Leggete e Tacete

Che dire di Antonio Tacete, «questa sorta di vin Santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park »? Soprattutto: che dire di Tacete, che non abbia già detto lui, nascondendolo apertamente nella vanvera vorticosa d’una scrittura di ripugnante attrattiva? Il paragone immediato e blasfemo, giusto per non far torto alle sue non comuni aspirazioni, alle sue ardue traspirazioni narrative, è con un premio Nobel della letteratura: il cinese Mo Yan. Uno pseudonimo che significa «colui che non vuole parlare». Ora, immaginatevi che razza di buffo rendez-vous continuamente mancato sarebbe quello fra uno scrittore parmigiano che ha scelto come nickname l’imperativo «Tacete!» e il suo celebre collega, l’autore di Sorgo rosso, che dal canto suo non ha alcuna voglia di parlare. Ma potrebbe invece trattarsi d’ uno di quegli incontri fortuiti fra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico auspicati da un certo Lautréamont… E qui il vecchio Carl Gustav Jung andrebbe in brodo di giuggiole per via di una coincidenza straordinariamente significativa: l’autore dei Canti di Maldoror ha infatti avuto l’arduo privilegio di legare la sua morte alla nascita di Tacete. Come ci racconta col suo stile inconfondibile, costui è infatti nato proprio il 18 marzo del 1970, «un secolo esatto dalla morte dello scrittore Isidore Ducasse detto conte di Lautréamont, lui poeta benigno, l’altro poeta maleficissimo, un giorno prima della fiera di San Giuseppe, dove nonni gobbini portavano i nipoti pupattoli a vincere pesci rossi ». Questi nonni gobbini sono già gli antesignani del nano Villa e della corpulenta nonché crapulenta corte dei miracoli che si aggira spetezzante e sogghignante nelle pagine di Le lucciole nella lana delle pecore, carnevalesco sabba di parole che solo un coraggioso capitano di ventura come Mario Guaraldi poteva aver l’ardire di pubblicare. Come vedrete dalle paginette che TheLivingStone ha scelto, infatti, la prosa di Tacete non è per nulla accomodante. Può forse peccare di narcisismo, ma non di quella consolatoria ipocrisia che costella tanta narrativa italiana, soprattutto quando si finge dedita a scopi altamente sociali. D’accordo: Tacete è uno scrittore arrogante: solo un losco figuro può ordinarci così perentoriamente di tacere, arrogando unicamente a se stesso il diritto alla parola. Ma se vi azzardate a seguire le mille capriole verbali di questo stramboide, se vi lasciate catturare dal suo mondo teratofilo e blasfemo, da quell’immaginazione grottescamente copulante e dalla sua indisponente malalingua, capace di farvi prendere lucciole per lanterne e viceversa, avrete l’ambiguo e silenzioso privilegio di gustarvi una prosa irta, inconciliata e mai paga, che vi appagherà non poco. Tacete, dunque, e leggete.

Roberto Barbolini

Antonio Tacete – Le lucciole nella lana delle pecore

 

Per gentile concessione dell’editore Guaraldi, pubblichiamo i brani iniziali della vanvera narrativa  Le lucciole nella lana delle pecore di Antonio Tacete.

Il noce

Villa il nano ed Uringrissin, un torinese dotato di un pene che, se in erezione, era sottile e lungo come un grissino, andarono a trovare nella sua abitazione umidiccia di Via Pontremoli il barbiere detto Scravata che raccontava ilarità e barzellette, come quando ad Abbiate Grasso era giunta su un pullman una comitiva di lottatori di sumo e il torinese ridolava ed inframmezzava al riso esclamazioni del tipo di ‘neh’. così giunsero a Noceto, in un casolare dal cortile erboso della corte dove si ergevano noci giganteschi e nel cui pollaio videro un uovo schiudersi e crepare e nascere due pulcini contemporaneamente. L’indomani, il giorno di San Martino – l’estate d’inverno – per la festa dell’omonimo santo nella chiesa a lui intitolata, in un fondale-piscina pieno d’acqua della sagrestia, assistettero alle battaglie navali dove, su gusci di noci giganti come se queste fossero botti grosse da 5000 mila litri di vino, con per alberi rami di noce munito di vele, paesani combattevano a colpi di cannonate sparanti palloni per affondare l’altrui nave.

