Le biciclette di Duchamp ovvero l’arte concettuale come trasformazione in O

Qualche tempo fa una vecchia allieva e nuova amica, Alessandra Pistillo (ora copywriter e consulente di comunicazione), metteva online (su Facebook, il 15 ottobre 2016) la foto di un’opera appena vista nel Museo Pecci di Prato: la famosa Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp. La foto – che qui riproduco – era accompagnata da un delicato commento sull’emozione che poterla guardare da vicino, nell’originale, le aveva prodotto. Manco a dirlo – a più di un secolo dalla prima versione dell’opera! – si è scatenata una folla di “amici” (che probabilmente ignoravano l’esistenza sia dell’opera che dell’Autore) con una serie di commenti tristemente prevedibili del tipo: “che roba è?”, “questo lo sapevo fare anch’io”, “e la chiamano arte”. Mi sono chiesto, allora: perché non sono d’accordo? E ancora: che cosa ispira commenti di tal fatta?

Ruota di bicicletta (Duchamp)

Per rispondere a questa domanda, ci soccorre la psicologia analitica di W.R. Bion: dietro questo tipo di reazione c’è quello che egli chiama «inversione della funzione K». Ci sono per Bion tre forme di legame oggettuale, ovvero tre modi di mettersi in relazione con l’oggetto: L (Love), H (Hatred) e K (Knowledge). Bion è in ciò kantiano, si tratta in definitiva di «forme a priori»; però, diversamente da Kant, non solo di forme cognitive dell’Ich denke, bensì di forme dell’esperire in generale, nel contempo conative, affettive e cognitive. Infatti: ognuna delle tre forme (L,H,K), ciascuna con le sue modalità, sospinge il soggetto verso l’oggetto, iscrive tale protensione su un certo sfondo e, così facendo, permette al soggetto di trasformare la relazione con l’oggetto in una esperienza significativa. Questo è, diremo così, il corso normale. Ma tutte e tre le forme di legame oggettuale possono anche, talora, funzionare alla rovescia (come retrazione piuttosto che protensione), cioè nel senso di espellere l’oggetto – per meglio dire, ogni vissuto ad esso relativo – fuori del campo vitale del soggetto, nelle regioni della «indifferenza».

Dunque: per opposto a +K (il gusto di conoscere, la curiosità del nuovo), –K simbolizza il rifiuto del nuovo e, per così dire, la fuga dalla conoscenza. Ciò di cui stiamo parlando (vorrei che fosse chiaro) non è un semplice “ignorare” (dove lo sforzo per conoscere è uguale a 0), ma una resistenza attiva contro ogni possibilità di conoscere (dove lo sforzo assume un qualche valore, ancorché negativo, e comporta dunque una qualche spesa di tempo e di energie). Ciò che il soggetto intende prevenire è di fare del vissuto in atto una «esperienza» degna di questo nome, vale a dire una esperienza da cui sia possibile apprendere qualcosa. Questo rifiuto, automatico eppure intenzionale, si manifesta con l’indifferenza ostentata di chi proprio “non vuole saperne” (di alcunché d’inedito) e immediatamente reagisce con dispetto verso qualunque oggetto (ma talvolta può trattarsi di una persona) che si permetta di mettere in questione la sua supposta onniscienza. “Immediatamente” va qui inteso alla lettera, senza por tempo in mezzo, ovvero: senza concedersi il tempo di pensare. In altri termini: –K è il legame attivato da chi, messo di fronte a un oggetto inedito, a un fatto strano, a un comportamento incomprensibile, anziché dirsi «qui c’è qualcosa che non capisco, ma forse significativo», per eludere l’ansia di non sapere ed evitare la fatica di pensare, preferisce dirsi «non c’è niente da capire, ciò non vuol dire niente».

