Postfazione ad Appartenere a sé stessi. Anatomia della terza persona di Guy Le Gaufey

I.

Nel film di Costa Gravas Music box. Prova d’accusa (1989), “ispirato a un fatto realmente accaduto”, nel corso di un processo un testimone-chiave commette un lapsus che rivela palesemente la falsità della sua deposizione. L’attenta Difesa interviene prontamente ma l’obiezione dell’Accusa – che si è in tutta evidenza trattato di un lapsus – viene immediatamente accolta dal giudice: il lapsus non costituisce prova giuridica e deve pertanto essere stralciato dagli atti processuali. Come non detto.

Ciò che vale per il lapsus vale per l’inconscio, che può vivere solo ai confini del diritto, delle istituzioni e delle regole che danno ordine alla società, in una dimensione indefinita e non bene individuata. Se il diritto avanzasse delle pretese sull’inconscio a qualsiasi titolo, ci troveremmo di fronte al peggiore dei totalitarismi: fare dell’inconscio un “oggetto” di regolamentazione, una materia da normare. Ne conseguirebbe un’appartenenza senza limiti dell’individuo allo Stato, inclusa quella parte di sé stesso che egli non conosce, su cui la sua coscienza non ha giurisdizione, quel “resto” che sfugge a ogni logica della rappresentazione e di cui non si può essere privati senza perdere la propria singolarità[1]. Parafrasando Lucien Jaume: «L’inconscio non è un’entità che lo Stato si trova davanti, e che costituirebbe il suo limite e il suo ostacolo; esso è piuttosto “altrove”, come il suo rovescio silenzioso […]»[2].

Lo stesso si può dire della psicanalisi e dello psicanalista.

Quando Lacan definisce lo psicanalista un rebut de la société, uno scarto, un rifiuto della società, non intende farne qualcosa di particolarmente eroico, ma solo indicare che chi vuole praticare la psicanalisi deve accettare di rimanere in questo “altrove”, «ai confini delle terre giuridicamente accatastabili», secondo un’espressione di Guy Le Gaufey. Questa fondamentale indeterminatezza giuridica, politica, sociale, è già tutta inscritta nella mancanza di fini della psicanalisi.

Lo psicanalista non saprebbe dichiarare in anticipo la finalità del suo atto, e nemmeno dire “che cosa fa” in ogni seduta e “a cosa serve” quello che fa, salvo aggrapparsi all’alibi di sempre: la finalità terapeutica. Non appena all’analisi viene attribuito un qualsiasi fine o scopo ben determinato (l’adattamento alla realtà, il raggiungimento di obiettivi sociali, il rafforzamento dell’io, la crescita e l’affinamento personale, la conoscenza di sé stessi, la “maturazione genitale”, un qualsiasi compito terapeutico, educativo, epistemologico, morale, etico), essa perde la sua indeterminatezza e l’analista acquista ipso facto una precisa funzione o missione sociale, requisito imprescindibile per acquisire – che lo voglia o no – un’identità professionale[3].

Perché nel suo caso non può essere possibile? Perché la psicanalisi non può essere una professione[4] – regolamentata o no –, senza peraltro che ci sia alcun bisogno di invocare nei suoi confronti un “vuoto giuridico”? Abbiamo già risposto: a causa dell’indeterminatezza dei suoi fini, che è addirittura assunta a principio metodologico nella “regola fondamentale” dell’associazione libera, senza di cui, dice Freud, l’analisi non potrebbe neanche cominciare[5].

Soffermiamoci per un momento sulla stranezza di questa regola, che impone la sospensione della finalità del discorso. Essa obbliga l’analizzante a dire tutto ciò che gli passa per la testa, a parlare a vanvera, a ruota libera, senza omettere niente e senza preoccuparsi di ciò che dice; in altri termini, il senso, la direzione, l’intenzione del discorso non hanno più alcuna importanza. La sola cosa che conta è l’Einfall, l’idea collaterale, il pensiero che piomba in testa all’improvviso e che non c’entra nulla con tutto quello che si sta dicendo, meglio ancora se quel pensiero viene in testa a proprio malgrado, attraverso l’inciampo della parola, o il sintomo, o il motto di spirito; allora, e solo allora, cioè al di fuori del fine e dell’intenzione a cui il discorso tendeva, l’analista si riserva di intervenire.

Notiamo che la regola esclude per definizione il dialogo o il colloquio, e che pertanto né l’analizzante né l’analista sono, l’uno rispetto all’altro, nel posto dell’interlocutore: l’analizzante è soppresso in quanto interlocutore per essere conservato solo in quanto parlante; l’analista si esclude dal posto dell’interlocutore per ridursi a ascoltatore[6]. Se si deroga alla regola e si sceglie il colloquio, allora non si può più chiamare “psicanalisi” quello che si sta facendo[7].

Lo stesso principio metodologico della sospensione della finalità del discorso è anche alla base del transfert, «messa in atto della realtà dell’inconscio»; l’unica differenza consiste nell’estensione di questa sospensione a tutti i fini dell’analisi. Infatti, non appena l’analista prende posizione, esprime un giudizio personale, si mette a dialogare, dà consigli, rassicura l’analizzante, “gioca a fare il dottore”, risponde a una domanda diretta dell’analizzante o condivide con lui determinati fini, non appena, insomma, si individua, perde la sua indeterminatezza e mette a repentaglio il transfert. Alla “messa in atto della realtà dell’inconscio”, che è la funzione del transfert, si contrappone allora la messa in atto di un’altra realtà (sociale, politica, giuridica, etica, terapeutica, ecc.) che ne prende il posto.

È Maurice Bouvet ad avere teorizzato, alla metà degli anni ’50, una concezione del transfert che potremmo definire del “richiamo alla realtà”, lo stesso che lo psichiatra rivolge al suo pazzo[8]. Essa si basa sulla contrapposizione di una “realtà soggettiva” – quella distorta e deformata dalle “difese più originarie” e dalle “imago genitoriali” che il “malato” proietta sull’analista – a una “realtà attuale” o “realtà tout court” o “realtà esterna” o “oggettivamente caratterizzata”, obbiettivo della cura verso cui bisogna condurre il “paziente”[9]. L’analista avrebbe così un accesso diretto a queste due realtà che sarebbero in esclusione reciproca: quella soggettiva e delirante e quella “oggettivamente caratterizzata”. Il commento di Le Gaufey:

preoccupato di dimostrare al paziente che sta proiettando su una determinata realtà (quella della cura) degli elementi che provengono da altrove, Bouvet sviluppa una concezione del transfert che mira a convincere il paziente, in un modo o nell’altro, che così facendo è fuori strada: che confonde una realtà (psichica) con un’altra realtà (oggettiva, razionale, attuale, “tout court”, ecc.). Il che sarebbe possibile solo se l’analista fosse dotato di una percezione immediata e diretta della “realtà tout court” – una realtà che potremmo definire della cura “fuori dal transfert”[10].

Appartenere a sé stessi. Anatomia della terza persona - Copertina
Appartenere a sé stessi. Anatomia della terza persona – Copertina

 

II.

In effetti, tutta l’esperienza mostra che nel transfert, se l’analista non vi fa ostacolo – facendosi promotore di una qualche meta a cui l’analizzante dovrebbe giungere al termine del suo “percorso analitico”[11] –, è impossibile separare queste due “realtà”, che di fatto permangono in un’ambiguità irriducibile, in una duplicità che non permette di orientarsi su una realtà “fuori dal transfert”. E tuttavia a un certo punto bisogna pure che il soggetto sia in grado, non di “accedere” a una realtà fuori dal transfert (come se essa fosse già data), ma di crearla, di istituirla. Questa realtà può dunque essere solo una realtà fatta di linguaggio, e non certo la realtà “in quanto tale” che l’analista pretende di indicare o tracciare al paziente con l’intenzione di riportarlo sulla retta via. Da qui la mia tesi: l’analizzante esce dal transfert quando comincia a rivolgersi direttamente proprio a quel “terzo” che era rimasto necessariamente nell’ombra, indefinito, per tutto il tempo dell’analisi. Che a un tratto questo terzo sia non tanto individuato, ma posto dall’analizzante come una presenza reale ben “distinta e separata” dal personaggio immaginario della sua storia personale che “proietta” sull’analista, non rende questo terzo meno indefinito di prima, e tanto meno ne fa un interlocutore.

Il “nuovo evento psichico” (psychische Geschehen) che dissolve il transfert non può essere altro che un mutamento radicale della posizione enunciativa dell’analizzante. Egli passa da:

– “(ti) parlo (di qualsiasi cosa mi viene in mente)”, e questo “ti” lo metto tra parentesi perché, quando si accetta di parlare secondo la regola fondamentale dell’associazione libera (che è la causa del transfert, come osserva giustamente Le Gaufey), non solo l’altro rimane completamente indeterminato, ma il soggetto non parla veramente a qualcuno, piuttosto si parla, dato che questo “qualcuno” non è altro che il luogo di ritorno del proprio discorso; a:

– “è a te che parlo”.

Il fatto che l’analizzante si rivolga ora direttamente a questo terzo (l’analista nella sua “presenza reale”), senza nascondersi più dietro ai giri di parole di un discorso intessuto di fantasmi – un discorso in cui egli non appare se non in absentia o in effigie[12], dipende dall’avere trovato il coraggio di parlargli fuori dalla rimozione.

Un esempio tratto da un caso di Serge Leclaire, la cui semplicità non deve ingannare, descrive bene questa situazione.

«Per me è molto penoso, diceva un tal paziente, fare delle confidenze a qualcuno che non vedo». L’analisi rivela uno dei riferimenti storici di questa dichiarazione a prima vista paradossale: da bambino, il paziente si rammaricava che la madre, quando gli raccontava le favole prima di addormentarsi, si mettesse vicino a una lampada posta al di là di un tramezzo di legno del letto, sottraendosi così alla sua vista; tuttavia, perché il racconto potesse continuare egli doveva restare giudiziosamente coricato. Eppure, confessa il paziente, gli piaceva tanto vedere il volto e il petto di sua madre mentre leggeva. Quando si lamenta di non poter vedere l’analista, il paziente trasferisce su di lui il ricordo di sua madre, e nella seduta il ricordo di quei momenti di dolce intimità, insomma sostituisce all’analista l’immagine della madre. «Ma perché, anche qui, continua Leclaire, questo giro di parole, questa incapacità di esprimersi direttamente? In fondo, ecco ciò che vuole dirmi: “Rimpiango quei momenti di dolce intimità di cui mia madre mi privava la sera”. Ma per qualche ragione – in cui l’analisi non troverebbe posto – egli non riesce a dirmelo “direttamente”: usa uno stratagemma, sostituisce l’immagine della madre alla mia e dice che non può fare confidenze (atmosfera di dolce intimità) a una persona che non vede. In tal modo, non realizza la mia presenza e confonde, inconsciamente, la mia immagine con quella della madre». Quale sarebbe stata la situazione se il paziente si fosse espresso senza fare ricorso ai giri di parole del transfert? «Mi avrebbe detto: “Rimpiango i momenti di dolce intimità con mia madre di cui sono stato privato”: ma allora mi avrebbe parlato, come se fossi realmente presente, di sua madre in quanto persona definita e individuata come tale e pertanto ci sarebbero state tre persone – lui, sua madre e me – mentre, nell’espressione del transfert, noi restiamo in un a tu per tu [tête-à-tête] immaginario: c’era lui che intratteneva con me una relazione fantasmatica in cui io portavo la maschera della madre»[13].

È proprio perché l’immagine dell’analista figura, gioca un ruolo nel fantasma dell’analizzante, che l’analista può sapere che questa fantasia è a lui che si rivolge, e che essa sostituisce ed evita un discorso più esplicito che gli sarebbe destinato. Infatti, nel transfert si parla all’analista solo per procura, e solo a condizione che egli sia nascosto dietro una maschera. La nevrosi non è altro che il transfert, l’impossibilità di prendere la parola per rivolgersi a un Altro che non sia un doppio immaginario del soggetto, che rimane sempre nascosto nei “giri di parole”, o, se si preferisce, “tra i significanti”. Nel seminario Le psicosi Lacan chiama “ri-soggettivizzazione” «l’operazione del tirarsi fuori da quell’implicazione significante in cui abbiamo ravvisato l’essenza e le forme stesse del fenomeno nevrotico»[14]. Rimanere all’interno di questa “implicazione significante” significa rimanere prigionieri del transfert, continuare a parlare in absentia o in effigie, continuare a traslare sull’altro le proprie salme[15], perpetuare quella “viltà” che Freud metteva al centro della nevrosi: non esporsi mai a una dimensione della parola in cui si corre il rischio di essere “ammazzato” in praesentia.

 

Note

[1] Da qui la scelta editoriale di cambiare il titolo francese del libro in Appartenere a sé stessi, che riprende d’altronde il titolo del suo capitolo centrale.

[2] Lucien Jaume, Hobbes et l’État représentatif moderne, PUF, Paris 1986, p. 144. Ho sostituito «uomo naturale» con «inconscio».

[3] Nessuna attività lavorativa può essere considerata una professione (o un mestiere) se non ha un fine dichiarato, lecito e determinato.

[4] Ricordiamo il celebre monito di Freud: «Il professionismo è l’ultima maschera assunta dalla resistenza alla psicanalisi, e la più pericolosa di tutte». Lettera di S. Freud a S. Ferenczi, 27 aprile 1929, cit. da Musatti nell’Avvertenza editoriale a S. Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici (sic!), (1926) in Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. 10, p. 348.

