della cadenza ritmica della terzina, dunque, la perfectio rhythmica della musica, aiuta a capire quale fu la portata di tale invenzione per un poema morale, epico, cronacistico, attraverso la sua funzione mnemonica, evolutiva, narrativa, musicale, orale, teologica, sillogistica, determinante per lo svolgimento della fabula poetica.

Fondamentale è analizzare il ritmo per definire la distribuzione dell’accento, il numero delle sillabe del verso, la posizione per cui anche il metro, alla fine, stabilisce quel ritmo. La distribuzione dell’accento metrico,[6] casi canonici a parte, che investono il modo e cioè il carattere del verso, fa sì che l’endecasillabo offra varie soluzioni ritmiche. Ci si richiama ad accento variabile ma, per quanto riguarda le possibili modulazioni dell’accento secondario, la collocazione finale spetta all’esecutore.[7] Il Fubini in particolare ha sottolineato la contrapposizione tra lettura ritmica, o lettura metrica, e lettura ad sensum. Riteniamo che una soluzione di compromesso sia adottabile, per ciò che pare insanabile nella distanza di posizioni tra studiosi di metrica classica e gusto recitativo di dizione dell’arte moderna. Gli uni e gli altri pare si discostino contrapponendo tra loro scelte di gusto a scelte di metodo.[8]

Parliamo di una lettura ritmica che consenta di percepire la regolarità metrica dell’endecasillabo scandito in terzine, ma che non smetta di considerare la pausa a fine verso, capace, da sola, di suggerire il tempo, il respiro semantico dell’intera frase. È una pausa musicale indispensabile, quella, utile alla comprensione del testo, per una lettura rispettosa della sua ritmicità. In tal modo si eviterebbe, per esempio, che il senso venisse soffocato dall’esasperazione timbrica, e che proprio il ritmo, di fatto, alla fine non conceda diverse significative varianti. Così si considera la ritmica evitando di distruggere il significato. All’interno di una lettura ritmica, mentre ci si abbandona al motivo di una lettura a voce alta, il senso del testo si recupera esattamente per via di quelle distanze architettonicamente cadenzate, già disegnate dall’autore, in sé già rivelatrici di significato.

C’è poi da considerare che anche le pause sistematiche in Dante svolgono un ruolo ritmico-semantico. Vengono applicate differentemente a seconda del luogo e dello scopo della funzione narrativa che ricoprono. Qualcosa di simile accade proprio col ritmo, quale varietà del contorno accentuale che dal metro interagisce col contorno prosodico. Metro e lingua, così, s’impongono l’uno sull’altra, creando una complessità timbrica e sonora che per esempio nell’Inferno – sono segno di ricerca delle rime difficili, di rime infernali, secondo la convenientia d’ottenere anche per via ritmica le rime “aspre e chiocce” (Inf. XXXII, v. 1), così come in Purgatorio e Paradiso gradualmente troviamo l’opposto rispetto alla tematica di quelle Cantiche.

Per l’Inferno, in particolare, Marina Nespor individua un ritmo astratto di tipo giambico. Schema formato da un’alternanza di posizioni metriche in tesi (debole) e posizioni metriche in arsi (forte).[9] Come esempio di lettura ritmica prendiamo un passo di Inferno, con quattro posizioni ritmiche principali, non necessariamente combinate con quelle sillabiche.[10] Solo dopo aver assegnato lo schema ritmico notiamo alcune importanti caratteristiche: esistono delle identità ritmiche, dei patterns. Si tratta di isole ritmiche, o nuclei ritmici, che nel brano si ripetono in diversi luoghi, e che qui per esemplificazione li abbiamo individuati con due colori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si vede, anche una breve analisi di questo tipo porta a diversi interrogativi e a varie soluzioni rappresentative, in una lingua costruita attraverso l’intreccio consapevole di suoni e timbri che, pur in un solo metro, dia svariate ragioni comunicative utili alla propria causa: per cui suono e concetto perseguono un loro unico fine.

BIBLIOGRAFIA

  1. Alighieri Dante De Vulgari Eloquentia in Le Opere di Dante, a cura di Pio Rajna, Società Dantesca Italiana, Firenze, 1960.
  2. Alighieri Dante, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1994.
  3. Beltrami Pietro G., Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002.
  4. Fubini Mario, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962
  5. Nespor Marina, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994.
  6. Terni Clemente, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975.

Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[1]   “Altro è il ritmo preso in considerazione nei manuali di metrica, che di necessità prescindono dalla poesia in concreto, altro è il ritmo reale, che risulta da tanti elementi, dalle parole, dal loro peso, dalla loro estensione, del loro colore, dai loro suoni, dalla loro varia disposizione, e così via; bisogna però sempre tener presente che solo per necessità di analisi parliamo di elisioni, cesure, ecc., e che questi elementi non esistono uno per uno: ciò che esiste è il ritmo; isolando quegli elementi distruggiamo la poesia”, Mario Fubini, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962, pag. 45. Si veda anche Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[2]    Dal francese antico, risme, e il provenzale rim o rima, la funzione del suo significato originario si ricava dal latino rhythmus. Dove rhythmus della poesia metrica latina era considerato il rapporto di equilibrio e alternanza tra sillabe lunghe e sillabe brevi, che nella poesia latina medievale, veniva detta appunto rhythmica. Indicando, cioè, le forme che vanno a perdere dinamica quantitativa, per rispettare altro tipo di parametri: numero delle sillabe, distribuzione dell’accento e rima, appunto. Si veda Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 75.

[3]    “Il rapporto fra metrica e musica nasce storicamente dal fatto che in origine (un’origine ripetuta più volte nella storia) i testi in versi erano tali perché eran testi per musica: si pensi quante volte la poesia è stata detta canto, anche quando non era per musica, e quante volte è stata effettivamente cantata. Le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica; ma la metrica, come la musica, organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni (non puri suoni, ma segni linguistici, fatti inseparabilmente di suono e significato), mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora.”, Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 13.

[4] “Poesim (…) nichil aliud est quam fictio retorica musicaque poita”, < La poesia altro non è che una finzione costruita sulla retorica e sulla musica > (De vulgari eloquentia, II, IV, 2).

[5]    Dante compose un sirventese enumerativo, dedicato alle trenta più belle donne di Firenze, fatto certamente legato alle sue frequentazioni culturali in ambito musicale. Ma una delle argomentazioni portate avanti dal Fubini, sulla scia del De Lollis, è che il sirventese sia genere letterario meglio accreditato a inquadrare da vicino la costituzione genetica della terzina. Il sirventese era una forma di componimento musicato, che si adattava alle circostanze d’occasione, poesia di attualità, d’invettiva, con un metro pressoché identico a quello della canzone. Anche la canzone, stando alle affermazioni di Dante, era componimento che aveva forti attinenze con la musica, dato che – dopo che il poeta aveva fatto il lavoro di ‘armonizzare’ il testo, per renderlo più fruibile non solo all’ascolto, ma anche al canto – poteva essere accompagnata d musica musicata. Da questo tipo di opera derivava il suo nome: canzone. Ma nel De vulgari eloquentia troviamo importanti parole di teoria letteraria di fondamentale rilevanza per questa argomentazione. Sono parole dedicate alla descrizione del metro della canzone, e in particolare quando si parla del piede: “E se capita che nel primo piede ci sia una terminazione priva di rima, bisogna assolutamente assegnargliela nel secondo. Se invece ogni terminazione del primo piede ha qui stesso il suo accompagnamento di rima, nell’altro è lecito riprendere o invece rinnovare le rime, come si preferisce, o totalmente o in parte, purché si conservi in tutto e per tutto 1’ordine delle precedenti: mettiamo, dati piedi di tre versi, se nel primo piede le terminazioni dei versi estremi, cioè il primo e 1’ultimo, si rispondono, è necessario che si rispondano anche le terminazioni alle estremità del secondo piede; e quale si presenta nel primo piede la terminazione del verso mediano, voglio dire accompagnata o scompagnata, tale dovrà riaffacciarsi nel secondo: e la stessa regola va osservata per i restanti piedi.”, Dve, II, XIII, 10. Riteniamo che qui si possa individuare, in embrione, l’origine della genesi della terzina dantesca. È questo forse un passo che pertiene propriamente alla fase di elaborazione concettuale e culturale della terzina, anche se, in questo stadio, ancora inconscio.

[6]   Detto ictus, in metrica differente dall’accento dinamico, o d’intensità – nell’endecasillabo si basa su due tipi di schemi accentuativi fondamentali che determinano il profilo ritmico del verso: detti a maiore ed a minore. Il tipo a maiore è l’endecasillabo con l’accento principale sulla 6° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente solenne. Il tipo a minore è l’endecasillabo con l’accento principale che cade sulla 4° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente più pacato. Entrambi, nella loro nomenclatura, ricordano in musica il modo delle tonalità maggiore o minore.