Va da sé che un atteggiamento del genere è tanto più facile quando sia possibile supplire al rifiuto di “pensare” con la rassicurante familiarità del già “pensato”. Meglio ancora, quando l’assenza di un pensare proprio assuma le rassicuranti fattezze del Man heideggeriano, dove la prima persona – l’«io penso» e l’«io dico» – si possono tranquillamente annullare nella impersonale normatività del «si pensa, si dice». Con ciò il discorso da psicologico si fa anche culturale. E per tornare a Marcel Duchamp, è chiaro che quel genere di commenti malevoli sulla Ruota di bicicletta sono anche la diffusa espressione di un pensiero cristallizzato, di un già-pensato e di un pre-pensato a portato di mano: più comodamente raggiungibili di ogni autentico “pensare”. Perché anche nel campo del pensiero, e forse sopra tutto in quello, ci piace l’usato sicuro…

Quali sono dunque questo già-pensato e questo pre-pensato? Quale questo “usato sicuro”? Mi riferisco alle idee, dure a morire, che (1) la bellezza dell’arte debba coincidere con la bellezza del contenuto in essa proposto e che (2) l’arte debba idealizzare la realtà, rappresentandone solo gli aspetti, come dire? “nobili” e indiscutibilmente “belli”. Eppure basterebbe il vecchio De Sanctis – quel poco De Sanctis che si studiava al liceo – per rispondere che, l’arte essendo una «sintesi di forma e contenuto», la bellezza della rappresentazione sta piuttosto nella congruenza dell’una con l’altro. Dal che deriva che, se vogliamo mettere in scena per es. l’orrore (che pure fa parte della vita), non possiamo farlo che per mezzo di forme esse pure agghiaccianti. Come infatti fanno, rispettivamente, Picasso in un quadro stralunato come Guernica o Penderecki nelle dissonanze stridenti del Threnos per Hiroshima. O come pure fece – più di quattro secoli fa, per restare dentro una grammatica del verisimile meglio accessibile agli inesperti di estetiche contemporanee – Caravaggio con la sua Medusa.

Guernica (Picasso)
Scudo con Medusa (Caravaggio)

Ora, in verità una ruota di bicicletta issata su uno sgabello non è per se stessa né “bella” né “agghiacciante”. Non è puramente mitologica (eppure verisimile) come la Medusa, né inverosimile (eppure reale) come il bombardamento di Guernica. È solo una ruota. E questo la mia amica Alessandra l’ha colto perfettamente. Infatti, nel rispondere agli amici che «questo lo sapevo fare anch’io», non si è limitata a rispondergli «bene, allora fallo». Al sarcasmo, ha voluto aggiunto una spiegazione, cioè – brava, Alessandra! – che si tratta di «arte concettuale». Ed eccoci al punto, finalmente: ciò di cui stiamo parlando è, in effetti, proprio l’inizio della c.d. Rivoluzione concettuale.

 

La ruota di Duchamp non parla che di se stessa, questo è vero. Sale sullo sgabello, come un bambino che recita la poesia, e dice: «io sono una ruota». Ma proprio qui sta il bello. Perché questa sfrontata esibizione di sé (da parte di una ruota reale che assurdamente ci parla in prima persona) crea nella mente dell’osservatore – se sgombra di pregiudizi e capace di «mettere fra parentesi» le solite attese – un corto circuito fra soggetto (“io”) e predicato nominale (“ruota”). Anzi, di più: fra segno e cosa, fra significante e significato. All’infinito: «una ruota è una ruota è una ruota è…»: mise en abîme. Qualcosa come la irraggiungibile “essenza” di una ruota di bicicletta, contemplata per la prima volta con gli occhi stupefatti di un bambino! Quest’opera di Duchamp ha dunque la stessa complessità del famoso verso di Gertrude Stein: a rose is a rose is a rose, su cui da un secolo si discute. Un verso per così dire “circolare”, che non a caso un artista concettuale come Bruno di Bello ripropone, nel 1974, come una specie di mandala.

A rose is a rose (Bruno di Bello)

Ma torniamo alla Ruota di bicicletta. Nella misura in cui «mette in evidenza» l’eidos della ruota e «mette fra parentesi» ogni altra qualificazione accessoria, il dadaismo di Duchamp costituisce ai miei occhi l’equivalente artistico della fenomenologia di Husserl. Al pari del cubismo, che Gertrude Stein – amica di Picasso – traspone dalla pittura alla poesia.