[5] Com’è noto, proprio l’invenzione freudiana di questo principio metodologico fondamentale ha permesso il passaggio dall’ipnosi alla psicanalisi.

[6] Di che cosa? Né l’uno né l’altro lo possono sapere prima che questa “cosa” venga riconosciuta, senza essere tuttavia mai stata conosciuta.

[7] Il colloquio è uno strumento psicoterapeutico, non psicanalitico. Nemmeno i cosiddetti “colloqui preliminari” in realtà lo sono.

[8] Tuttora, il criterio per essere dimessi da quelli che si chiamavano “centri di igiene mentale”, è basato sul dare prova di saper “valutare criticamente” il proprio delirio.

[9] «[…] chi dice proiezione, dice infatti sostituzione della realtà soggettiva alla realtà tout court»; M. Bouvet, “La cure-type”, Encyclopédie médico-chirurgicale, «Psychiatrie», 1954, ripubblicato in Œuvres psychanalytiques 2, Résistances, Transfert, Paris, Payot, 1976, pp. 9-96 [trad. it. di A. Menzio, Opere psicoanalitiche, Vol. 2, Le resistenze e il transfert, Astrolabio, Roma 1975, pp. 10-83 – la cit. è a p. 41].

[10] G. Le Gaufey, Appartenere a sé stessi, cit. corsivi dell’autore.

[11] Richiamo l’attenzione su frasi che sento dire o scrivere molto spesso: «L’analizzante ha iniziato, o sta completando, o ha concluso il suo percorso analitico». Così come non c’è “colloquio”, non c’è “percorso” psicanalitico, salvo avere ben presente e fin dall’inizio ciò che si deve fare e verso dove si deve andare.

[12] «Infatti, checché se ne dica, nessuno può essere ammazzato (erschlagenin absentia o in effigie». S. Freud, Dinamica della traslazione (1912), in Opere di Sigmund Freud, vol. 6 (1909 -1912), Boringhieri, Torino 1974, pp. 523-531, trad. di Ezio Luserna.] «Liebesregungen der Kranken aktuell und manifest zu machen, denn schließlich kann niemand in absentia oder in effigie erschlagen werden». S. Freud, Zur Dynamik der Übertragung, G. W., VIII, p. 374. Erschlagen è tradotto nelle OSF con “battuto” e altrove con “giustiziato”.  Ricordo che nel medioevo, quando il reo riusciva a sottrarsi alla pena veniva impiccato in effigie.

[13] S. Leclaire, «La fonction imaginaire du doute dans la névrose obsessionelle», in Écrits pour la psychanalyse, 2. Diableries (1954-1994), Seuil/Arcanes, 1998, p. 51 (corsivi e traduzione miei).

[14] J. Lacan, Il Seminario, Libro III, Le psicosi (1955 – 1956), a cura di G. Contri, trad. di A. Ballabio, P. Moreiro, C. Viganò, Einaudi, Torino 1985, p. 356.

[15] In Dinamica della traslazione, Freud osserva che il “nevrotico” «è costretto ad avvicinarsi con rappresentazioni libidiche anticipatorie [fantasmi] ad ogni nuova persona che incontra». Vale a dire che sovrappone sempre un’immagine (una fantasia di godimento, un “fantasma” incestuoso) alla «nuova persona che incontra», riconducendole così tutte alle “imago parentali” originarie, ossia a un tipo o a un modello. La persona incontrata non è mai concepita nella sua alterità, ma è inclusa in una serie… di salme. Non vedo d’altronde altro motivo per cui Musatti abbia scelto –  ne sia stato o no consapevole – di tradurre ostinatamente Übertragung con “traslazione”.

Di male in peggio

Scrittore supremamente eccentrico, persino nel conto degli eccentrici”, come l’ha definito recentemente Massimo Onofri recensendo su “Avvenire” il suo “Viaggio di nozze- e sedazione ” edito da Archinto, a 91 anni Vittorio Orsenigo rimane una delle sicure  promesse della letteratura italiana. Un eterno “puer” con un grande avvenire dietro le spalle? Certamente, ma a patto d’intendersi: è infatti alle nostre spalle, schivando le secche delle mode imperanti, che la prosa di Orsenigo tesse i suoi complotti con il futuro. Lo dimostra questa scelta di prose brevi che fanno parte della raccolta inedita “Di male in peggio”. (R.B.)

 

Lacrime ospedaliere

 1

Delle lacrime ospedaliere importa poco a nessuno. Interessati alla spiacevole questione i cosiddetti pazienti che di pazienza, lo sanno bene medici e infermiere –  ne hanno poca. Del resto, se i medici si lascassero prima impressionare e poi sviare dalle corruttive lacrime di chi giace nei letti di corsia o in quello delle camere singole pagate a caro prezzo dal paziente facoltoso o nemico della compagnia, a fronte delle ineludibili regole del mercato, il loro contributo alla sanità dei corpi e delle menti sarebbe compromesso in forme temibili e nemiche della Società.  Figuriamoci dell’etica.

2

Scuole, abitudini, frequentazioni: i ragazzi che lavorano nella bottega di Giotto o in quella di Cimabue, imparano: a volte Giotto e Cimabue concedono loro di dare gli ultimi tocchi allo sfondo.

Controvoglia si frequenta la scuola, dell’Ospedale s’incorporano nel corpo del paziente riluttante abitudini, odori, orari e tutto il resto. S’impara a decifrare il linguaggio dei medici e quello delle infermiere, diversissimi fra loro come il dialetto siracusano e quello di Padova: il neo-Archimede e il neo Sant’Antonio.

Le infermiere di notte sono bravissime nei sussurri di conforto: se il paziente è sordo o sordastro non capisce tutto ma è bravissimo a percepirne l’attenzione affettuosa. Così, per riconoscenza, finge di non aver perso una sillaba di quel che gli hanno detto infilandogli o sfilandogli l’ago della flebo.

Ieri notte la nuova infermiera di notte si è chinata sul paziente ed ha sussurrato sul gutturale. Il paziente che da sempre vede sempre nero nelle faccende del mondo immagina subito la sua storia: tumore alla laringe, corde vocali semi distrutte: quel tono di voce, –ormai, è quanto resta alla poverina per comunicare.  Non essendo benestante, per sopravvivere accetta i turni di notte.

Stacca alle sei e trenta del mattino quando albeggia e l’Ospedale è già colmo di suoni: entra, mi saluta con la voce di chi doppia la donna fatale della commedia americana. Chiede come va, sorride, dice che la giornata è calda ma bellissima.

La notte sussurra sul gutturale per non disturbare i dormienti

Vittorio Orsenigo
Vittorio Orsenigo

 

Tordo balordo

La divulgazione scientifica qualche volta sembra un mostro incretinito e pretenzioso che, ad uso del perfetto cretino, ti riempie la testa di cose mezzo vere, mezzo false e, quasi sempre esagerate, sempre lì per involarsi, abbandonare la sfera terrestre con la sua beata atmosfera (sennò come respiri?) e andare in giro nello spazio con sosta d’obbligo, nostro satellite. La luna dei poeti e dei divulgatori scientifici –  spiace dirlo –  fanno a pugni ma poi, dopo essersi spaccato reciprocamente qualche dente e reciprocamente rotto il setto nasale come messo in evidenza dagli sceneggiatori del West perduto e bramosamente cercato, si abbracciano virilmente e tornano ad essere amici.

Nel lavoro di ogni divulgatore scientifico spararle grosse fingendo di raccontare la verità nuda e cruda è assolutamente normale, anzi, assolutamente necessario. Ogni clan ha le sue regole, la sua cultura, i suoi fuochi tribali, eccetera.

Quel che manca, in ogni caso, è la testimonianza diretta. Purtroppo, la realtà fa questo ed altro per rendere amaro anche il dolce più dolce e squisito nella sua squisitezza: con le sue verità vergognosamente esibite tarpa le ali e, quando ci riesce, pratica la castrazione.

Premessa lunga, lo so, ora torno al “Tordo balordo”. Era per me quel che – per voluta mancanza di precisione –  chiamiamo una figura retorica dietro cui si nascondevano troppe cose. A me e a mio fratello piaceva associare l’immagine dell’uccello tordo ambito dai gestori dei paretai e dai loro concorrenti cacciatori autorizzati o di frodo (alla fine tutto finiva nel carnaio) a quella di un idiota patentato da temere oppure odiare. La vita e le circostanze ne combinano di guai, formalizzarsi è ridicolo.

Sto scrivendo del “Tordo balordo” e della testimonianza oculare perché ieri, qualcosa ha urtato dall’esterno il vetro della mia finestra. Sul momento non ci ho fatto caso, avevo ancora sonno ma, in tarda ora canonica sono andato a vedere scoprendo che si trattava per l’appunto di un Tordo insolito e, per l’appunto, balordo volatore notturno. Balordo o, a dir poco incauto.  Il tordo non è un uccello notturno come il pipistrello portatore di radar che della luce non ha affatto bisogno.

Il tordo morto era bellissimo. Bellissimo ma, ma come succede a ogni esser privato della vita, rigido e molto sulle sue.

L’ho pianto e compianto. Lo piango e lo compiango anche in questo preciso momento.

  

 

Giovanile inadeguatezza

Inadeguatezza o meglio colpevole ingenuità, scemenza allo stato puro. Nel lontano 1954, dopo tanti morti civili e militari, ricordo di avere offerto a un giornale del Partito Comunista una mia puntigliosa relazione sul tema, sempre urgente, delle Sirene.

Non di quelle che suonavano quando gli aerei alleati carichi di spezzoni incendiari e di bombe   stavano per sganciare il loro carico su Milano ma del genere sessualmente ben dotato e voce intonata capaci d’incantare i marinai e trascinarli con loro negli abissi.

Per amarli, per divorarli, per farne che?

Tema, dal mio non condiviso punto di vista, di stretta attualità.

Senza commenti la mia proposta editoriale è stata rifiutata

La gente è proprio strana.

 

 

Poetesse

Ce n’è una che, svelta come poche delle sue colleghe, d’estate va in campeggio: versi a parte e come fra parentesi, a causa del turismo estivo sempre più inquinante, racconta di aver dedicato buona parte della sua rude vacanza a ripulire l’area intorno alle tende da escrementi d’ogni genere: dai plastici, ai cartacei, agli umani che si distinguono facilmente dagli analoghi imputabili a capre, pecore, cervi e caprioli.

 

 

Anonimo

Anonimo per modo di dire visto che ha un nome e cognome molto precisi e da nessuno, almeno sino ad ora, messi in discussione: il mio.

Sono dunque io a passare brutti giorni e notti ancor più brutte in una camera ospedaliera dotata, lo ammetto, di ogni sconfortante comfort ma non puoi fare un salasso a una pietra o a una rapa e di ciò, sarei troppo stupido se mi lamentassi.

Purtroppo Il sonnifero che mi somministrano alle ore ventuno e trenta augurandomi buonanotte è portatore di sonno come può esserlo un gelato al limone o un blando decotto alla camomilla. Tuttavia il decotto alla camomilla, con il suo buon profumo aveva, un tempo ormai lontano, il merito di ricordarmi l’infanzia, da tanti odiata e da me amatissima, tanto è vero che mi è non poco seccato nel crescere, nello sviluppami, nel diventare adulto, nel dover lavorare e tutto l’abbondante resto esaltato, ai due estremi della fune, tanto dai buoni scrittori e poeti (scrittrici e poetesse) che dai ribaldi sceneggiatori della televisione.

I dolori fisici son quel che sono ma, a volte, forse per riprendere fiato e tornare poi ancor più ferocemente alla carica, si assentano brevemente, probabilmente per fare pipì.

Età, gravità dell’intervento chirurgico e così via fanno di me quel che vogliono: non sarà granché ma è innegabile che ci sappiano fare.

All’una del mattino e in attesa dell’alba che non ha la minima fretta di venire e se la prende comoda, non so bene perché ho pensato ai Cosacchi del Don, al Tamarindo Erba (ormai da pochi o nessuno conosciuto malgrado i suoi notevoli meriti) e al cosiddetto e smunto, Equo Canone.  Un terzetto davvero male assortito.

 

 

Maneggioni

Maneggia una clava da bruto: presto sarà un assassino. Maneggia la penna, è uno scrittore a tutti gli effetti.

Agosto in Val di Non per me gelido ma c’è chi va in giro con i calzoni corti da mare, Bermude o semi ‘Bermude e una camicia leggera aperta sino al quarto bottone. Sporgono peli.

Ieri, alle tre del pomeriggio, il figlio dell’albergatore che vive in un’antica casa del cinquecento con la base a zampa d’elefante si è rotto la testa andando contro il muro di pietre con il suo pacifico scooter ed è morto, dicono, sul colpo

Funerali rapidi.

Il giorno dopo, al riparo da questi curiosi rigori invernali fuori stagione, Gran Coro degli Alpini. Canzoni vecchie, anche di montagna, ma non solo. Ingresso libero.

 

 

Antropofagia virtuale

Così come passeggiando ci s’imbatte talvolta in un antico compagno di banco il cui volto non è del tutto cambiato rispetto a quello che era ben vivo e frizzante nella nostra memoria, per cose da poco ma strettamente connesse all’età giovanile piena zeppa di deliziosi inciampi, leggendo ci s’imbatte sia nei personaggi del libro, sia nelle fedeli parole accucciate ai loro piedi che, nella partita sarebbe sbagliato considerare alla stregua di semplici ‘comprimarie’. Il loro nome in cartellone spicca in forme tali da non poterle facilmente dimenticare.