 

La Spalla cotta di San Secondo

Un nano di San Secondo detto Spalla innamorata San Secondo – nel paese che si chiamava così perché nei pranzi il secondo non toccato, vergine, veniva sostituito dall’antipasto del salume di prosciutto, fatto con la parte superiore dell’arto anteriore del maiale – sostava a Busseto dove, in quel momento, il musico Verdi era salito su una carrozza a forma di cigno e smaltata di bianco e invitò l’estate successiva Villa il nano in un coltivo immerso dal mare verde di un’onda di cavallette, alcune giganti e verdi come draghi, ed in cima al mucchio immenso faceva capolino un grillo nero e così Villa il nano assistette anche al Palio nel paese dove cavalieri dovevano infilare aste a forma di lunghissime dita indici stando in equilibrio sul cavallo in un anello sostenuto a mezz’aria da un saracino e due delle contrade erano la ‘dragonda’ ed il ‘grillo’: simbolo delle invasioni di orteotteri e di pulcensi nei campi. Dopo l’agone del palio c’era la fiera e Villa il nano vide davanti ad un banco di dolciumi un nonno chiamato di cognome Vescuovi con il suo pupattolo nipote detto Bimbiberon, che rimiravano i croccanti a forma minuscola di rocche parmensi, come se fossero fatti di mandorle con calce di miele e comprarono il castellino di Soragna e se lo sgranocchiarono mentre nella calca della sagra il nano scorse incedere a carponi un quarantesimo cugino del marchese Meli Lupi al quale, imprigionato nelle prigioni del feudo da quel dinasta parente, erano cresciuti peli spessi da lupo, e proprio come questa bestia camminava appoggiandosi come alle zampe, alle braccia e alle gambe. Con il comico mercenario nonché capitano di ventura chiamato Ubertosacqua, il nano Villa giunse a Soragna dove piovevano dal cielo mele a forma di teste di lupo e peli neri di questi animali voraci.

 

La barba fluente

il poeta gobbo Leopardi, ospitato a Napoli nella casa dell’amante letterato Antonio Ranieri, preparandosi un minestrone scambiava il pentolone pieno di verdure per la selva oscura di boschi di fagioli, carote e sedani dell’inferno rosso infuocato di passata di pomodoro in cui, incuriosito come l’Alighieri, sfidando i bollori voleva entrare nella bocca della pentola gigante come se fosse l’ingresso di un girone infernale. Dopo aver sorseggiato la pietanza il recanatese ed il napoletano fecero sesso su un letto matrimoniale. Un leguleio partenopeo dalle scorregge legumiche aveva processato la camorra che regalava a Leopardi bocconcini giganti di mozzarelle, pizze, maccheroni, confetti, strufoli, pastiere, barrette di cioccolato, gelati, zabaioni, limoncini e carne d’asinina da fare in umido, doping del poeta per scrivere i suoi versi. La notte dopo il coito il figlio di Monaldo fece sogni stramboni e in una visione onirica vedeva crescere la barba fluente ad un regnante Borbone la cui peluria risaliva lo stivale italiano impossessandosi e ricoprendo la sua crosta terrestre fino ad arrivare con la punta ricciola della bazza allo zerbino dell’abitazione torinese di Cavour e su questo tappeto peloso il Leopardi si sognava di giungere in Sicilia a mangiare babà e cassate. Nel sogno si sognò con l’amico di giungere nel Granducato di Toscana dove allora regnava Leoppolodo, precisamente al Palio di Siena, che vinse un fantino gibbo come lui chiamato il Santini detto Saragiolo, che portato in trionfo dai contradaioli e denudato da questi mostrava questa gibba sulla schiena a forma minuscola di un groppo del Monte Amiata detto Saragiolo, dal quale aveva preso il nomignolo.