[7]    Decisivo, dunque, il tipo di lettura scelta dal lettore, il quale decide gli spostamenti e determina il profilo ritmico del verso, pur avendo i punti di riferimento negli accenti primari. “Gli altri accenti sono secondari rispetto al metro, ma sono altrettanto importanti per il ritmo del verso; la disposizione di tutte le sillabe toniche o atone, soprattutto nei versi ad accentazione variabile, è anzi il primo strumento in mano al poeta per l’elaborazione ‘musicale’ del discorso”. Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag 54. La varietà dell’endecasillabo è elogiata da Dante nel De Vulgari Eloquentia per quella flessibilità determinata dal tempo e dalla durata dell’esecuzione del verso. Una lettura in grado di restituire la qualità musicale del testo, insieme a quella ritmica del metro, è certamente la recitazione a voce alta, all’interno di una regolarità metrica che di per sé è già musicale.

[8]    In maniera particolare nel Medioevo si posero le basi per la futura terminologia metrica, quella che noi oggi, seppure con una consapevolezza differente, correntemente utilizziamo. In questa esposizione veniamo confortati dalle applicazioni della musicologia allo studio letterario. In uno studio non recente, del 1975, infatti, Clemente Terni, musicista e musicologo sensibile alla lezione del Contini, aveva individuato un metodo prettamente musicale per determinare i modi ritmici di tutte le varietà tipiche della principale versificazione italiana. “In una prima fase vi sarà distinzione tra sillabe accentate con accento di diverso tipo, ma subito dopo si osserverà che solo alcuni accenti dànno ritmo alla frase. Questi accenti, che saranno poi chiamati accenti ritmici, usurperanno il ruolo di kyrios tonos all’accento acuto e gli accenti grave, acuto, e circonflesso resteranno alla grammatica.” Clemente Terni, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975, pag 14. Basandosi sullo scritto di un autore del V secolo d.c. (De nuptiis Philologiae et Mercurii, di Marziano Capella, nel quale si evidenzia una particolare attenzione alla caratteristica musicale del linguaggio), Terni dice che in questa fase viene elaborato il naturale processo da una prosodia classica basata sulla quantità vocalica alla qualità sillabica, solo grazie al mantenimento dell’apporto concreto della musica. Il passaggio dalla percussio all’accentus, dunque, da un fatto temporale a un fatto sonoro, è il marchio di un cambiamento epocale nella metrica e nella versificazione medievale: dalla classica, appunto, a quella volgare. Il numero sillabico determina, così, la collocazione dell’accento, il ritmo è equiparato a quello musicale, il fatto sonoro della rima ripetuta a fine verso acquista una valenza ritmica, e non solo melodica. Le opposte maniere versificatorie, prosegue il Terni, ricadono nell’ambitus artis musicae, “naturale humus della loro origine”. Ma Terni va oltre, attraverso l’associazione musicale del tetracordo prima e, dopo la lezione di Guido D’Arezzo, dell’esacordo, poi, ricava i modi ritmici della versificazione italiana a partire dalla distribuzione dell’accentus. Posti in relazione con la semiminima della scala diatonica naturale, presente tra il terzo e quarto grado e il settimo e ottavo, lungo cui l’accentuazione ritmica doveva essere più marcata. Le soluzioni ritmiche accordali arrivano a riguardare anche l’endecasillabo, e a tal proposito si formulano varie ipotesi perfino per una esecuzione ritmica delle rime dantesche della Commedia. L’endecasillabo, infine, a seconda della sua distribuzione accentuale, si può considerare un pentasillabo più un eptasillabo, congiunto o viceversa, così da ottenere, per parte ritmica, rispettivamente, un tetracordo più un esacordo, congiunto o viceversa. Riteniamo questo un importante lavoro nella ricerca filologica, per un terreno comune riconosciuto nelle varie epoche come sempre vivo tra musica e poesia. Significati e accezioni moderne ridotte oggi a settori, rispetto al loro campo di applicazione originario.