Una delle tante (incontro casuale, niente graduatorie), è divorava e, a divorare non è una fiera o un affamato umano ma chi, da lettore, non bastandogli quanto in concreto sta facendo, preso da furore, divora, sbrana, dilania.

Chi si trova d’improvviso al cospetto di quella parola ed è nello stesso tempo un fantasista involontario poco disposto alla moderazione, vede distintamente di fronte a sé l’occhio di Robinson Crusoe nascosto dalle frasche dell’isola tropicale intento a spiare tremebondo l’arrivo sulla spiaggia dei cannibali.

Peccato che – salvo poche e meritevoli eccezioni – con l’andare del tempo si attenui nel lettore la spinta a divorare.

Con l’andare del tempo (lo vediamo nelle grotte). la goccia scava la pietra, ma, purtroppo e in altri ambiti, fa di peggio.

Recensione a “La panchina senza angeli”

Bastano i primi quattro versi di Insalata Materna, la prima poesia del nuovo libro di Filippo Parodi, La panchina senza angeli, per essere travolti in un turbine di parole, pensieri, domande «Mi desti alla luce,/ anzi no,/ tu mi gettasti nella/ tenebra». Il tondo e il corsivo del testo non sono secondari, anzi. Tutta la poesia, infatti, è alternata da versi in tondo che affermano e testi in corsivo che smentiscono in alcuni casi con rabbia ciò che è stato affermato in precedenza.

Non solo nella parola ma anche nella grafica di questo immaginario dialogo con la madre che diventa un auto-interrogarsi, quindi, emerge lo stato d’angoscia esistenziale dell’autore, laureato in filosofia e alla sua seconda opera poetica. Non è secondaria nella poesia di Parodi la sua cultura filosofica che emerge già nei primi versi citati e, in particolare in quel ‘gettasti’ che ricorda l’essere gettati nel mondo di Martin Heidegger in Essere e Tempo. Il concetto d’essere gettato nel mondo è ribadito con versi violenti «… tu mi hai posato sopra/ l’erba di un/ leggero/ giardino e/ mi hai insegnato a /parlare e a/ riconoscere…/ Piuttosto tu mi hai/ ripetutamene,/ balsamente/ assassinato». Nei versi di Parodi c’è oltre al pensiero anche una ricerca della parola che in alcuni casi viene usata in modo dissacrante come nella chiusura di Insalata Materna «Chiudi/ quella/ stronza/ bocca».

La panchina senza angeli - Copertina
La panchina senza angeli – Copertina

E la bocca è la ‘protagonista’ del pometto Le bocche di Hans, un lungo racconto in cui Hans «Cercava di spiegarmi quanto/ fosse faticoso e / difficile per/ lui/ provvedere a sfamarle». Le bocche vogliono essere nutrite, ma quella dell’amore «non si sentiva mai/ sazia e/ appagata…», quella della concupiscenza «sapeva camuffare». Hans parlava anche della bocca della tristezza e della solitudine «… avida,/ accanita,/ velenosa, mal/ disposta a rapportarsi/ con le altre bocche./ Si tuffava nella mischia e/ beccava/ impazzita,/ spolverava anche gli/ scarti,/ non aveva alcun pudore!». E poi di quelle della rabbia, dello sgomento, della consapevolezza, della fede, del mistero, dell’attacco di panico. Hans, nel pometto, racconta tutto ciò mentre il poeta fuma una Camel. Anche in questi versi Filippo Parodi, proprio come in Insalata Materna, percorre i misteriosi sentieri dell’inconscio per tentare di arrivare all’origine dell’angoscia. Lo fa attraverso immagini, spesso terrificanti, che non concedono nulla e che costringono anche il lettore a percorrere quella strada difficile dove ci si può anche perdere.

Pointless ribadisce con immagini oniriche il male di vivere, l’inadeguatezza, l’essere inutile: «Abito/ un/ gradino/ che/ si/ è/ scolato/ il sole/ l’assurdo/ organismo…» e poi: «Io/ alloggio/ nell’infanzia/ tanto/stretta/ e/ imputridita/ nell’orgasmo/ nell’accesso/ dentro/ al bar che si accartoccia…» e ancora: «io/ abito/ il mio/ abito/ e/ è/ una gran/ fatica/ con la/ porta/ che/ ogni/ giorno/ si chiude…».

C’è poi Diverso, un testo intenso come gli altri ma al quale il poeta è riuscito a dare un ritmo che ricorda le ballate dei menestrelli: «Buongiorno a te,/ Diverso:/ Ti guardi nello specchio./ Già alle prime luci/ ricerchi il tuo riflesso…». Tutto è diverso quando non si riesce a stabilire un rapporto con gli altri, anche i gesti quotidiani, apparentemente banali come quello di bere un caffè: «La mattinata muore./ Già quasi ora di pranzo./ Dov’è che mangerai?/ Ah è vero, salti i pasti./ Ok, prendi l’ennesimo/ caffè esistenziale./ Ci pensi tu a macchiarlo/ con la Diversità».

Filippo Parodi è giovane e nelle sue poesie utilizza spesso espressioni che appartengono alla sua età, al suo mondo. Una scelta forse neppure consapevole ma che rende la sua poesia onesta come la intendeva Umberto Saba secondo il quale l’onestà poetica consiste nella ricerca delle verità interiori mentre le apparenze e i manierismi devono essere banditi perché il linguaggio deve essere chiaro e collocarsi nella cornice della vita reale.

Ottobre 2017

Pensieri a colpi di frusta

Torna, Pirandello: tutto è perdonato! Con i suoi giochi dell’essere e dell’apparire, le identità multiple, l’inconsistenza della realtà e la realtà della finzione, Luigi Pirandello parrebbe davvero l’autore ideale nell’era di Facebook e di Twitter, un guru capace di traghettare le sue (e nostre) inquietudini esistenziali dal cuore del canone novecentesco al cuore di silicio della Grande Rete che oggi consente a tutti di essere “uno, nessuno e centomila”.

Copertina di 'Satire per il nuovo millennio gastronomico'
Copertina di ‘Satire per il nuovo millennio gastronomico’

Nel caos identitario dell’era elettronica l’inquieto gioco di maschere tra autore e personaggio è oggi più che mai in grado di produrre esiti fruttuosi. Già Raymond Queneau, col suo Icaro involato, ci aveva abituato a un personaggio che scappa dal romanzo e va in giro per conto suo; ma adesso succede qualcosa di diverso: il personaggio rivendica l’autonomia dal suo creatore per diventare autore a sua volta.

«Qui giace nel sacello/racchiuso in un fornello/il grande chef Bottura/ sotto un prato di verdura/ (…) Belzebù ha impanato/ la sua anima “divina”-/Sì signori, ha gran peccato/ha stravolto la cucina»… Prendete questi versi volutamente in stile Corriere dei piccoli:  la cosa davvero curiosa è che a dettare il Poemetto per far rinsavire lo chef Massimo Bottura dopo la sua salita nell’Olimpo dei cuochi sia stato quel bello spirito di Pietro Gramigna. Il nome non vi dice niente? Male, malissimo. Significa che non avete letto Il tramonto sulla pianura, il romanzo di Guido Conti edito una dozzina d’anni fa da Guanda, dove il salace Pietro Gramigna detto Frusta figurava come uno dei personaggi principali. Confessiamolo: in epoca d’imperialismo gastroestetico, con i cuochi, pardon, gli chef eletti ad autentici guru nelle più svariate branche del sapere (branchie se specializzati in pesce), versi come questi danno un indubbio piacere liberatorio: «E mangiare dal gran cuoco/ fa fighetto in società/ se cucina anche in loco/ fa più grande la città». E giù ancora frustate: ««Io sarò tutto festante,/ e contento è Belzebul /se il tuo nuovo ristorante/tu lo apri a Istanbul».

Non è la prima volta che Frusta usa Conti come medium, dettandogli dall’aldilà versi corrosivi come quelli che ho citato. Essi fanno parte delle Satire per il nuovo millennio gastronomico pubblicate in tiratura limitata da Libreria Ticinum editore, dove gli strali di Pietro Gramigna detto Frusta, così si firma per esteso l’autore, non risparmiano altri celebri cuochi come Gianfranco Vissani e Alain Ducasse, per poi dilatarsi dalla gastronomia alla politica, alla letteratura (gustoso l’ epitaffio dedicato a Baricco) e all’universo mondo, come si conviene a un poeta satirico della schiatta verace di Giovenale e Marziale.

Con la differenza che Giovenale e Marziale sono esistiti davvero, mentre Pietro Gramigna se l’è inventato quell’irresponsabile di Guido Conti. D’accordo. Ma prima d’impiccarlo in effigie bollandolo come falsario e malfattore, pensate a quella gattamorta di Giulietta, l’immortale eroina scespiriana, che dalla sua Verona continua a rispondere ogni giorno agli innamorati di tutto il mondo grazie a un pool composto da una cinquantina di segretarie delle più svariate nazionalità. E che cosa dovremmo dire di Michael Chabon, premio Pulitzer 2001 con Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, se non che è un vampiro pronto a dissanguare le sue stesse creature? Chabon ha infatti sceneggiato e pubblicato a proprio nome i fumetti dell’Escapista, una sorta di Houdini ideato dai protagonisti del suo romanzo, che a questo punto sarebbero autorizzati a chiedergli i diritti d’autore.

Non si tratta d’un semplice rovesciamento di ruoli. Chabon, Giulietta e Frusta sono sintomi seppure assai diversi d’una stessa sindrome epocale: il trionfo dell’Ibrido, effetto di una “realtà aumentata” sempre meno distinguibile dai suoi simulacri. Nel gran bailamme delle identità mentite o contraffatte è perciò ancor più importante non dimenticare il profetico ammonimento di Karl Kraus: «Non c’è dubbio che i Beethoven vengano diminuiti se dei caffettieri viene detto che sono creatori». Per tacere dei cuochi.

Poesie

La poesia che ho pubblicato

La poesia che ho pubblicato
Era la stessa del foglio che ho lasciato
scritto in un angolo,
per anni dentro un cassetto.
La poesia che ho pubblicato
Era quella che il mio cuore
ha aperto sul mondo,
come un melograno maturo
col riso spalancato
in grani lucenti e rossi,
gustosi e acerbi.

Ho corretto qua e là,
gli errori, la lingua, la forma,
la grammatica.
È rimasta intatta la linfa
vitale che ha mosso la libertà
di parlare, agire, pensare,
sognare, partire, tornare, restare.

Immutata la voglia bruciante
del mio cuore di dire a voce alta,
pur sussurrando,
le cose che ho scritto
su quel foglio strappato,
e che dirò.

Parole impresse nel primo inchiostro
che desse segno,
pietra o telefono che ho trovato.
In tutti questi anni,
in tutto questo tempo,
so per certo che,
grazie alla poesia che ho pubblicato,
non è affatto cambiato il mio cuore,
sei tu a esser cambiato, o lettore.



L’Africa
(Scritta dopo l’attentato di Barcellona, 18/08/2017)

L’Africa è nel terrore.
Nel terrore di vivere e morire,
Nel terrore di partire e tornare.
Nel terrore dell’Africa
C’è il terrore dell’Occidente,
Nel terrore dell’Occidente
C’è il terrore dell’Africa.

Il terrore della presenza,
il terrore dell’assenza.
Quanto Occidente c’è in Africa?
Quanta Africa c’è in Occidente?
Dell’Occidente è il terrore dell’assenza,
Dell’Africa è il terrore della presenza.
Eppure l’Africa è assente
L’Occidente è presente.

Perché l’Africa è assente dalle Borse mondiali?
Perché in Africa non si corre il Gran Premio di Formula Uno?
Le macchine più veloci al mondo sono fatte,
e corrono, col petrolio africano,
e in Africa non si corre un Gran Premio!
Sono gli africani il petrolio dell’Africa.
Fuggono dalla schiavitù di casa
per diventare schiavi dell’Occidente.

Col terrore negli occhi
di chi ha conosciuto il terrore,
manifestano così la loro presenza al mondo.
Il terrore negli occhi sotto gli occhi
di chi è assente in casa propria.

Perché, allora, alla presenza dell’Occidente
l’Africa è assente?
È vero, è giusto – dirai anche tu –.
Eppure queste cose le dico io,
ma dovrebbe dirle un africano in Africa,
e con lui molti africani in Africa.
Io dovrei sentirle pronunciate da loro,
anche fuori dall’Africa.

Non tu, ma io, dovrei
avere il coraggio di ascoltarle qui
pronunciate da loro,
per dargli ragione.
Tutto questo nonostante i loro morti,
nonostante i nostri morti.



Devo tacere…

Devo tacere, lasciarla parlare,
Fermare il moto del mio cuore,
Saper ascoltare, smettere di dominare,
di aggredire il mondo con verbosità convincente,
di ammiccare alla comprensione che comprende,
evitare di voler possedere quei segreti inconfessabili
che lasciano senza fiato, col tambureggiare ripetuto
di una lingua indolente e ribelle.

Non pretendere, ancora, di arrivare alla mente,
per vedere lei semplicemente che parla,
gesticola, sorride, si ferma per darmi un bacio d’improvviso.
Vederla muoversi elegantemente
tra le vie di questa città nuova,
districarsi tra politica, storia dell’arte,
immigrazione, trucchi e alta società.