Ora, la cosa interessante è che sia la ruota di Duchamp, sia la poesia di Stein, sia le Idee per una fenomenologia pura di Husserl sono tutte e tre del 1913! Non è una coincidenza: siamo in piena «crisi dei fondamenti»: in ogni campo, della filosofia e dell’arte, ma anche della scienza. Tutto viene riguardato con occhi nuovi e ripensato su basi diverse, perché non siamo più sicuri di nulla, neppure della sussistenza di un rapporto di fedele “corrispondenza” fra le cose e le rappresentazioni simboliche che ce ne facciamo. Infatti, nell’opera di Duchamp la cosa e la sua rappresentazione coincidono indistinguibilmente: c’è fra loro una identità esistenziale, non un rapporto logico. Però, d’altronde, se quella che chiamiamo “ruota” avesse un nome diverso, nulla di “essenziale” cambierebbe. Ce lo conferma una quindicina di anni dopo il surrealismo di Magritte, che compie una operazione inversa e simmetrica rispetto a quella di Duchamp: infatti, Magritte dipinge una pipa e ci scrive sotto ceci n’est pas une pipe: questa NON è una pipa! Con la quale provocazione ci obbliga a pensare – ma anche e sopra tutto a riproblematizzare! – la differenza (teorizzata in quegli stessi anni pure da Freud, amatissimo dai surrealisti) fra cosa, rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola, cioè fra mondo reale, sogno e conoscenza razionale.

The Treachery of Images (Magritte)

Qualcosa di simile alle illuminazioni artistiche di Duchamp e di Magritte si trova da secoli – a proposito di “illuminazioni” e di “risvegli”! – nei giardini giapponesi ispirati dal buddhismo zen. Che sono a volte, e paradossalmente, giardini solo minerali: fatti di sassi, presi dal greto del torrente e appoggiati sulla sabbia, eppure, nella loro evidenza, incredibilmente vivi. Anch’essi capaci di proporsi in prima persona a chi li guarda: “io sono un sasso”! Sì, c’è una parentela stretta fra la ruota di Duchamp e il sasso del giardino zen: nell’un caso e nell’altro, la messa in evidenza dell’eidos avviene per isolamento e per contrasto. Per quanto riguarda l’opera di Duchamp, osserva Isa Venturi che molto si gioca nel contrasto fra la pesantezza dello sgabello, simbolo d’immobilità, e la leggerezza della ruota, simbolo di movimento. Per quanto riguarda l’arte zen, il sasso nudo avulso dal torrente e poggiato sulla sabbia enfatizza il contrasto materico delle superfici, come pure delle consistenze: liscio vs. granulare l’altra; compatto vs. impalpabile. E solo che lo guardi – potenza dei neuroni-specchio! – già ti sembra di averlo in mano, quel sasso: di accarezzarne la superficie, di saggiarne la durezza, di soppesarne la consistenza. Sicché quel sasso “non è che se stesso” (come la ruota di Duchamp), ma nello stesso tempo è ben altro: il “sogno” di un sasso (come la pipa di Magritte); e tutto ciò, insieme.

Qualcosa di ancora simile ricordo di avere trovato in alcune opere di Robert Rauschenberg esposte al Forte Belvedere (Firenze 1976) e, più di recente, in alcune opere di Antonio Lo Pinto esposte nella Chiesa di S. Agostino (Pietrasanta 2015). Naturalmente, ferme restando le procedure d’isolamento e di messa a contrasto, ciascun artista ha un modo peculiare e tutto suo di enfatizzare l’evidenza dell’oggetto, al fine di farne una immagine di se stesso: per esempio, la decontestualizzazione dell’esotico (come fa Rauschenberg, ricorrendo a forme e materiali dei nativi americani) o la magnificazione (come fa Lo Pinto, con le sue collane gigantesche o con le sue stilografiche lunghe un paio di metri). Ma in ogni caso si tratta di farci guardare con occhi nuovi e come per la prima volta oggetti di uso quotidiano, cui non siamo soliti prestare attenzione. Si tratta cioè, e scusate se è poco! di de-banalizzare il mondo. Di restituirgli le forme e i colori che già possiede; ma che nessuno guardava più. Sarà pur vero che due ombrelloni (Rauschenberg) o una collana (Lo Pinto) non vogliono dire niente. Eppure molto, moltissimo dicono. Se solo qualcuno ci obbliga a guardarli.