[9]   L’analisi della stringa ritmica prevede di considerare una griglia metrica astratta, in grado di inglobare la maggioranza dei casi regolari, e sopportare le modificazioni che il materiale linguistico impone, per variatio e accidente, al materiale metrico: “Il primo vantaggio consiste nel rendere conto del fatto che i versi uniformemente giambici sono i più diffusi nella Commedia. Il secondo vantaggio è che si rende conto del fatto che anche negli altri casi, di endecasillabi che non sono completamente giambici, le posizioni pari sono di preferenza forti e quelle dispari deboli. Presumendo che l’endecasillabo abbia solo una posizione obbligatoriamente forte, la decima, e che ci siano diverse possibilità non connesse tra di loro per le altre posizioni, non si rende conto di queste due caratteristiche fondamentali dell’endecasillabo dantesco. Il terzo vantaggio di questo schema è che da esso, con poche regole ben definite si possono derivare tutti i versi dell’Inferno e che tali regole forniscono una misura della tensione o complessità: un verso completamente giambico avrà, a questo livello, tensione zero, e ogni deviazione da esso (espressa da una regola) aumenterà progressivamente la tensione”, Marina Nespor, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994, p. 298. Il ritmo metrico astratto è collocato dalla Nespor al secondo livello della griglia metrica, quella dei piedi metrici, mentre ciò che rende giustificazione del ritmo dell’endecasillabo si registra al terzo livello della struttura metrica di un’analisi fonologica, quello degli emistichi. Sono infatti queste le porzioni di verso che hanno le prominenze accentuali maggiori o minori, quelle che definiscono la stringa ritmica del verso, che stabiliscono la distinzione del modo a maiore, a minore, basano sulla lunghezza temporale dell’intero verso, e sul contorno accentuale dell’intera frase.

[10] LEGENDA: Le posizioni metriche che ricevono l’accento ritmico sono rappresentate da *; le posizioni isolate sono rappresentate da °, e indicano una pausa verbale che occupa a tutti gli effetti una posizione ritmica, rendono conto sia della pausa di fine verso, che – dove è concepita – della pausa della cesura a centro verso. Già il Sesini [1939] aveva chiamato questa pausa col nome ‘silenzio musicale’ e, anche egli, mentre studiava le caratteristiche dello scontro accentuale a centro verso in uno studio sul Petrarca, propese per una lettura ritmica di quei testi.

Un progetto di lotta poetica

In un’epoca contrassegnata da un narcisismo di massa, anche nel caso della poesia lirica lo “io” dell’enunciazione poetica, per essere tale, deve superare lo “Io” esistenziale, quello del poeta. La poesia non appartiene a nessuno e nutre tutti coloro che ne hanno bisogno vitale.

Nel discorso quotidiano, nella comunicazione in una lingua che ci accomuna, le parole indicano direttamente le cose, persone, temi, gossips ed evaporano immediatamente lasciando la scena alla persona, cosa, evocata-indicata. L’autonomia che caratterizza il discorso poetico integra il nominato in un mondo altro che non evapora e permane finché avrà dei lettori.

Tomaso Kemeny

In un’epoca, di perverso soggettivismo, può anche meravigliare il fatto che le maggiori opere della nostra tradizione appartengano all’ordine didascalico, storico o mitico. Basti ricordare l’Iliade, l’Odissea, il De rerum natura, le Georgiche, l’Eneide, la Divina Commedia, la Légende des siècles… La forma poetica che unisce il sogno individuale al sogno collettivo e all’immaginario è quella nutrita da tensioni mitiche, tensioni in grado di trascendere il pensiero etnocentrico che ci lega alla nostra patria per aprirci al pensiero circolare delle origini comuni, quella che esige il sentimento di una fratellanza primigenia.

In ogni caso la grande poesia apre al lettore una “realtà” altra, unendo indissolubilmente il senso evocato alla lettera e alla sonorità, impregnando, sospendendo la razionalità nel sogno ad occhi aperti o nella visione. Il poeta contemporaneo ha la possibilità di tracciare frammenti integrabili in un organismo vivente, correlativo oggettivo dell’universo in espansione ipotizzato dalla scienza.

Ma per fare questo il poeta deve attivare una pluralità di punti di vista confermando il discorso poetico come una forma di energia plurima in ricominciamento permanente.

In un presente oscillante tra la pulsione di morte e di possesso, la grande poesia trasfigura i semi di morte del linguaggio comune in una meravigliosa fioriture in fieri. Evitando cristallizzazioni verbali, e costruzioni di languore, di nostalgia e speranza in “poetichese”, si chiede al poeta di amare tutto senza chiedere nulla.