Mai avrei pensato di incontrare la parte
migliore di me facendola semplicemente tacere,
ascoltare lei come un dono del cielo,
mentre guarda l’infinito del mare con l’infinito dei suoi occhi,
persi tra le sfumature dell’ultimo colore al tramonto,
quando il mare s’infrange rumoroso di fronte a noi;
sentirla esultare davanti a una stella cadente,
sotto il cielo stellato, guardato con gli stessi occhi,
una donna all’altezza del cuore,
cui segue silenzio per esprimere il Desiderio segreto.
Proprio lei non sa che questo è sempre stato
l’inconfessabile mio segreto:
scrivere righe profetiche accanto a lei.

Rima & Rhythmus musicae nella Comedìa

Il ritmo definisce quasi interamente la propria musica. Ritmo che –anche nella poesia dantesca – serve alla musica del testo: canto, cadenza d’intonazione, respiro creativo del poeta, equilibrio della composizione stabilito da pause e accelerazioni, attraverso l’endecasillabo suggerisce il fluire del tempo, stabilisce il susseguirsi continuo di versi in terza rima.

Terza rima di endecasillabi che, nella Divina Commedia, determina la prima azione del ritmo in quel testo. La stessa radice etimologica della parola rima pone davanti a un bivio: considerare la rima dal punto di vista metrico o dal punto di vista ritmico? Dal punto di vista della metrica o della fruizione musicale?[1] A partire dall’ultima vocale tonica, nella parte finale tra una o più parole, o versi, la rima possiede un’identità di suono e di accento che determina l’andamento ritmico e melodico del testo.[2] Il ritmo è, dunque, parte integrante di una funzione costitutiva, o qualità, della poesia che la critica spesso studia nel campo dell’analisi metrica, ma che all’origine delle lingue volgari ricadeva più propriamente nel campo musicale, dal momento che la poesia stessa rientrava nell’ambitus artis musicae.[3]

L’attenzione musicale espressa da Dante[4] ha forse più che il sapore di una ‘consapevolezza’ della critica moderna evidenziata principalmente con funzione ‘retorica’. Il fatto – per esempio – che il sirventese e la canzone fossero musicati all’età della Commedia, suggerisce certamente la funzione di un metro, ma dà anche conto della necessità che fu di Dante di creare un metro nuovo per un poema nuovo: poema classico nella forma e nello scopo, ma contemporaneo, pregno di una valenza musicale, più legata ai chansonnier medievali francesi che non ai ritmi declamatori di Virgilio.[5]

Ritmo musicale

 

L’aspetto della cadenza ritmica della terzina, dunque, la perfectio rhythmica della musica, aiuta a capire quale fu la portata di tale invenzione per un poema morale, epico, cronacistico, attraverso la sua funzione mnemonica, evolutiva, narrativa, musicale, orale, teologica, sillogistica, determinante per lo svolgimento della fabula poetica.

Fondamentale è analizzare il ritmo per definire la distribuzione dell’accento, il numero delle sillabe del verso, la posizione per cui anche il metro, alla fine, stabilisce quel ritmo. La distribuzione dell’accento metrico,[6] casi canonici a parte, che investono il modo e cioè il carattere del verso, fa sì che l’endecasillabo offra varie soluzioni ritmiche. Ci si richiama ad accento variabile ma, per quanto riguarda le possibili modulazioni dell’accento secondario, la collocazione finale spetta all’esecutore.[7] Il Fubini in particolare ha sottolineato la contrapposizione tra lettura ritmica, o lettura metrica, e lettura ad sensum. Riteniamo che una soluzione di compromesso sia adottabile, per ciò che pare insanabile nella distanza di posizioni tra studiosi di metrica classica e gusto recitativo di dizione dell’arte moderna. Gli uni e gli altri pare si discostino contrapponendo tra loro scelte di gusto a scelte di metodo.[8]

Parliamo di una lettura ritmica che consenta di percepire la regolarità metrica dell’endecasillabo scandito in terzine, ma che non smetta di considerare la pausa a fine verso, capace, da sola, di suggerire il tempo, il respiro semantico dell’intera frase. È una pausa musicale indispensabile, quella, utile alla comprensione del testo, per una lettura rispettosa della sua ritmicità. In tal modo si eviterebbe, per esempio, che il senso venisse soffocato dall’esasperazione timbrica, e che proprio il ritmo, di fatto, alla fine non conceda diverse significative varianti. Così si considera la ritmica evitando di distruggere il significato. All’interno di una lettura ritmica, mentre ci si abbandona al motivo di una lettura a voce alta, il senso del testo si recupera esattamente per via di quelle distanze architettonicamente cadenzate, già disegnate dall’autore, in sé già rivelatrici di significato.

C’è poi da considerare che anche le pause sistematiche in Dante svolgono un ruolo ritmico-semantico. Vengono applicate differentemente a seconda del luogo e dello scopo della funzione narrativa che ricoprono. Qualcosa di simile accade proprio col ritmo, quale varietà del contorno accentuale che dal metro interagisce col contorno prosodico. Metro e lingua, così, s’impongono l’uno sull’altra, creando una complessità timbrica e sonora che per esempio nell’Inferno – sono segno di ricerca delle rime difficili, di rime infernali, secondo la convenientia d’ottenere anche per via ritmica le rime “aspre e chiocce” (Inf. XXXII, v. 1), così come in Purgatorio e Paradiso gradualmente troviamo l’opposto rispetto alla tematica di quelle Cantiche.

Per l’Inferno, in particolare, Marina Nespor individua un ritmo astratto di tipo giambico. Schema formato da un’alternanza di posizioni metriche in tesi (debole) e posizioni metriche in arsi (forte).[9] Come esempio di lettura ritmica prendiamo un passo di Inferno, con quattro posizioni ritmiche principali, non necessariamente combinate con quelle sillabiche.[10] Solo dopo aver assegnato lo schema ritmico notiamo alcune importanti caratteristiche: esistono delle identità ritmiche, dei patterns. Si tratta di isole ritmiche, o nuclei ritmici, che nel brano si ripetono in diversi luoghi, e che qui per esemplificazione li abbiamo individuati con due colori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si vede, anche una breve analisi di questo tipo porta a diversi interrogativi e a varie soluzioni rappresentative, in una lingua costruita attraverso l’intreccio consapevole di suoni e timbri che, pur in un solo metro, dia svariate ragioni comunicative utili alla propria causa: per cui suono e concetto perseguono un loro unico fine.

BIBLIOGRAFIA

  1. Alighieri Dante De Vulgari Eloquentia in Le Opere di Dante, a cura di Pio Rajna, Società Dantesca Italiana, Firenze, 1960.
  2. Alighieri Dante, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1994.
  3. Beltrami Pietro G., Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002.
  4. Fubini Mario, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962
  5. Nespor Marina, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994.
  6. Terni Clemente, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975.

Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[1]   “Altro è il ritmo preso in considerazione nei manuali di metrica, che di necessità prescindono dalla poesia in concreto, altro è il ritmo reale, che risulta da tanti elementi, dalle parole, dal loro peso, dalla loro estensione, del loro colore, dai loro suoni, dalla loro varia disposizione, e così via; bisogna però sempre tener presente che solo per necessità di analisi parliamo di elisioni, cesure, ecc., e che questi elementi non esistono uno per uno: ciò che esiste è il ritmo; isolando quegli elementi distruggiamo la poesia”, Mario Fubini, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962, pag. 45. Si veda anche Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[2]    Dal francese antico, risme, e il provenzale rim o rima, la funzione del suo significato originario si ricava dal latino rhythmus. Dove rhythmus della poesia metrica latina era considerato il rapporto di equilibrio e alternanza tra sillabe lunghe e sillabe brevi, che nella poesia latina medievale, veniva detta appunto rhythmica. Indicando, cioè, le forme che vanno a perdere dinamica quantitativa, per rispettare altro tipo di parametri: numero delle sillabe, distribuzione dell’accento e rima, appunto. Si veda Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 75.

[3]    “Il rapporto fra metrica e musica nasce storicamente dal fatto che in origine (un’origine ripetuta più volte nella storia) i testi in versi erano tali perché eran testi per musica: si pensi quante volte la poesia è stata detta canto, anche quando non era per musica, e quante volte è stata effettivamente cantata. Le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica; ma la metrica, come la musica, organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni (non puri suoni, ma segni linguistici, fatti inseparabilmente di suono e significato), mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora.”, Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 13.

[4] “Poesim (…) nichil aliud est quam fictio retorica musicaque poita”, < La poesia altro non è che una finzione costruita sulla retorica e sulla musica > (De vulgari eloquentia, II, IV, 2).

[5]    Dante compose un sirventese enumerativo, dedicato alle trenta più belle donne di Firenze, fatto certamente legato alle sue frequentazioni culturali in ambito musicale. Ma una delle argomentazioni portate avanti dal Fubini, sulla scia del De Lollis, è che il sirventese sia genere letterario meglio accreditato a inquadrare da vicino la costituzione genetica della terzina. Il sirventese era una forma di componimento musicato, che si adattava alle circostanze d’occasione, poesia di attualità, d’invettiva, con un metro pressoché identico a quello della canzone. Anche la canzone, stando alle affermazioni di Dante, era componimento che aveva forti attinenze con la musica, dato che – dopo che il poeta aveva fatto il lavoro di ‘armonizzare’ il testo, per renderlo più fruibile non solo all’ascolto, ma anche al canto – poteva essere accompagnata d musica musicata. Da questo tipo di opera derivava il suo nome: canzone. Ma nel De vulgari eloquentia troviamo importanti parole di teoria letteraria di fondamentale rilevanza per questa argomentazione. Sono parole dedicate alla descrizione del metro della canzone, e in particolare quando si parla del piede: “E se capita che nel primo piede ci sia una terminazione priva di rima, bisogna assolutamente assegnargliela nel secondo. Se invece ogni terminazione del primo piede ha qui stesso il suo accompagnamento di rima, nell’altro è lecito riprendere o invece rinnovare le rime, come si preferisce, o totalmente o in parte, purché si conservi in tutto e per tutto 1’ordine delle precedenti: mettiamo, dati piedi di tre versi, se nel primo piede le terminazioni dei versi estremi, cioè il primo e 1’ultimo, si rispondono, è necessario che si rispondano anche le terminazioni alle estremità del secondo piede; e quale si presenta nel primo piede la terminazione del verso mediano, voglio dire accompagnata o scompagnata, tale dovrà riaffacciarsi nel secondo: e la stessa regola va osservata per i restanti piedi.”, Dve, II, XIII, 10. Riteniamo che qui si possa individuare, in embrione, l’origine della genesi della terzina dantesca. È questo forse un passo che pertiene propriamente alla fase di elaborazione concettuale e culturale della terzina, anche se, in questo stadio, ancora inconscio.

[6]   Detto ictus, in metrica differente dall’accento dinamico, o d’intensità – nell’endecasillabo si basa su due tipi di schemi accentuativi fondamentali che determinano il profilo ritmico del verso: detti a maiore ed a minore. Il tipo a maiore è l’endecasillabo con l’accento principale sulla 6° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente solenne. Il tipo a minore è l’endecasillabo con l’accento principale che cade sulla 4° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente più pacato. Entrambi, nella loro nomenclatura, ricordano in musica il modo delle tonalità maggiore o minore.

[7]    Decisivo, dunque, il tipo di lettura scelta dal lettore, il quale decide gli spostamenti e determina il profilo ritmico del verso, pur avendo i punti di riferimento negli accenti primari. “Gli altri accenti sono secondari rispetto al metro, ma sono altrettanto importanti per il ritmo del verso; la disposizione di tutte le sillabe toniche o atone, soprattutto nei versi ad accentazione variabile, è anzi il primo strumento in mano al poeta per l’elaborazione ‘musicale’ del discorso”. Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag 54. La varietà dell’endecasillabo è elogiata da Dante nel De Vulgari Eloquentia per quella flessibilità determinata dal tempo e dalla durata dell’esecuzione del verso. Una lettura in grado di restituire la qualità musicale del testo, insieme a quella ritmica del metro, è certamente la recitazione a voce alta, all’interno di una regolarità metrica che di per sé è già musicale.