Rauschenberg
Lo Pinto

In opere siffatte – giova ripetere – la cosa, il sogno della cosa e la sua fedele rappresentazione vengono miracolosamente a coincidere. Ciò che offrono è una sintesi hegeliana: «la cosa-in-sé-e-per-sé». Ma anche – per chi preferisce Lacan – una specie di nodo borromeo, dove il Simbolico (la cosa-in-sé-e-per-sé) tiene annodati Reale (la cosa-in-sé) e Immaginario (la cosa-per-sé). Per meglio dire: la possibilità, che solo l’arte concettuale ci offre, di “contemplare” il nodo borromeo dall’esterno nonché da vertici di osservazione diversi, trascorrendo circolarmente dall’uno all’altro. Lacan sosteneva non poter esistere metalinguaggio; ma l’arte concettuale costituisce, io credo, una notevole eccezione: essa è, in effetti, una giocosa riflessione sul linguaggio. E lo è per tutti, nel medesimo senso. Per tutti coloro, almeno, che siano capaci di lasciarsene incantare.

So bene che nel nome dell’«arte concettuale» vengono proposte tante mistificazioni. Ma quando il gioco è ben condotto (come nelle opere qui analizzate), quando davvero una fra le mille cose del mondo viene riproposta in maniera tale da permetterci di leggerla sia come cosa in sé, sia come immagine d’altro, sia come rappresentazione di se stessa; quando davvero tutti i registri dell’esperire convergono nella medesima evidenza; quando la realtà coincide con l’apparenza e l’apparenza con la verità allora, allora siamo nei paraggi di ciò Bion chiama “O” (come Origine): un grado zero della realtà che possiamo solo intuire, una irraggiungibile pienezza di senso che possiamo solo contemplare, una verità ultima delle cose che non è possibile esprimere con parole, ma solo vivere in prima persona. Questa esperienza diciamo pure mistica, che trasversalmente unisce religioni diverse e concorrenti, Bion la chiama «trasformazione in O». Esperienza quanto mai singolare perché comporta, per entrarvi, un momento di derealizzazione-depersonalizzazione (queste le denominazioni psichiatriche), momento che non tutti sono capaci di tollerare; ma paradossalmente offre a chi ne esce una più salda fede nella esistenza della realtà, nel valore del mondo, nella possibilità di farne conoscenza. Ciò che Bion chiama «fede in O», premessa di ogni sana crescita interiore.

 

La verità è che l’arte concettuale, e l’arte in genere, più che chiedere spiegazioni (verbali e verbose) ne offrono (di non-verbali). Nella forma della ostensione antonomastica. Nella Ruota di bicicletta realizzata da Duchamp, «questa ruota qui» diventa «la ruota per eccellenza», l’haecceitas trapassa nella «epifania». Eccola! E finalmente so che cosa sia una ruota.

A qualcuno ciò non piace. Perché – beato lui! – lo sapeva già che cosa fosse una ruota. Pazienza, ce ne faremo una ragione.

2 pensieri riguardo “Le biciclette di Duchamp ovvero l’arte concettuale come trasformazione in O”

  1. Per me, povera persona qualunque, la lettura non è stata facile. Ha richiesto una grande concentrazione e, lo confesso, ho saltato alcune righe. Credo di riuscire a capire cosa si intenda per “esperienza mistica” ma non riesco a capire, e ne soffro, che bisogno ci sia di proporne quando ovunque ci voltiamo, se abbiamo sensibilità e coscienza, incontriamo oggetti che, isolati o no dal contesto, propongono travolgenti spunti di riflessione.
    Cosa non è arte? Quello che non viene identificato e assurto come tale?

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