In un mondo taroccato, dove tutto ha un prezzo e nulla un valore, si chiede al poeta di imprimere nel tempo quella energia metamorfica da cui sorgano quei valori estetici che sono anche autentica e profonda moralità.

 

È il sentimento del sublime ad accendere la lotta all’Impero del Brutto, mentre il pensiero mitico favorisce l’irruzione del sacro evocando nuove avventure per l’immaginazione, mentre solo la passione poetica potrà tradurre in parole umane il sogno infinito che dimensiona l’Universo.

Insomma, quando un testo poetico oltrepassa i limiti dei discorsi codificati e codificabili e innalza la lingua madre nel meraviglioso della creazione; quando il verbo poetico apre il mondo all’eterno ritorno alle origini, l’immagine dell’inizio si manifesta come abbagliante e, allo stesso tempo, non del tutto visibile. Al di là della luce della pura riflessione, ci sconvolge l’enigma non del tutto penetrabile dell’immagine che precede pensiero e la stessa immaginazione consapevole.

Se le parole sciolgono e vincolano alle cose, le immagini suggeriscono legami impossibili o perduti. Dalle buie caverne del sogno a occhi aperti, l’uomo adulto percepisce il linguaggio delle immagini, immagini le cui correlazioni, da svegli, sfuggono al controllo della veglia. Impersonale, il linguaggio delle immagini non è confinabile nell’anima infantile o primitiva. Esso connota la solitudine infinita dell’uomo, che come nei sogni, non si percepisce nella forma della coppia o di un insieme più o meno numeroso di persone. Animata dal ritmo nascente, l’immagine poetica porta a naufragare la gioia visionaria e il canto nell’enigmatico residuo accecamento, in un silenzio solitario e onnivoro.

Se tutte le forme dell’arte si concretizzano nel linguaggio della bellezza, è la parola poetica, e la sua sete di assoluto, a portare a trascendere con più vigore lo “io” solitario del fruitore in un “noi” di varia consistenza, di gruppo, di appartenenza ideologica o nazionale, o di universale fratellanza, a seconda delle sensibilità del lettore.

D’accordo con Callicle, e il suo “os pleiston epirrhein” (“versare il più possibile”), penso che solo l’eccesso possa fronteggiare le miserie della mediocrità e del risparmio; aiuta anche a lottare lottare, senza requie, contro l’Impero del Brutto. Guerra dichiarata, sotto le bandiere della bellezza insurrezionale, dal Mitomodernismo negli anni ’80 e oggi perseguito dal movimento internazionale Poetry and Discovery alimentato dall’impegno di chi scrive insieme a Flaminia Cruciani (nome di battaglia ‘Nothung’), Pietro Berra, Paola Pennecchi, Angelo Tonelli, Germain Droogenbroodt, Mirna Lopez Ortiz Chicca Morrone, Géza Szocs, Endre Szkàrosi e altri che convergono con il loro entusiasmo insostituibile nel tentativo di rovesciare il Dio Denaro del suo trono, per l’invenzione di un percorso nuovo rischiarato dal lampo dell’immaginazione al grido “Fight for beauty!”.

Se il cosiddetto “uomo-medio” può esibire solo un’identità incerta, tanto da apparire interscambiabile, il poeta percorre i confini estremi della depravazione e della santità per affermare, al di là di un avvenire ordinario, che la bellezza non si fondi sulla proprietà di cose (come avvertì anche la psicanalista lacaniana Adele Succetti), persone, oggetti, ma sulla capacità di fare vivere e rivivere l’esperienza, drammaticamente incompiuta, dell’interiorità individuale e collettiva coll’assoluto.

In questa prospettiva ho assunto l’impegno assegnatomi da Jaca Book, nella persona di Vera Minazzi, a realizzare una collana di poesie (“Cantos”) che segnali la vitalità della poesia in Italia e nel Mondo. Chiudo il discorso con il pentalogo denominato Il piccolo io e l’universo:

  1. Basta
    con la cristallizzazione delle menti, con i vulcani spenti dell’immaginazione
  1. Basta
    col pensiero immerso nelle paludi del piccolo io, basta con i sensibili parrucchieri dell’intimità.
  1. Nessuno dorma
    rimirandosi negli specchi di versi vuoti stuzzicorecchi mentre si inspessisce la complessità del reale.
  1. La grandiosa bellezza
    iscritta nella materia dell’universo sia la guida iniziale per la nascita di un noi universale.
  1. Sotto la minaccia di un istupidimento mondiale, lavoriamo alle genesi mitica di una nuova luce aurorale.