[8]    In maniera particolare nel Medioevo si posero le basi per la futura terminologia metrica, quella che noi oggi, seppure con una consapevolezza differente, correntemente utilizziamo. In questa esposizione veniamo confortati dalle applicazioni della musicologia allo studio letterario. In uno studio non recente, del 1975, infatti, Clemente Terni, musicista e musicologo sensibile alla lezione del Contini, aveva individuato un metodo prettamente musicale per determinare i modi ritmici di tutte le varietà tipiche della principale versificazione italiana. “In una prima fase vi sarà distinzione tra sillabe accentate con accento di diverso tipo, ma subito dopo si osserverà che solo alcuni accenti dànno ritmo alla frase. Questi accenti, che saranno poi chiamati accenti ritmici, usurperanno il ruolo di kyrios tonos all’accento acuto e gli accenti grave, acuto, e circonflesso resteranno alla grammatica.” Clemente Terni, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975, pag 14. Basandosi sullo scritto di un autore del V secolo d.c. (De nuptiis Philologiae et Mercurii, di Marziano Capella, nel quale si evidenzia una particolare attenzione alla caratteristica musicale del linguaggio), Terni dice che in questa fase viene elaborato il naturale processo da una prosodia classica basata sulla quantità vocalica alla qualità sillabica, solo grazie al mantenimento dell’apporto concreto della musica. Il passaggio dalla percussio all’accentus, dunque, da un fatto temporale a un fatto sonoro, è il marchio di un cambiamento epocale nella metrica e nella versificazione medievale: dalla classica, appunto, a quella volgare. Il numero sillabico determina, così, la collocazione dell’accento, il ritmo è equiparato a quello musicale, il fatto sonoro della rima ripetuta a fine verso acquista una valenza ritmica, e non solo melodica. Le opposte maniere versificatorie, prosegue il Terni, ricadono nell’ambitus artis musicae, “naturale humus della loro origine”. Ma Terni va oltre, attraverso l’associazione musicale del tetracordo prima e, dopo la lezione di Guido D’Arezzo, dell’esacordo, poi, ricava i modi ritmici della versificazione italiana a partire dalla distribuzione dell’accentus. Posti in relazione con la semiminima della scala diatonica naturale, presente tra il terzo e quarto grado e il settimo e ottavo, lungo cui l’accentuazione ritmica doveva essere più marcata. Le soluzioni ritmiche accordali arrivano a riguardare anche l’endecasillabo, e a tal proposito si formulano varie ipotesi perfino per una esecuzione ritmica delle rime dantesche della Commedia. L’endecasillabo, infine, a seconda della sua distribuzione accentuale, si può considerare un pentasillabo più un eptasillabo, congiunto o viceversa, così da ottenere, per parte ritmica, rispettivamente, un tetracordo più un esacordo, congiunto o viceversa. Riteniamo questo un importante lavoro nella ricerca filologica, per un terreno comune riconosciuto nelle varie epoche come sempre vivo tra musica e poesia. Significati e accezioni moderne ridotte oggi a settori, rispetto al loro campo di applicazione originario.

[9]   L’analisi della stringa ritmica prevede di considerare una griglia metrica astratta, in grado di inglobare la maggioranza dei casi regolari, e sopportare le modificazioni che il materiale linguistico impone, per variatio e accidente, al materiale metrico: “Il primo vantaggio consiste nel rendere conto del fatto che i versi uniformemente giambici sono i più diffusi nella Commedia. Il secondo vantaggio è che si rende conto del fatto che anche negli altri casi, di endecasillabi che non sono completamente giambici, le posizioni pari sono di preferenza forti e quelle dispari deboli. Presumendo che l’endecasillabo abbia solo una posizione obbligatoriamente forte, la decima, e che ci siano diverse possibilità non connesse tra di loro per le altre posizioni, non si rende conto di queste due caratteristiche fondamentali dell’endecasillabo dantesco. Il terzo vantaggio di questo schema è che da esso, con poche regole ben definite si possono derivare tutti i versi dell’Inferno e che tali regole forniscono una misura della tensione o complessità: un verso completamente giambico avrà, a questo livello, tensione zero, e ogni deviazione da esso (espressa da una regola) aumenterà progressivamente la tensione”, Marina Nespor, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994, p. 298. Il ritmo metrico astratto è collocato dalla Nespor al secondo livello della griglia metrica, quella dei piedi metrici, mentre ciò che rende giustificazione del ritmo dell’endecasillabo si registra al terzo livello della struttura metrica di un’analisi fonologica, quello degli emistichi. Sono infatti queste le porzioni di verso che hanno le prominenze accentuali maggiori o minori, quelle che definiscono la stringa ritmica del verso, che stabiliscono la distinzione del modo a maiore, a minore, basano sulla lunghezza temporale dell’intero verso, e sul contorno accentuale dell’intera frase.

[10] LEGENDA: Le posizioni metriche che ricevono l’accento ritmico sono rappresentate da *; le posizioni isolate sono rappresentate da °, e indicano una pausa verbale che occupa a tutti gli effetti una posizione ritmica, rendono conto sia della pausa di fine verso, che – dove è concepita – della pausa della cesura a centro verso. Già il Sesini [1939] aveva chiamato questa pausa col nome ‘silenzio musicale’ e, anche egli, mentre studiava le caratteristiche dello scontro accentuale a centro verso in uno studio sul Petrarca, propese per una lettura ritmica di quei testi.

Barnum

Se al gigante pietrificato di Cardiff nessuno crede più

I baci appassionati a leoni della savana, gli abbracci a tigri e dromedari, le evoluzioni di acrobati e trapezisti, le gag di clown e attori, le parate trionfali di artisti inguainati in costumi che luccicano in un tripudio di piume di struzzo che sembrava senza fine, non ci faranno, mai più, compagnia.

Il circo Barnum, dopo 146 anni di attività, ha chiuso definitivamente i battenti.

Sembra una notizia fake. Invece è vera.

Nato nel 1872 come Museo dei Grandi Viaggi, Serragli, Carovane ed Ippodromi, rapidamente ribattezzato lo spettacolo più grande del mondo, mostrava da oltre un secolo i suoi prodigi artistici ad un pubblico di affezionati.

Phineas Taylor Barnum gli aveva dato vita dopo aver inventato l’American Museum e aveva portato sotto un tendone che sembrava uscire ogni sera come un coniglio bianco dal cappello di un mago, elefanti, cavalli, leoni, orsi, lo scheletro di Cristoforo Colombo, la sirena delle isole Fiji (un busto di scimmia legato alla coda di un enorme pesce), Joyce Heth, una donna di colore che dichiarava 161 anni di età e pretendeva di essere stata la nutrice del presidente George Washington, Buffalo Bill e Toro Seduto. Fra gli altri.

Barnum's Freaks
The ‘freaks’ at Barnum’s menagerie.

Nel terzo millennio, dopo diversi passaggi di proprietà, cadute e rinascite, ultimo rimasto nella sua categoria a muoversi su rotaia, il circo viaggiava su e giù per l’America su due treni da sessanta vagoni ciascuno. Proponeva 2 spettacoli differenti, organizzati in una doppia tournée che si esibiva ad anni alterni ma che incontrava sempre meno il favore del pubblico. Oggi al gigante pietrificato di Cardiff non crede più nessuno, di donne barbute ce n’è a volontà e i lillipuziani non vengono più considerati degni di nota, nemmeno dalle favole.

Per quanto la voce degli animalisti si sia levata, non senza ragione, contro questa incredibile arca di Noè, addomesticata a colpi di frusta, incatenata, imbellettata, stupefatta da lustrini e finimenti in lamè, al grido di battaglia “Bye-Bye Animal Abusers”, la storia del circo Barnum dovrà comunque essere consegnata ai posteri. Perché perdere del tutto questa esperienza significa perdere un po’ della nostra capacità di sognare.

YouTube può offrirci la registrazione dell’ultimo spettacolo che probabilmente, così, non potrà mai essere derubricata dalla memoria collettiva, né sfuggire all’incalzare del tempo. Ma le foto d’archivio teniamocele strette perché anche in bianco e nero raccontano una storia così affascinante che sembra a colori.

I 500 artisti l’ultima sera hanno pianto. I 100 animali rimasti forse no.

Sullo sfondo dell’arena, una volta spente le luci, la magia ha dato la mano alla fantasia e il sogno all’illusione, anche grottesca, di un mondo che non c’è più ma che, con tutte le sue contraddizioni, vale la pena ricordare.

Come diceva Phineas Taylor Barnum “Molte persone, nel complesso, sono ingannate dal non credere in nulla, e non dal credere troppo.”

 

 

La solitudine degli animali

Qualcuno di noi è nato libero. Gli scheletri danzanti della Nuova Guinea ad esempio, gli aborigeni australiani, i cacciatori kazaki della Mongolia, alcune remote tribù della steppa, diverse etnie africane. Ma non mi riferisco a loro. Parlo delle creature che hanno agitato la coda e allungato il collo in una savana, che si sono addormentate nel cuore di fronde impenetrabili, che hanno partorito e poi nutrito i propri cuccioli osservando una sola legge. Quella della natura.

Poi è arrivato lo zoo e con lui la solitudine. Per toccarla con mano bastano le immagini scattate da Britta Jaschinski e Jo-Anne McArthur in diversi zoo del Vecchio Continente. Sono fra quelle che sono state esposte al Parlamento Europeo nell’ambito della campagna Born Free. Un’indagine che ha coinvolto circa venti Paesi. Una denuncia che non ha bisogno di parole per raccontare le condizioni in cui questi animali, spesso, sono costretti a vivere.

Uno schiaffo, iconografico, alla nostra, altrimenti impermeabile, indifferenza.

Tigri, leoni, elefanti, scimpanzé, giraffe, delfini, orsi. Anche in Italia li trattiamo al nostro peggio. Su 68 strutture riconosciute solo 5 sono risultate in regola con le direttive dell’Unione Europea. I giardini zoologici possono trasformarsi in veri e propri lager per ospiti permanenti increduli, attraversati da una malinconia che passa dritta attraverso i loro occhi.

Il mondo è ricco di spazi dedicati agli animali e al consumo turistico che gravita attorno ad essi: zoo safari, rettilari, delfinari, bioparchi, acquari, parchi marini. Ogni volta che ci andiamo a spasso facciamo questa considerazione: la solitudine non è solo umana. Fa male in modo universale.

La tigre che si aggrappa a un muretto per guardare oltre il muro di recinzione ci ricorda, dolorosamente, che qualcuno di noi è nato libero. Un privilegio che non è toccato nemmeno a parecchi dei nostri animali da compagnia, spesso tragicamente umanizzati, perfino nel look, qualche volta fatti oggetto di attenzioni maniacali che tolgono respiro alla loro natura.

Imporre a un cane, nel periodo natalizio, di indossare un maglioncino con il muso della renna Rudolph ricamato e un ponpon rosso luccicante non è solo crudele. È bestiale.

 

 

L’orso pittore

Dopo che nel regno della fantasia l’han fatta da padrone Yoghi e Bubu, il mitico Baloo, Little John di Robin Hood,  Winnie The Pooh di A.A. Milne, e in natura l’orso Grizzly, l’orso bruno e il nobile e bianco orso polare, nella vita reale, ora, ci fa compagnia l’orso pittore.

In questo strano mondo che spesso ci sorprende intrappolati in uno specchio anamorfico, qualche volta la realtà che vediamo non è deformata, ma di forma differente.

L’orso Juuso, ospite del Kuusamo Predator Centre, sta spopolando come artista in Finlandia, dacché si è scoperto che si diverte a dipingere strofinandosi prima sul colore e poi su tela. Le sue opere, da subito molto apprezzate, sono state acquistate anche per 300 euro ciascuna. Gli introiti che la vena artistica del gigantesco plantigrade ha assicurato al centro per animali finlandese sono stati fino ad ora reinvestiti nel mantenimento di altri orsi orfani ospiti della struttura.

Albert Einstein ha detto: “La creatività è l’intelligenza che si diverte” e bisogna vedere come Juuso si impegni a dargli ragione, mentre i suoi genitori adottivi, Sulo Karjalainen e Pasi Jäntti, lo guardano scegliere i colori e … lavorare.

Ecco. Ci fa davvero piacere aver incontrato un orso pittore. Nella sua semplicità animale ha molti pregi, in effetti. Non predica l’appartenenza o l’invenzione di alcuna corrente. Non fa capricci. In cambio del suo operato s’accontenta di qualche acino d’uva. Si strofina tutto imbrattato di colore come un animale felice e appagato. Le occhiate feroci le lascia agli artisti depressi.

È il protagonista, involontario, di un moderno e rinnovato bestiario culturale. Dopo gli animali parlanti, a lungo primi attori della scena letteraria da Fedro a Pennac, era ora che si aprissero le porte agli animali artisti, stanchi di essere solo rappresentati.

Juuso, in qualche modo, ha capito che l’arte è fatta per chi la elegge a propria amica del cuore (© Angela Vettese). Ecco, la vita qualche volta ci svela l’arte dell’impossibile, in modo bestiale.

 

 

Vita da pappagalli

Capitoli 1, 2 e 3

In Australia c’è un pappagallo che sa suonare la batteria. Gli scienziati dell’università del Queensland e i ricercatori della Deakin University non sanno se usa il doppio pedale o la doppia cassa come alcuni fra i migliori batteristi del mondo, se preferisce la spazzola o il rullante, il charleston o il tamburo. Quel che sanno è che per corteggiare la femmina si costruisce da solo una batteria e che è in grado di suonare un ritmo non casuale. Anzi originale. Ogni pennuto ha la sua canzone.

Al cacatua delle palme che vive nella penisola di Cape York, non deve essere sfuggito che un sound come si deve nel corteggiamento fa la differenza e che la base ritmica di qualunque brano non è un dato accessorio.

La bacchetta è un rametto secco lungo circa 20 centimetri, la cassa è la noce di una pianta che si trova lì d’attorno e che lui sistema all’uopo a colpi di becco.

Sono note altre (rare) specie animali capaci di costruire strumenti, che però, in genere, sono funzionali solo all’alimentazione.

Non di solo pane vive il pappagallo.

 

Einstein, uccello attrazione dello zoo texano di Knoxville, se gli va si esibisce cantando “Smoke on the water”. Non che ti sembri di risentire i Deep Purple, ma lo fa con un certo stile. Fumo sull’acqua e fuoco nel cielo e mi sa che è più contento così di quando imita cane, cavallo o altri suoni umani.

Quattro note in salsa blues per uno dei motivi più famosi della storia del rock. Vuoi mettere?