Un commento su “Leggete e Tacete”

  1. Prurito.
    Anche senso di umidiccio per la verità, e insaccamento come se il peso di qualcun altro infossasse più del solito il materasso, ma soprattutto prurito, quelle cose che costringono anche contro voglia a svegliarsi. Infatti Villa il nano si svegliò nel buio, coricato sul fianco.
    Anche da sveglio non aveva le idee chiare, sapeva di essere a letto nudo, sapeva di essere rivolto verso una finestra con le persiane chiuse, comunque invisibile, poi però il resto era amnesia.
    Seguendo il prurito si portò una mano tra le chiappe e ci trovò qualcosa di gommoso, ma anche viscido.

    Villa il nano era omosessuale, tranne quando gli capitava di incontrare delle battone che non richiedessero uno sforzo, che allora per breve tempo cambiava partito, ma insomma per lui era normale trovarsi un preservativo. Però abbandonato li dentro nel sonno ? Tutto sporco ? Roba da infezione, il prurito era veramente il minimo !

    Un accenno di luce si spinse oltre le persiane, doveva essere mattino, i contorni delle cose attorno a lui iniziavano a distinguersi e lo stesso accadeva nella sua memoria. Ci avevano dato dentro pesi la sera prima; Lambrusco, Grappa, Nocino, poi era arrivata quella bottiglia di intruglio col feto di bestia mummificata dentro, e loro tanto erano bevuti che assaggiare era sembrata una cosa spiritosa. Lui e Spazzacipiglio, anche lui nano, anche lui omosessuale e anche lui garzone dallo stesso barbiere, uno dei tanti mestieri con cui Villa si arrangiava.

    Si alzò e sempre al buio girò attorno al letto per raggiungere l’angolo doccia.
    Era una specie di capsula spaziale di vetro giallo smerigliato, a forma di pannocchia. All’interno in un solo metro quadro conteneva doccia, water e lavandino, poi gli specchi, quelli che da fuori sembravano i cicchi della pannocchia, dentro erano specchi. Se avesse acceso la luce si sarebbe specchiato in decine di nani ancora più minuscoli di lui, ma in quel momento gli interessava solo togliersi di dosso la sporcizia. La saponetta, in maniera appropriata, aveva la forma di quei falli priapici che si trovano numerosi tra le rovine di Pompei, aveva odore di pomodoro e basilico.
    Gli venne da chiedersi che senso avesse pulirsi il sedere con una caprese. Forse c’era una legge che obbligava i busoni a tenersi in casa il peggio kitsch ? E lui l’aveva dimenticata tra le altre cose ? A pensarci non era neppure sicuro di ricordare la propria faccia. Perché aveva così pochi ricordi ?

    Uscì dalla doccia e Spazzacipiglio prese il suo posto mollandogli una pacca sul culo mentre passava. Era presto, ma tornare a dormire era escluso, non rimaneva che preparare il caffè.

    “ Oggi è giorno libero, potremmo andare a Soragna a vedere il festival dei nasi.
    La FIAT per l’occasione ha prodotto automobili di alluminio a forma di naso, e anche le tazzine dei Caffè saranno così. Potremmo sederci e prenderne un altro corretto più tardi, mentre passa la sfilata. “

    “ Io non vengo. “
    Villa stesso era stupito di aver pronunciato quella parola, non era da lui, eppure la decisione gli era sorta in un attimo, già interamente formata.

    “ Non vengo, ho un hangover bestia, guarda, oggi voglio riposare. “

    “ Ah be. Allora niente, ci rivediamo dopo al lavoro. Magari si farà un salto ai Due Platani nel fine settimana ? “

    “ Ma si, sabato ci si incrocia per forza.. “

    Spazzacipiglio salutò e se ne andò. Nessun gesto che potesse ricordare quel che c’era stato quella notte e altre prima, Villa era molto fisico nelle sue cose, a volte spingeva al sadomaso estremo, anche all’omicidio era capitato, ma l’affetto non lo concepiva, e naturalmente attirava altri simili a lui.

    Si accomodò sulla poltrona, che per la verità era un puff orrendo, più grosso di lui, a forma di ruota di Parmigiano, e visto che per la colazione si era vestito, frugò nella tasca e trovò una sigaretta, via una paglia subito di prima mattina. Si guardava attorno in cerca di ricordi.