 

 

Tomaso Kemeny
Febbraio 2017

La Festa (poesie inedite)

Le sale

hanno facce in colori come teli
su cui si danno i film dentro le sale,
i tipi nelle strade lungo i muri.
e vanno negli spazi avantindietro
uguali a stringhe che di foro in foro
allacciano le scarpe in qualche modo,
attorno al duomo in marmo a vene rosa,
pensando forse manca qualche cosa.

 

La fede

e non si estirpa mai la fede eterna,
è il maggiore mistero che sia noto
e qualunque violenza infine è poco.
la truculenza ha varie fantasie
tra lame, corde e raffiche di spari
pure i persecutori fanno pena,
non sanno proprio più che male ordire
che tanto, come ruote con i buchi,
si afflosciano le loro arcaiche mire.

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Ring – Walkie Talkie

Ring

Infine non ha vinto

Un uomo o una carriera.
Non hanno vinto gli occhi o
Svaganti giovinezze.

Ma il cielo se distante,
Una collina,
Il vento.
Ha vinto un’alba coi Re Magi
E abbagli di letame.

Ha vinto,
Cosa ha vinto?
Per quanto vinceranno
Ancora
Fiumi,
Iridescenze,
Le stelle e i fuso orari?

Riscuoteranno nuovamente orgasmi e gelosie?
Le nere discoteche,
Paralisi affollate.

Ma sempre più assordante
Quel numinoso prato,
La fronte sua implacabile
O è docile, allentata?

Non ha parole scritte più, né nostalgie o ambizione:

A me
Ha preferito
Un croco e un sonno zingaro.

Ring (Brunate, 2016)

Walkie Talkie (Canzo, 2016)

Dal Paradiso, di Ettore Perrella

Canto XII. Passaggio al secondo tema: il principio logico. Gerolamo Saccheri parla sulla necessità di fondare le scienze in un principio comune. Arrivano nuovi ospiti, fra i quali Jacques Lacan e Sigmund Freud, che parla della formazione.