 

Un cartello appeso all’ingresso di un supermercato richiama in modo esotico l’attenzione dell’utenza: “Pappagallo smarrito”. Manca dal giorno tale alle ore tali. (Segue cellulare)”. Un becco arancione su un mantello di penne bianche spicca sullo sfondo di una fotografia che ritrae l’animale sull’erba di un prato. Nel magico mondo (digitale) in cui viviamo siamo circondati da app funzionali a qualunque esigenza, operative 24 ore su 24 ed efficienti ovunque nel mondo. Strumenti di nuova generazione in grado di risolvere una quantità impressionante di bisogni, ma non è proprio “tutto” quello che sono in grado di fare. Se hai perso un pappagallo, ad esempio, non c’è l’app che lo riporta a casa. Puoi cliccare e ordinare subitamente sushi, pizza, hamburger, patatine, una grigliata “masala”, pollo, yogurt, telefonini, fiori, spesa a domicilio. Ma il nuovo fenomeno sociale delle consegne smart non può risolvere un problema domestico come lo smarrimento di un amato pennuto.

Un cartello appeso all’ingresso del supermercato è uno strumento di comunicazione d’altri tempi che in realtà può ancora dare qualche risultato. Infatti l’animale è stato ritrovato.

Un altro annuncio, collocato a fianco, comunica il ritrovamento di una bicicletta. Chi l’avesse smarrita può rivolgersi all’interno del negozio.

Questa bacheca delle cose perdute di quartiere, quasi un tacchi, dadi e datteri di antica memoria, è come una ventata di umanità che mette di buonumore. Anche quel verbo individuato dall’estensore dell’avviso, quel “manca” accanto a giorno e ora della scomparsa, non l’avremmo forse utilizzato in riferimento a una persona piuttosto che a un animale?

Questo pappagallo, così umanizzato, paradossalmente manca del nome, che invece avrà senz’altro.

Alla fine dell’avventura, mi resta la curiosità. Si chiamerà mica Ulisse?

 

 

Ma dove vai se l’uccello non ce l’hai?

L’apericena non basta più. Insalate, vegetali o di pasta, vol au vent, stuzzichini dolci e salati, quiches e tutta la schiera, ben nutrita, di fantasiosi divertissement alimentari tipici del rito laico dell’aperitivo, all’improvviso non sono più up to date. Ammiccano ancora dai tavolini del locale di tendenza, apparecchiano come un raffinato ricamo tavole imbandite in giardini accoglienti, si arrendono al piano bar, al jazz, ai dj-set, ai reading letterari. Ma non sono più trendy.

Lo so, è un colpo per tutti i creatori di eventi, una mazzata per influencer, youtuber, socialite e blogger d’assalto, ma anche se ti spari uno spritz con tempura di verdure appena scodellata dal cuoco giapponese di una rockstar inguainata in una tuta di latex, al giorno d’oggi, senza uccello, non sei nessuno.

Perché Milano, che con buona evidenza è ancora da bere, ha inventato l’aperitivo con birdwatching, che si può consumare con amici o in tête-à-tête, dal tetto di un albergo, da una terrazza, comunque sia da una vetta urbana, per aggiungere volatili e skyline all’almanacco delle opportunità, alcoliche o analcoliche, crepuscolari.

Vuoi mettere un mojito, come dire, a volo d’uccello? Gustando con ghiaccio e menta Prealpi e scorci unici del centro storico mentre stormi di cinciallegre o allegre brigate di germani reali fanno capolino? Fatti un Bloody Mary con un colombaccio, una vodka and soda con un falco pellegrino, una Coca e rum con un parrocchetto dal collare. Che la guida alla postazione migliore l’ha scritta un naturalista e la scienza conferma che gli uccelli sono molto attivi proprio all’ora dell’aperitivo. Nidificano, migrano, si riproducono. Insomma si mostrano volentieri a guardoni green armati di patatine, aperol e binocolo.

L’idea, bisogna dirlo, non è male. Anche perché qualche volta è preferibile inseguire con lo sguardo il volo in picchiata di animali liberi e selvaggi piuttosto che stare a sentire chi ci sta di fronte, col bicchiere in mano. Meglio dare uno sguardo a boschi e castelli, quartieri e caseggiati altrimenti nascosti alla vista, scoprire che proprio a due passi da noi si librano in cielo pappagalli amazzone fronteblu e fieri sparvieri, perché altrimenti, anche senza binocolo, spesso si vedrebbe bene il buio oltre la siepe dello sguardo dell’interlocutore.

I codirosso spazzacamino, lassù sul grattacielo, facciano una allegra comparsata e insieme piazza pulita di temibili esemplari di imbecilli. Sono una specie, non rara, che si muove su due gambe, ha il pollice opponibile (per reggere il bicchiere) e che, purtroppo, ha il dono della parola. Mica sempre è una buona notizia.

Caro gheppio, vien da dire, prosit!

 

 

Giungla metropolitana

Due passi in città e sembra di stare allo zoo. La proliferazione di umani conciati da zebre, lupi e capre impazzite – nuovi avatar di una specie che qualche volta pare aver perso il controllo di sé – si deve in parte alla moda, che non smette di suggerire accessori animalier, in parte alla sua libera interpretazione. La legge della giungla (metropolitana) impone ai consumatori del terzo millennio elefanti, panda e procioni da mettere al polso mentre libellule, cavalli e camaleonti zampettano su borse, pochette, valigie e gioielli. Dal boa di struzzo alle borse di coccodrillo non ci facciamo mancare niente: siamo zebrati dentro, maculati fuori e portiamo con orgoglio la nostra seconda pelle, sicuri che tanto, alla prossima stagione, potremo cambiarla di nuovo, come i serpenti.

Tranne quando l’intervento è permanente: il tattoo di un’otaria gigante che guizza sul polpaccio con la scritta forever young nuoterà felice sotto lo stesso cielo anche l’anno prossimo.

Spesso vestiamo da cani, mentre schiere di inconsapevoli bestiole somigliano in modo sempre più inquietante a tristi Paris Hilton a quattro zampe.

Il confine con il mondo animale non è così netto. Grafici e giornalisti operano in gabbia, le donne – soprattutto se sono a un tempo mogli, madri e lavoratrici – spesso si sentono in gabbia, anche se non hanno il tempo di accorgersene. Chi disprezza gli scarafaggi ha amato i Fab Four più di ogni altra cosa trasformando i Beatles nei migliori insetti antropomorfi che si siano mai visti.

Ecco, si inserisce in questo contesto, a modo suo bestiale, la storia del fotografo indiano Sujatro Ghosh che per protestare contro le condizioni in cui sono costrette a vivere le donne del suo Paese le ha ritratte con una maschera da mucca sul viso, postando le fotografie su Instagram e invitando le donne che volevano partecipare al progetto a contattarlo tramite il medesimo social. L’ha fatto per rappresentare “l’assurdità di un Paese dove occorre più tempo a rendere giustizia a una donna che a una vacca”.

In India, come è noto, la mucca è un animale considerato sacro, intoccabile, difeso alla maniera dell’uomo di Neanderthal da uomini armati di spranghe e bastoni.

In India, come è altrettanto noto, le donne vengono stuprate senza pietà. Secondo le statistiche una ogni 15 minuti. Fra gli innumerevoli massacri registrati dalla cronaca basti la citazione del caso che segue. Due sorelle, dopo esser state brutalizzate, sono state uccise e impiccate a un albero di mango. Avevano 14 e 15 anni. Nel gruppo degli aguzzini anche un ufficiale di polizia. L’inchiesta dei federali indiani ha poi stabilito che si è trattato di un doppio suicidio.

 

Le modelle di Ghosh, travestite da mucche dal collo in su, mentre si proteggono celando la propria identità denunciano il divario fra diritti e rispetto assicurati a un animale, (per quanto sacro possa essere considerato), e i diritti brutalmente negati agli esseri umani.

Raccontano una storia per immagini che non ha bisogno di parole per essere ascoltata.

Guardatela, è un imperativo presente.

 

 

Bugiardi a caccia di Pokémon, vestiti da conigli mannari

Per andare a spasso nella giungla moderna non abbiamo più bisogno di appenderci a una liana, ma un machete forse farebbe ancora comodo. Non per abbattere varchi nella foresta intricata e invalicabile ma per riportare tutti quanti a una dimensione chiara e accettabile della realtà. Che ha cominciato a mutare qualche anno fa quando al sostantivo “realtà” abbiamo aggiunto l’aggettivo “virtuale”.

Come per magia, improvvisamente, si poteva accedere ad un mondo che era più di un alias del nostro mondo, era un alias della nostra vita, della nostra stessa identità. Si poteva andare alla guerra, diventare agenti segreti, fidanzarsi e conquistare galassie lontane. Tutto questo dopo aver tirato giù la serranda di un lavoro d’ufficio dalle 9 alle 5, di un bar dove si servono caffè e spremute, di un negozio dove si vendono abbigliamento e accessori. Da Lara Vattelapesca a Lara Croft in un clic. Ed è sembrato un bel gioco per un po’, anche se per qualcuno è diventato una galera, perché dalle galassie lontane non è più tornato indietro. Poi è arrivata la realtà “aumentata”. Grazie alle nuove tecnologie possiamo guardare ciò che ci circonda e vederlo non come si presenta realmente ma “aumentato” di presenze o informazioni. Fantasmi contemporanei che temo non ci faranno onore con i posteri, dato che per inseguire i Pokémon più di un giocatore ci ha rimesso automobile e patente e che forse avremmo potuto evitare di vestirci da coniglio mannaro su Snapchat.

Poi è venuto l’anno della post-verità, il gorgo delle informazioni non vere però capaci di influenzare grandi eventi di rilevanza politico-sociale. Una volta le chiamavamo bugie. Oggi sono in tanti quelli col naso lungo che spacciano post-verità come se piovesse e insieme al resto delle varianti della realtà contribuiscono a gettarci nella più grande e confusa dimensione di sempre.

Ecco, forse è arrivato il momento di fare un passo indietro. Di guardare la persona con la quale stiamo parlando negli occhi. Di scoprire, fatta salva la fantasia, ciò che abbiamo davanti.

Come diceva Antonio Delfini “La luna è come la libertà: sta in cielo e in fondo al pozzo“.

 

 

Freaks si diventa

Siamo figli di una generazione di fenomeni, come preconizzavano gli Stadio, o di sconvolti come cantava Vasco Rossi. In ogni caso desideriamo soprattutto essere perfetti. Vincenti già dal look, avanziamo su protesi dell’autostima con molti zeri e ci preoccupiamo di due cose in particolare: esserci e piacere. Di recente sono stata invitata a un beauty party, vengo continuamente omaggiata di sconti non richiesti su trattamenti estetici, se entro in profumeria prima tutto mi propongono campioni di prodotti miracolosi per il viso o per il corpo. Cerco di non scoraggiare la mia autostima, anche se tutte queste offerte di aiuto mi fanno sentire come un mazzo di fiori della settimana scorsa. Un po’ appassita.

In questo mondo c’è spazio solo per il fenomeno. Quello vero, non quello da baraccone. I freaks, individui con caratteristiche fuori dall’ordinario che nell’Ottocento diventavano attrazioni per i circhi, oggi sono solo degli emarginati. Come tutti i diversi. Che non ci piacciono ma che dovremmo imparare a guardare con occhi nuovi.

Frank Lentini, siciliano, classe 1889, con tre gambe, due apparati genitali e quattro piedi, divenne una star del freak show negli Usa e con lui un albino, una donna cannone, un incantatore di serpenti e una donna tatuata. Sull’onda di un successo (al tempo) planetario andò in tournée con Elephant Man, uomini scimmia, donne barbute e un gigante alto quasi tre metri. Ciononostante sposò una donna bellissima che faceva l’attrice e a cinquant’anni della morte, la città d’origine che l’aveva cacciato lo ha celebrato.

Nel diciannovesimo secolo anche Toro seduto, grande capo guerriero, guaritore, membro della società della danza, della pioggia e di quella degli spiriti, padre di Piede di Corvo, marito di Capelli Lucenti, è stato per un periodo attrazione del circo Barnum. Era un freak dalla pelle rossa senza più una tenda dove poter andare. “Se il grande spirito mi avesse voluto bianco – diceva – mi avrebbe creato così. Ha messo nei vostri cuori alcuni desideri ed altri nel mio, e sono ben diversi. Non è necessario per un’aquila essere un corvo”.

Un trattato di biodiversità che potrebbe darci ancora molte lezioni.

Nelle mani di ciarlatani e della sorte: uno sguardo a La Mort de Louis XIV

Trasportato sopra una rudimentale e scricchiolante sedia a rotelle, Luigi XIV fissa lo sguardo verso un imprecisato orizzonte che si staglia di fronte alla sua villa. L’unico momento di respiro in tutto il film, segue la clausura imposta dalla corte dei non miracoli e composta da medici e ciarlatani. Due ore. Poi la morte preannunciata nel titolo. Fin.

Luigi XIV non riesce più a muoversi, un problema ad una gamba gli impedisce di camminare e passa le sue giornate a letto, mangiando pochissimo, bevendo brodini da cucchiai d’oro, ricevendo cortigiani con cui non dialoga neanche, accarezzando i suoi amati cani, cambiando più parrucche di Phil Spector, provando collezioni di occhi di vetro, subendo salassi, osservando la propria gamba andare in cancrena, ascoltando inutili rassicurazioni sul suo impossibile ricovero e contemplando il tempo che muore insieme a lui prima di spirare.