    La sua casa era una villetta nana come lui, un monolocale con un tetto sopra. C’era la porta tra due finestre con le persiane verdi, un finestrino tondo in alto, sulla parete opposta per dare luce, poi il lettone della bisnonna in ferro battuto coi materassi di crine, il tavolo, l’angolo cucina e quella pannocchia spaziale che non c’entrava nulla con tutto il resto ed era un vero pugno nell’occhio.
    Gli pareva inoltre che attorno la villetta ci fosse un giardinetto nano, dove i topini di campo usavano tenere le loro olimpiadi.
    Senza di loro il giardinetto sarebbe stato una pozzanghera di erbacce incolte.
    Proprio come la casa ! Abbandonata a se stessa, il pavimento nascosto sotto la sporcizia, i muri spogli col bianco tutto crepato, i mobili tristi che sembravano buttati a caso in un deposito. Perchè l’aveva lasciata decadere in quel modo ?
    Forse perchè non c’era mai ?

    Era sempre in viaggio, vedeva cose, visitava gente, faceva quattro lavori alla volta compreso il pulitore comunale di cessi… e aveva anche la divisa… mangiava in trattorie, vedeva partite in trasferta. A malapena ricordava di avere la casa e anzi aveva dimenticato persino se stesso, ma non era proprio che le memorie mancassero, piuttosto erano tutte accatastate una sull’altra come i suoi mobili, senza una prospettiva e quindi indistinguibili una dall’altra, perchè con tutto il suo movimento finiva comunque per ripetere sempre le stesse azioni, intercambiabili.

    Voleva fermarsi. Gli sembrava che tutta quella vita fosse un sogno da cui si era appena svegliato e adesso voleva fermarsi, che significava mettere in ordine la sua casa. Spazzare il pavimento era la prima cosa, poi avrebbe potuto buttare quella specie di carro armato su cui dormiva e sostituirlo con un letto a scomparsa per guadagnare spazio, avrebbe potuto procurarsi una poltrona comoda e metterci di fianco un mobile bar con tutto il necessario per farsi il cocktail Ducale da seduto. Ci vuole l’highball per fare il Ducale, si riempie per un quarto con ghiaccio, succo di limone e liquore di Erba Luigia, si affoga tutto con dell’Ortrugo piacentino e si completa con una fettina di cetriolo. L’amarognolo del cetriolo completa la trinità dei sapori con l’acido e il dolce, apre al gusto una nuova dimensione che prima non c’era.
    Avrebbe dovuto mettere quadri e mensole, ma prima ci voleva una manutenzione dei muri, e avrebbe chiamato a tinteggiare l’imbianchino chiamato Pennelloni, non solo per il mestiere che faceva.

    Servivano soldi, e lui anche con quattro mestieri non aveva mai risparmiato nulla, una volta era persino stato miliardario, aveva speso tutto viaggiando avanti e indietro tra Parma e New York, taxi-nave-taxi senza sosta, bevendo champagne assieme a un barbone suo amico che aveva ripulito. Fino all’ultima lira.
    Ma una volta tanto avrebbe potuto sfruttare la conoscenza di tutti i posti che aveva visitato; si sarebbe recato a Noceto, dove il suo amico nano Scoiattolo Rosicani viveva in una casa a forma di noce in muratura, avrebbero fatto il Nocino, poi lui lo avrebe trasportato a Abbiate Grasso, che è abitato da sbodenfi nudi, sempre bisognosi di un digestivo. Sarebbe poi tornato a Parma con un carico di strutto, che serve sempre per cuocere la Torta Fritta e i Tortèl Dòls, e avrebbe fatto altro Nocino.
    Era buffo dover ricominciare a correre in giro per poter rimanere fermo, ma questa volta ci sarebbe stato uno scopo, e l’intento avrebbe dato una dimensione in più alle cose che gli succedevano. Avrebbe finalmente potuto avere dei ricordi, oltre a una casa.

    Si stravaccò ancora più affondando nel puff e soffiando l’ultimo fumo della paglia.

    Era tutto deciso, il giorno dopo avrebbe cominciato, solo il giorno dopo però, perchè adesso voleva riposare, ora che finalmente sapeva cosa fare della sua esistenza, poteva permettersi il riposo.

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