Freud e altri psicanalisti nel 1922

Yehoshùa, che un poco a parte era restato,
allora disse: «Molto bene hai inteso
quanto dico sul mio regno a Pilato,
quando sovraterreno lo paleso.
Il governo del mondo delegai
a chi, con atti giusti, suo l’ha reso.
Per questo, molto non mi rallegrai
quando, in mio nome, un’altra religione
mi dette ciò che non rivendicai.
Anzi, da questo, quella confusione
nacque che, dopo, venne amplificata,
nell’indebita semplificazione,
che dall’Arabia fu propagandata,
ritraducendo, in una forma ebraica
superata, la nuova predicata.
La religione, se non resta laica,
ma rivendica d’essere sovrana,
la sua legalità rende giudaica.
Il che vuol dire che per essa è vana
la promessa che sta nella sostanza
della venerazione, quando è sana.
Se vi sorprende quanto qui s’avanza,
voi vedrete fra poco come invece
ciò compie meglio tutta la speranza,
che riponete voi nella sua vece
con fedeltà ed amore. Questa trina
virtù dentro il potere si disfece,
per l’empietà, che la fa non divina.
Non v’anticipo più quello che intendo.
Siccome oggi la scienza vi raffina
dei nuovi doni, prima vi commendo
di vedere la logica e la fisica,
come colgano ciò che sottintendo.
Per chi la sua ragione rende tisica,
ricordo solo che assai male spende
il proprio dono, chi del suo non risica».
E qui Yehoshùa il suo dire sospende.
Platone allora dice: «A questo tema
ora passiamo. Facile si vende.
In logica ed in fisica ci prema
mettere in luce qui la condizione
che, nella scienza, sulle altre è suprema,
perché evidenzia la sua fondazione».
Non so chi ora ci parla, ma da prete
è vestito. «L’odierna situazione,
è prodotta, nel luogo in cui vivete,
da una scienza che dà nuovi reperti,
e però a volte v’appaga la sete,
versando degli intrugli, agl’inesperti,
a cui la distinzione non sia chiara
fra i fondamenti validi e gl’incerti.
Il vestito che porto ti dichiara
che sono un gesuita. Dei pensieri
che pensai, nella Logica, la tara
è il mio nome: Gerolamo Saccheri.
Prendono parte adesso a questa scuola
quanti intuirono i principi veri,
che sono l’ente, l’atto e la parola».
Vidi entrare Lacan. Con lui, è chi a Vienna
la formazione, a noi moderni, mola,
ed altri, da cui attinse la mia penna,
che, grazie a loro, da molto lavora
a sciogliere l’agire, se tentenna.
«Certo, trovarmi qui ben poco onora
quel che dicevo nei miei seminari»,
disse Lacan, sedendosi. Ed allora
aggiunse Freud: «È bene che ripari
anch’io ai miei errori. Adesso m’accompagna
l’amico Pfister. Mi furono avari
gli scritti suoi. Ben poco si guadagna
con l’ateismo. Come ebreo, vi devo
confessare che troppo poco bagna
il pensiero, e che troppo poco bevo,
dal ruscello di quella teologia,
da cui, vivendo, sempre m’astenevo.
Nessuna scienza la filosofia
mai rende vana, e zoppica il pensiero,
se percorre la sua ripida via,
però non beve alla fonte del vero.
E ciò mi rese anche troppo ottimista,
vivendo, sul disastro menzognero
che fu la nera svastica nazista,
che sventolava nella mia Berggasse,
e che a tanti di noi cucì la vista.
Che cosa veramente dimostrasse,
sul falso che s’insinua nella scienza,
io non lo vidi, e come lavorasse,
persino nell’inconscio, la demenza
che, negando il principio, guasta il desco
di chi si nutre solo di parvenza».
«Herr Professor», dissi allora in tedesco,
«posso sapere, da questo cortile,
che cosa pensi sul modo in cui pesco,
nei libri tuoi, la perla del tuo stile,
o dico che assai spesso ti tradisce,
alla pratica diventando ostile,
chi ad una garanzia soltanto ambisce?
Che cosa resta della formazione,
se si confonde ciò che si capisce
con l’etica dell’atto, e la passione
per cui soltanto chi la riconosce
sulla tua strada fa la sua tenzone?».
«Amico mio, sono sempre più mosce
le teorie pubblicate dai colleghi,
quando di desiderio sono flosce,
e quando la teoria non si colleghi
a quella libertà di formazione
che mi pare che troppo si deleghi
alla legge, perché una professione
diventi quella pratica che, invero,
vale solo se l’interpretazione,
non garantita, apre la strada al vero.
Solo perciò l’inconscio molto giova
alla scienza, schiudendone il sentiero.
La mia teoria solamente si prova
s’è animata dall’individuale
esperienza di quel che vi si trova.
Tutto il resto davvero poco vale.
Delle miserie non faccio il catalogo.
Il dogmatismo ha sempre poco sale.
Perciò molto ho apprezzato il tuo Dialogo».
«Non sospettavo che l’avessi letto»,
dissi. Ed aggiunse: «Ben poco d’analogo
si pubblica laggiù. Per noi è perfetto.
E non ti preoccupare se i lettori
sono pochi. Si sentono allo stretto,
quando leggono questi tuoi lavori.
E molto bene fai a non compiacerli.
Chi cede all’ovvio sempre pochi onori
concede al vero e all’atto. Lascia ai merli
il loro cra-cra crudo, e vai diritto,
dove la luce più chiara s’imperli.
Il vero, non puoi prenderlo in affitto:
devi subordinargli l’esistenza.
Solo così non sarai mai sconfitto.
Lascia che parli a tutti l’evidenza,
e canta il canto tuo, senza curarti
di vincere la loro resistenza.
Soltanto questo dà un impulso alle arti,
fra le quali tu poni giustamente
anche le scienze. Tutte sono parti
della logica, che sola non mente
e prende corpo: come tutti sanno,
se aprono gli occhi usando la tua lente.
Se t’ignorano, è solo loro il danno.
Trascrivi pure queste mie parole.
Sai che, fra quelli che le leggeranno,
non ci saranno coloro cui duole
quel che dico. Se sei nel nostro coro,
non dare mai importanza a chi altro vuole.
Solamente così farai tesoro
dei miei scritti. Anche i miei son letti poco,
eppure stanno al fondo d’un lavoro
che in atto non può mettere chi è roco.
Per praticare non basta ascoltare.
Si deve invece trasmettere il fuoco
che ogni viltà da sempre fa arretrare».

Dal Paradiso, di Ettore Perrella, NeP Edizioni, Roma 2016, vol. 3, pp. 107-13.