La mort de Louis XIV
La mort de Louis XIV

E dire che Luigi XIV vorrebbe che gli amputassero quella gamba, ma niente da fare, i suoi medici non sono d’accordo. Vogliono farlo guarire o farlo morire? Bende, unguenti, persino una pozione a base di sperma, sangue di toro e grasso di rana. Nulla di quello che fanno può impedire la necrosi, ma forse il loro intento è proprio quello di provocare la morte del Re.

Quando non c’è più nulla da fare, piangono e chiedono perdono per non aver sconfitto la malattia. La battuta con cui La Mort de Louis XIV si chiude è perfetta: “Faremo meglio la prossima volta”. Ecco chiarificato il duplice senso del film di Albert Serra, non solo un’osservazione della morte come di vita che appassisce (vedi il suo precedente lungometraggio Historia de la Meva Mort), ma anche uno sguardo e un’indagine su cosa fosse la Medicina dell’epoca.

La morte ci rende tutti uguali e il caso di Luigi XIV, al di là delle mille e più cure (tra l’altro rivelatesi non solo inutili, ma dannose), serve per farsi un’idea di cosa sia stato il progresso scientifico che ha portato i benefici conosciuti nell’ultimo arco di secolo. Nessuna profezia o virtù divinatorie, la sopravvivenza del futuro si basa sui morti del passato. Per evocare ancora una volta il finale del film: le volte successive, i medici hanno fatto meglio. Tra l’altro, non direttamente collegato ad una possibile soluzione momentanea per ritardare il destino di morte, un dialogo tra aiutanti del Re riguardante la conservazione degli alimenti sotto ghiaccio per impedirne il deterioramento suona quasi come un’ipotesi di proto-criogenesi. D’altronde, negli ultimi cinquant’anni, non è quello che hanno fatto molti ricconi? Farsi mettere in sarcofagi d’acciaio a temperature sotto zero per essere risvegliati secoli dopo, una volta trovate le cure per i loro mali ad oggi ancora incurabili? Zero K, il più recente romanzo di Don DeLillo, è un viaggio negli orrori di questa pratica in-umana.

I ricchi possono curarsi meglio e i poveri devono sperare di non ammalarsi, ma alla luce del film di Serra è lampante il messaggio universale che nel momento del bisogno si è sempre nelle mani di qualcun altro e della sorte, funesta o benevola o fortunata che sia.

Proiettato fuori concorso alla 69ma edizione del festival di Cannes, La Mort de Louis XIV ha entusiasmato la critica internazionale, che l’ha eletto uno dei migliori film dell’anno scorso, ed è ancora in attesa di una improbabile distribuzione italiana. Da applausi l’interpretazione sommessa e sofferente di Jean-Pierre Léaud. Sì, proprio lui, il ragazzino de I 400 colpi (F. Truffaut, 1959). Se c’è un’affermazione che della vita può essere fatta è che il tempo passa e passa per tutti.

Mildred Pierce, un antidoto contro la Depressione Americana

L’inferno, in fondo, è un posto dove si lotta per emergere. E per emergere Mildred Pierce usa le cose che ha: delle splendide gambe e l’arte di cucinare benissimo, da buona donna di casa americana. Ora, divorziata da un marito ex benestante e con due figlie, è solo una donna bianca fra le tante, negli Stati Uniti del 1931. Ma Mildred vuole farcela e non guarda in faccia nessuno. Ferocemente attiva, da cameriera riesce ad aprire un ristorante, poi a costruire un piccolo impero. Purtroppo Mildred ha due difetti: una passione per gli uomini inconcludenti e spendaccioni e un attaccamento morboso per la figlia più bella, un piccolo demone opportunista su cui Mildred proietta le sue fantasie di riscatto.
(Introduzione a Mildred Pierce di James M. Cain, Ed. Einaudi)

Il film: una sinergia di forze opposte

Se davvero esiste un romanzo che è stato trasposto alla perfezione sul grande schermo, questo non è Mildred Pierce. Volendo evitare già ora di creare confusione tra la trama del libro e quella del film, si procederà a tratteggiare gli elementi condivisi dai due: con un marito incapace di provvedere a lei, Mildred (Joan Crawford) è una casalinga che si trova costretta a cercare un lavoro per provvedere alla sua sussistenza e a quelle delle sue due figlie, la cui prediletta è la viziatissima Veda (Ann Blyth). Dotata di grandi capacità, d’intraprendenza e di dedizione, Mildred crea in pochi anni un impero di ristoranti di successo, ma questo status di benessere, faticosamente raggiunto, non è destinato a durare a lungo.

Joan Crawford in un frame di Mildred Pierce
Joan Crawford in un frame di Mildred Pierce

Al di fuori della cornice del film, entrato nell’immaginario collettivo della cinematografia americana del dopoguerra, la catena di eventi che hanno portato alla realizzazione di questa pellicola paiono essere interessanti quasi tanto quanto lo stesso Mildred Pierce. Una parentesi obbligatoria: è vero che ora si tende ad identificare Joan Crawford come una delle star del firmamento del cinema classico, ma all’epoca l’attrice è reduce da una serie di flop alla MGM e, sbarcata alla Warner Bros., temporeggia in attesa che le venga proposto d’interpretare un grande film. Pertanto, Mildred Pierce va inquadrato anche come film chiave della sua carriera, che sarebbe proseguita quasi sempre ad alti livelli per i successivi quindici-venti anni con punte altissime quali Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954) o Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich, 1962).

La sceneggiatura del film passa per decine di mani prima di trovare la sua forma definitiva, quella giudicata giusta per essere trasposta sullo schermo. Tra i vari sceneggiatori ingaggiati e sbolognati in fretta senza troppi complimenti secondo la prassi hollywoodiana, c’è anche William Faulkner, premio Nobel per la Letteratura qualche anno più tardi. Si racconta che la sua versione contenga un voice-over e che il vero protagonista sia il ristorante di Mildred, diventato uno squallido luogo popolato da feccia che compie loschi affari sottobanco, e che Veda sia ancora più cinica e calcolatrice di come è stata poi resa nel film (e non dev’essere stata semplice delineare una figura ancora più insopportabile di quella).

Mildred Pierce subisce riscritture su riscritture fino ad assumere una fisionomia narrativa decisamente diversa rispetto a quella del romanzo di Cain. Modificare dettagli e particolari della trama non è mai stata una novità, ma qui viene completamente stravolta la struttura del materiale originale (il film inizia da una specie di anticipazione del finale per poi proseguire con una serie di flashback in fase d’interrogatorio) e ad essere trasformata pressoché in toto è la conclusione della storia attraverso colpi di scena inventati di sana pianta.

Ci si trova di fronte ad un bivio: lo si può considerare un grande film hollywoodiano anche se una serie di elementi snaturano la natura del romanzo? Si può e si deve. Se osservato come prodotto d’intrattenimento e parallelamente come strumento per veicolare una patinata morale di giustizia e di perseguimento del sogno americano, Mildred Pierce è un film perfetto nel suo avvicendare figure positive (Mildred) e negative (sua figlia Veda e il suo amante Monty Beragon) che si avvicinano e si scontrano sullo sfondo di un’America dove la caratura delle persone si soppesa sulla base del loro successo.

Tornando al finale, è qui è stata operata la modificazione più incisiva: nel film, Veda spara e uccide Monty mentre nel romanzo i due fuggono via insieme, lasciando Mildred, rispettivamente madre e moglie, alla deriva di sé e coperta di debiti. La scelta di virare Mildred Pierce al noir costruito in flashback fu dovuta al tentativo (riuscito) di replicare il successo di Double Indemnity (Billy Wilder, 1944), altro adattamento da un libro di Cain, ma ad interessare di più sembra essere la scelta di pulire i peccati dei protagonisti del romanzo dai comportamenti ritenuti riprovevoli dal Codice Hays come Mildred che va ripetutamente a letto con Wally, ex socio d’affari del marito e ora suo business partner, oppure Veda, la cui condotta va ben più in là dell’essere una smorfiosa viziata ed egocentrica.

È nel rapporto tra madre e figlia che si realizza, narrativamente parlando, il trionfo di Mildred Pierce: nel film si sottolinea un concetto fondamentale, quello di crescere i propri figli meglio che si può (e anche di più). Metabolizzando in tempi record ogni umiliazione, insulto, sbeffeggiamento e capriccio, Mildred cresce Veda come se fosse una principessina, viziandola all’inverosimile. In quello che è un ribaltamento del naturale ordine delle cose, questa è la storia di una madre che vuole costantemente e letteralmente a qualsiasi costo compiacere la figlia e non viceversa.

Quello che però preme più i produttori è mostrare una storia americana di successo all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mildred Pierce esce negli Stati Uniti nell’autunno del 1945 (in Italia, invece, viene distribuito solo due anni più tardi, nel dicembre del 1947 con il paradossale titolo de Il romanzo di Mildred) e le ostilità, con lo sgancio “democratico” delle due bombe atomiche in Giappone, sono definitivamente cessate qualche settimana prima. Il film però è pronto da ben prima di quella data, ma la sua uscita nelle sale americane viene posticipata fino a quel momento nella speranza che il clima post-bellico possa essere più adatto per il successo di una pellicola come quella.

Alla luce di ciò, oggi può far strano pensare che ai tempi James M. Cain dedichi una prima edizione di Mildred Pierce a Joan Crawford, ringraziandola per aver dato vita al personaggio da lui scritto esattamente nella maniera in cui se l’era immaginato, ma se ci si scomoda a dire che le trasposizioni cinematografiche degli ultimi due o tre decenni a volte si sono discostate dai libri per dettagli tipo il colore dei capelli di uno dei protagonisti, bisognerebbe guardare indietro agli anni ’40 o ’50 per scoprire che, in certi casi, del romanzo d’origine è stato lasciato intatto solo il titolo.

Agli Oscar del 1946, Mildred Pierce viene candidato a sei premi Oscar tra cui quello per il Miglior Film e la Migliore Sceneggiatura e finisce col portare a casa quello per la Migliore Attrice Protagonista, Joan Crawford, che in vista della cerimonia si è data malata per paura di perdere, dopo tutti gli sforzi fatti per realizzare quel film e dopo vent’anni spesi a Hollywood senza mai raggiungere le vette di sue colleghe come Bette Davis. Dice di avere l’influenza e rimane nella sua abitazione, ma non è vero, sta benissimo. La figlia adottiva racconta che, dopo esserle stato comunicato di aver vinto l’ambita statuetta, la Crawford si getta giù dal letto per truccarsi in vista dell’arrivo dei giornalisti, dei reporter e del regista Michael Curtiz, che le sta portando l’Oscar.

Come nel caso di altri grandi e importanti film hollywoodiani, anche Mildred Pierce vede la luce in seguito a turbolenze produttive e diatribe interne, in questo caso tutte polarizzate dalla Crawford e da Curtiz. Gli aneddoti dal set parlano chiaro di quanta poca simpatia scorra tra i due e gli scontri più frequenti riguardano proprio la modellazione di Mildred: la Crawford viene accusata dal regista di far modificare a suo piacimento gli abiti e il trucco del personaggio e lei implora la Warner Bros. di licenziare Curtiz per gli insulti di cui non fa sconti durante le riprese. Si giunge ad un compromesso: al regista viene concesso d’imprecare solo in ungherese (sua lingua d’origine) e alla Crawford viene impedito di operare eccessivi cambiamenti al look di Mildred. Alla consegna dell’Oscar a casa della Crawford, i due sfoderano i sorrisi più falsi e convincenti di cui dispongono. Ormai è tutto finito e Mildred Pierce è un successo.

Il contributo di Michael Curtiz alla riuscita del film è fondamentale e sarebbe impossibile pensare ad un’altra versione di Mildred Pierce se non la sua. Di fatto, come si è visto, la pellicola vive un’esistenza slegata da quella del romanzo e le stesse atmosfere che evoca sono differenti. Alle villette spagnoleggianti immerse nelle colline californiane, in pieno stile realista di Cain, si contrappongono le ambientazioni proposte da Curtiz, maggiormente legate ad un gusto post-espressionista: anche le case più modeste diventano luoghi giganteschi nei quali le ombre dei protagonisti si perdono tra le stanze, tutto è lugubre e il senso di minaccia e ansia pervade ogni inquadratura. Tra le altre cose, Curtiz è anche il regista del film classico per antonomasia, Casablanca (1942), di cui rievoca esplicitamente il bar di Rick quando mostra il locale di Wally Burgen.

Michael Curtiz on the set of Casablanca
Michael Curtiz on the set of Casablanca

Dopo il premio Oscar a Joan Crawford, sono molti gli esercenti delle sale americane a chiedere una seconda distribuzione di Mildred Pierce per sfruttare l’onda lunga seguita alla vittoria agli Academy Awards, ma la Warner Bros. non si dimostra per niente intenzionata ad un’operazione di questo genere. Il film è andato molto bene al botteghino (si parla di 4 milioni dollari nei primi mesi di programmazione, una cifra non indifferente nell’America post-WWII) e creare attesa in vista di una re-issue uno o due anni dopo può solo fare bene. Più a lungo si attende qualcosa, più interesse si crea. Ovviamente senza arrivare al punto da far dimenticare quel che si sta aspettando perché sta passando troppo tempo. Inoltre, c’è un nuovo titolo con la Crawford protagonista che sta per uscire nelle sale: Humoresque (1946), nel quale l’attrice interpreta il ruolo di una ricca e annoiata donna sposata che inizia una torbida relazione amorosa con un violinista di successo. Il film è un gemello eterozigote di Mildred Pierce in termini di messinscena, atteggiamento della protagonista, titoli di testa, fotografia, regia (dietro alla macchina da presa c’è questa volta Jean Negulesco) e cupio dissolvi generale. Vedere per credere.

Nel 1953 alcuni diritti sull’uso del romanzo vengono restituiti all’autore James M. Cain e inizia a circolare l’insistente voce dell’imminente realizzazione di un serial televisivo ispirato a Mildred Pierce con un’apparizione speciale di Joan Crawford, ma non nel ruolo della protagonista perché troppo impegnata a fare cinema (come si è già detto, in quegli anni l’attrice è all’apice della sua carriera). Le chiacchiere e le trattative circa una versione televisiva in più puntate continuano per gli anni a seguire e nel 1957 la CBS sembra essere lì lì per realizzarla, ma quando tutto sembra stare per concretizzarsi ecco spuntare come funghi avvocati pronti a bloccare questa iniziativa. C’è chi sta pensando di fare un remake del film, a distanza di poco più di un decennio, e quindi un prodotto televisivo non farebbe altro che smorzare l’interesse del pubblico verso un altro (e a colori) rifacimento cinematografico. Com’è e come non è, tutto si ferma. Dovranno passare più di cinquant’anni prima che si parli ancora di Mildred Pierce. Sarà Todd Haynes, regista dell’incantevole Far from Heaven (2002), a trovare un nuovo volto per Mildred e a rendere giustizia per la prima volta al microuniverso narrato da Cain, rimanendo quanto più possibile fedele alle pagine scritte dal romanziere.

Donna Rosa

Donna Rosa era una vera siciliana, figlia di siciliani da generazioni.
Aveva il vento del sud nelle ossa, l’odore delle arance sulla pelle e il sapore della femmina sulle labbra.
Quando era arrivata per la prima volta al quartiere Buenos Aires la gente del luogo era semplicemente rimasta incollata alle sue gambe.
Perfetta, sicura. Due cosce abbronzate e piene, avvolte da uno stretto tailleur.
Un culo ondeggiante, scolpito, morbido e soave.
La camicetta bianca attaccata al corpo dal sudore. Intimo nero di pizzo. Un seno incredibile.
Aveva attraversato la piazza principale con disinvoltura, camminando fiera con lo sguardo alto. Gli occhi neri e le labbra carnose.
I lungi capelli mossi. Bella e siciliana.
Aveva stretto la valigia e non si era fermata di fronte a nessuno.
Il tram chiuso alle sue spalle si portava via il viaggio di ritorno.
Nessun ritorno per Donna Rosa: solo il quartiere Buenos Aires.
Aveva trovato alloggio alla pensione “La pergola”. Sudicia, piccola, dieci camere. Proprio di fronte alla Milonguita. Casa.
Aveva preso i soldi dal reggiseno e li aveva dati alla padrona di casa, poi era salita al piano di sopra, il suono dei tacchi ad ogni scalino.
Gino, il ragazzo delle pulizie, si era bloccato di colpo a guardarla, gli occhi spalancati.
-Che ti sei incantato?-  aveva sorriso lei con espressione ironica, poi era entrata in camera.
Il ventilatore girava senza posa, cigolante, annoiato.
Un bottone dopo l’altro, via la camicia. Una zip per la gonna. Nuda, sdraiata sul letto, le mani lungo il corpo, il fresco sulla pelle.
Quella sera stessa la città era sconvolta dall’arrivo di Donna Rosa. Si cercavano soluzioni al problema.
Chi era? Da dove veniva? Cosa voleva? Ma le domande più pericolose riguardavano i mariti.
Quanti ne avrebbe presi?
Gli uomini la amavano e le donne la odiavano.
Donna Rosa era il peccato della lussuria, giunto per portare all’inferno quella città. E ci sarebbe riuscita.
Si ingegnavano storie sul suo conto: una moglie in fuga dal marito, una donna di mali costumi, un’assassina.
Nessuno sapeva nulla, se non che era bella. Maledettamente bella.
La incontrarono poco nei giorni successivi. Una passeggiata dal tabaccaio per un pacchetto di sigarette, un giro tra le vecchie case; seduta al bordo di una fontana, una mano nell’acqua, lo sguardo perso, forse nei ricordi del lontano Mediterraneo.
Sempre uguale, un vestito leggermente scostato, le cosce calde accavallate, il seno in fuga.
Per i più maligni soffriva il ricordo del suo atroce peccato. Forse aveva ucciso l’uomo che amava.
Donna Rosa affascinava. Affascinava quando stava ferma a guardare il sole, o quando si chinava a raccogliere un oggetto.
A donna Rosa cade sempre qualcosa, aveva detto con malizia l’ostessa una mattina.
Non si sapeva nemmeno come si sapesse il suo nome. Lo si conosceva e basta.
Don Michele, il mafioso, fu il primo ad avvicinarsi a lei. E’ una compaesana, aveva detto, ci capiremo.
E si erano capiti. Si era tolto il cappello bianco in un piccolo inchino, i baffi ben lisciati, un fazzoletto nel taschino.
E lei gli aveva offerto la mano e avevano passeggiato, mangiato un’ arancia e parlato del vento del sud.
Le donne dai balconi li avevano guardati e avevano scosso la testa. Ma nessuno osò dire qualcosa, non a Don Michele. Nessuno poteva.
Padre Giovanni ricevette molte confessioni quella settimana. In troppi l’avevano amata nei loro sogni, in troppi la desideravano.
Molti occhi erano fuggiti senza tornare. In parrocchia si cercava una soluzione, dietro agli occhi fuggivano i mariti.
Alle donne non andava a genio, erano di loro proprietà
Il commissario scosse il capo. Non c’è reato ad essere belle.
C’è nel prendere gli uomini.
Non per la polizia.
Ma per Dio sì.
Poi donna Rosa aveva iniziato a colpire.
Il primo era stato Fabrizio.
Figlio del fattore, maniscalco, l’unico in città che sapesse montare un animale. Un vero mascalzone.
L’aveva raggiunta a cavallo, tutti i giorni lungo la via per il mercato. Aveva fischiato e portato dei regali.
Hey bella. Un mazzo di fiori, un sorriso e un pacchetto di sigarette.
E donna Rosa l’aveva preso.
In un fienile, con l’odore di stalla e il prurito dell’erba secca sulla schiena.
Le schegge tra le dita, il viso poggiato al legno.
Io indosso solo biancheria nera, aveva detto lei, portandosi la mano dell’uomo sulla coscia.
E lui l’aveva amata, in tutti i modi, nel caldo del pomeriggio di agosto, con le mani nodose che stringevano il petto molle.
Le gocce di sudore sulla fronte, lungo la schiena, nell’incavatura tra ginocchio e polpaccio.
E aveva baciato ognuna di quelle gocce, ogni traccia di lei, con ardore e desiderio irrefrenabile.
E lei si era lasciata dominare senza tregua, con la passione e la forza di una vera amante.
Donna Rosa era focosa. Esplosiva.
Erano caduti distesi uno sopra l’altro. Sazi d’amore e di calore, sazi di piacere.
Carne, fiamma e bramosia.
Lei aveva acceso una sigaretta. Splendida avvolta nel fumo.
Ah Fabri…mi fai morire
Il respiro affannoso e gli occhi stanchi.
E lui l’aveva guardata e gli aveva detto che era bella, bella e bella.
Poi Donna Rosa era tornata tra le vie della città, con le spighe tra i capelli e lo sguardo ardente, e i giorni erano ripresi.
Una notte Fabrizio era stato costretto a fuggire, nel buio, sopra un treno senza addii.
Un coltello nell’oscurità, luminoso e veloce, per chi aveva guardato Donna Rosa. Un colpo nel buio per chi aveva desiderato un corpo che era suo.
E Fabrizio se ne era andato, silenzioso e triste, dopo aver appeso al collo la catenina di lei. Dopo l’amore fatto da cani, in un letto disfatto.
E aveva scritto qualche lettera da quella terra lontana da cui non sarebbe più tornato.
Ma Donna Rosa aveva un cuore ribelle, indomabile.
Il suo fuoco ardeva troppo caldo per essere imprigionato da un solo uomo.
Lei era una lupa, una pantera, una temibile fiera dagli occhi rossi e il corpo sinuoso.
Scese in piazza una mattina e il suo sorriso riprese ad incantare tutti.
Il commissario si recò a trovarla, intimorito e stanco di quel paese di arsura, perché con Donna Rosa era arrivato anche il caldo.
Bussò alla porta con colpo severo, lui era la polizia in fondo.
Lei indossava una vestaglia bianca. Duro lavoro il poliziotto, troppe domande. Che fine ha fatto Fabrizio? Perché è scappato? Lo sai che ha ucciso un uomo?
Ma Donna Rosa piazzava lì quello sguardo innocente e alzava le spalle dispiaciuta
-A me mi piaceva commissà, al mio fianco lo volevo, le pare che se sapessi dove sta non glielo direi?-
Femmina furba.
Femmina furba e sola, incastrò anche il commissario. L’amore sul pavimento come due brutti amanti, con ancora la camicia e il distintivo addosso.
Anche la legge cedeva a Donna Rosa.
Un giorno tutte le donne del paese si misero d’accordo per scendere in piazza a discutere.
Se Padre Gianni non voleva far niente e la polizia era corrotta ci avrebbero pensato loro a sistemare quella lì.
Ma proprio quel pomeriggio Donna Rosa passeggiava vicino a Nonno Anselmo, il più vecchio della città, aiutandolo a portare la spesa.
Lui le parlava come ad una figlia raccontandole della donna che aveva amato tanti anni prima, gli occhi pieni di tristezza.
E allora nessuno osò avvicinarsi, non si disturba Nonno Anselmo.
Le cose proseguirono in quel modo per molti giorni, ogni volta che si perdeva di vista un marito si gridava al furto d’amore.
I bar alla sera erano vuoti, gli uomini erano a casa, guardati a vista.
Solo il sabato sera potevano uscire. Si accompagnano le moglie a ballare.
E una notte anche Donna Rosa decise di seguire il suono di quella musica.
Un abito nero come la morte, il seno gonfio e le labbra più rosse che mai.
Mosse i tacchi sul selciato fino all’entrata della Milonga.
Ci fu quasi silenzio quando entrò.
Le donne la fissarono sbalordite, non poteva andare anche lì.
Gli uomini scricchiolarono sulla sedia. Pronti ad invitarla.
Chi avrebbe osato stringerla fra le braccia? Uno di loro l’avrebbe condotta con sé quella notte.
Lei guardò dritto davanti a sé e si sedette su uno sgabello al bancone.
Rum. Un bicchiere con ghiaccio, freddo gocciolante.
Le luci della milonga sulla pelle leggermente sudata.
Il fuoco di Donna Rosa ardeva.
Poi Paulo le fece un cenno dal piano. L’aveva vista dall’entrata e l’aveva capita subito.
Tolse le dita dai tasti e nel silenzio le porse la mano per invitarla a seguirlo.
La fece poggiare sulla coda scura dello strumento, buio come il suo vestito, poi tornò al suo posto.
-Canta per me-
Si sistemò i capelli bianchi e il solito smoking scuro.
Bevve un bicchiere di vino, ne aveva bisogno, poi poggiò le dita e riprese a suonare.
Gli occhi di tutta la sala sul volto di Rosa.
Ed iniziò a cantare.
Un brano che portava l’odore del mare e del vento, della sabbia e del sole.
Un canto di coltelli, di cocktail e malinconia.
La voce profonda e bella, commuovente.
Nel cuore di tutti svanì la rabbia e la gelosia: c’era posto solo per la tristezza. La perdita del paese che si è amato, delle persone care, il bisogno supremo di ogni persona: amare ed essere amati.
Perché era questo che faceva Donna Rosa, lei non rubava i mariti, lei amava ed era amata, per una sola ora.
E ogni donna cercò di imparare da quel canto di terre lontane, terre Argentine e terre Siciliane, terre di tango.
Le lacrime scesero dagli occhi di Paulo, mai aveva trovato qualcuno che desse una tale voce ai suoi suoni.
Ricordò la sua giovinezza, il suo amore per la musica, ricordò il suo primo pianoforte.
Quando la canzone svanì nessuno osò aprir bocca, rimasero tutti immobili, come incantati, in attesa di svegliarsi da quella strana magia.
Donna Rosa passò fra tutti, lentamente, e si allontanò nei vicoli scuri della città. Nessuno seppe mai dove fosse andata, forse a sdraiarsi nei raggi della luna alla ricerca della stessa stella che guardava dal patio di casa.
Ma quella notte dormì sola.
Nei giorni seguenti le cose cambiarono. Tutto iniziò con un piccolo gesto, un cesto con della frutta sotto la finestra di Donna Rosa.
Sa, sono passata al mercato e ho pensato di comprargliele.
Un aiuto per pagare l’affitto.
Fra donne bisogna aiutarsi.
E la vita riprese a scorrere inesorabile. E se ogni tanto spariva qualche marito nessuno ci faceva più tanto caso. Donna Rosa in fondo era una brava persona e poi gli uomini tornavano sempre più innamorati di prima.
Quando qualche giovane si allontanava le madri si guardavano complici.
Come biasimarlo, dicevano, in fondo si sa, non si può resistere:
Donna Rosa è una vera Siciliana.

Tango argentino