9 pensieri come contributo alla nascita di una Bellezza insurrezionale e due poesie

1.    La poesia, al suo meglio, è energia di ricominciamento che permane verginale, non avvizzisce al tramontare delle epoche.
2.    La bellezza non è solo oggetto di nostalgia delle perdute armonie (di quelle classiche, rinascimentali, barocche, romantiche ecc. ecc.), ma è svelamento sconvolgente in grado di spalancare le porte del tempo allo splendore di un futuro possibile.
3.    Il movimento mitomodernista sfida gli “allegri becchini” impegnati ad evocare l’agonia della nostra civiltà, pronti a ridicolizzare ogni generoso tentativo di rigenerazione.
4.    Basta con la poesia dell’infelicità storica, intellettuale e personale. Basta con l’incapacità di amare senza nulla chiedere in cambio.
5.    Nel mondo taroccato di borse, nasi, seni e opere d’arte il cui unico valore consiste nel prezzo, la poesia sprigioni quell’energia metafisica, quella tensione simbolica che è all’origine di ogni civiltà e di ogni esistenza autentica.
6.    In un mondo dove domina la libertà di iniziativa e di speculazione, libertà intesa come successo sociale acquisito col denaro, ricordiamo come Dante ritenesse la libertà come il massimo dono di Dio alla natura umana e additiamo le parole di Catone (Purgatorio, 1, vv. 71-72) “libertà va cercando, ch’è si cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta”, per invitare a lottare con e per una libertà di pensiero alimentata dalla bellezza terrestre e cosmica.
7.    Se il pensiero etnocentrico ci radica nella terra dei padri, il pensiero mitico, circolare, unisce le varie etnie a origini comuni, riportandoci a una primigenia fratellanza.
8.    Contro le miserie della mediocrità e del risparmio quotidiano, ricordiamo Gorgia, il sofista, quando fa dire a Callicle che la bellezza dell’esistenza consiste nel “versare il più possibile”.
9.    Un pensiero è valido se diventa azione.

Tomaso Kemeny
Tomaso Kemeny

Aurora mitomodernista

La grande ala di fuoco della scrittura
vola verso l’aurora
di solo suoni armoniosi vestita
verso l’aurora
quella che seduce
il silenzio
con la sua pelle di parole.

Ora un turbinio di scintille
traccia una sinfonia
per la costruzione di un mondo
dove la bellezza risplenda ovunque
come urgenza di riordinamento
senza percorsi prestabiliti
verso il futuro.

 

Rime sovversive per i migranti in lacrime

I codardi discendenti del Misericordioso
si dilettano a mozzare il capo al cristiano
rispettoso, a stuprare femmine indifese,
a depredare, devastare, abbattere
statue e Chiese e così ogni mese
migliaia di migranti preferiscono naufragare
a proprie spese piuttosto che rimanere
in balia dei nefasti briganti di Dio.
I  poeti da sempre si perdono nella selva d’oro
dell’immaginazione e si smarriscono
in un mondo simbolico migliore, un esilio volontario,
ma io, ancora bambino, mi vidi in fuga
con la famiglia a torto dichiarato
nemico del popolo, dal distorto carnefice
stalinista dell’Ungheria, conobbi l’esilio
e dimora tra i fiori selvaggi di André Breton
e nel meraviglioso canto del Foscolo e del Tasso.
Che siano fedeli di un Dio guerriero,
o compagni social-traditori, o schiere razziste-reazionarie
risultano appartenere tutti alla tradizione dei
maledetti massacratori e involontari buttafuori
della composita ruota delle minoranze diverse
e dissenzienti. Per le vittime dei persecutori,
dei violatori degli ideali originali, traccio,
con sovversione, un cerchio ove siano obbligati
ad ascoltare la continua lettura dei testi
di cui, i vari tipi di ingannatori delle genti,
si sono dichiarati e si dichiarano legittimi
guardiani, o, altrimenti, questi rinnegati
vengano costretti a camminare in silenzio
e in punta di piedi, in lacrime verso il paese da loro
propagandato e del tutto immaginario,
oltre i confini della realtà.

 

Solo la grande poesia

È vero: solo la grande poesia
può salvare l’anima degli alberi,
dei boschi, dei fiumi e dei monti.
È la luce della poesia
a salvare le piante e gli amori,
a conservare, l’immagine ineffabile
delle stelle.
Ma solo l’anima
dei popoli potrebbe arrestare
la grande devastazione.