Leggete e Tacete

Che dire di Antonio Tacete, «questa sorta di vin Santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park »? Soprattutto: che dire di Tacete, che non abbia già detto lui, nascondendolo apertamente nella vanvera vorticosa d’una scrittura di ripugnante attrattiva? Il paragone immediato e blasfemo, giusto per non far torto alle sue non comuni aspirazioni, alle sue ardue traspirazioni narrative, è con un premio Nobel della letteratura: il cinese Mo Yan. Uno pseudonimo che significa «colui che non vuole parlare». Ora, immaginatevi che razza di buffo rendez-vous continuamente mancato sarebbe quello fra uno scrittore parmigiano che ha scelto come nickname l’imperativo «Tacete!» e il suo celebre collega, l’autore di Sorgo rosso, che dal canto suo non ha alcuna voglia di parlare. Ma potrebbe invece trattarsi d’ uno di quegli incontri fortuiti fra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico auspicati da un certo Lautréamont… E qui il vecchio Carl Gustav Jung andrebbe in brodo di giuggiole per via di una coincidenza straordinariamente significativa: l’autore dei Canti di Maldoror ha infatti avuto l’arduo privilegio di legare la sua morte alla nascita di Tacete. Come ci racconta col suo stile inconfondibile, costui è infatti nato proprio il 18 marzo del 1970, «un secolo esatto dalla morte dello scrittore Isidore Ducasse detto conte di Lautréamont, lui poeta benigno, l’altro poeta maleficissimo, un giorno prima della fiera di San Giuseppe, dove nonni gobbini portavano i nipoti pupattoli a vincere pesci rossi ». Questi nonni gobbini sono già gli antesignani del nano Villa e della corpulenta nonché crapulenta corte dei miracoli che si aggira spetezzante e sogghignante nelle pagine di Le lucciole nella lana delle pecore, carnevalesco sabba di parole che solo un coraggioso capitano di ventura come Mario Guaraldi poteva aver l’ardire di pubblicare. Come vedrete dalle paginette che TheLivingStone ha scelto, infatti, la prosa di Tacete non è per nulla accomodante. Può forse peccare di narcisismo, ma non di quella consolatoria ipocrisia che costella tanta narrativa italiana, soprattutto quando si finge dedita a scopi altamente sociali. D’accordo: Tacete è uno scrittore arrogante: solo un losco figuro può ordinarci così perentoriamente di tacere, arrogando unicamente a se stesso il diritto alla parola. Ma se vi azzardate a seguire le mille capriole verbali di questo stramboide, se vi lasciate catturare dal suo mondo teratofilo e blasfemo, da quell’immaginazione grottescamente copulante e dalla sua indisponente malalingua, capace di farvi prendere lucciole per lanterne e viceversa, avrete l’ambiguo e silenzioso privilegio di gustarvi una prosa irta, inconciliata e mai paga, che vi appagherà non poco. Tacete, dunque, e leggete.

Roberto Barbolini

Antonio Tacete – Le lucciole nella lana delle pecore

 

Per gentile concessione dell’editore Guaraldi, pubblichiamo i brani iniziali della vanvera narrativa  Le lucciole nella lana delle pecore di Antonio Tacete.

Il noce

Villa il nano ed Uringrissin, un torinese dotato di un pene che, se in erezione, era sottile e lungo come un grissino, andarono a trovare nella sua abitazione umidiccia di Via Pontremoli il barbiere detto Scravata che raccontava ilarità e barzellette, come quando ad Abbiate Grasso era giunta su un pullman una comitiva di lottatori di sumo e il torinese ridolava ed inframmezzava al riso esclamazioni del tipo di ‘neh’. così giunsero a Noceto, in un casolare dal cortile erboso della corte dove si ergevano noci giganteschi e nel cui pollaio videro un uovo schiudersi e crepare e nascere due pulcini contemporaneamente. L’indomani, il giorno di San Martino – l’estate d’inverno – per la festa dell’omonimo santo nella chiesa a lui intitolata, in un fondale-piscina pieno d’acqua della sagrestia, assistettero alle battaglie navali dove, su gusci di noci giganti come se queste fossero botti grosse da 5000 mila litri di vino, con per alberi rami di noce munito di vele, paesani combattevano a colpi di cannonate sparanti palloni per affondare l’altrui nave.

 

La Spalla cotta di San Secondo

Un nano di San Secondo detto Spalla innamorata San Secondo – nel paese che si chiamava così perché nei pranzi il secondo non toccato, vergine, veniva sostituito dall’antipasto del salume di prosciutto, fatto con la parte superiore dell’arto anteriore del maiale – sostava a Busseto dove, in quel momento, il musico Verdi era salito su una carrozza a forma di cigno e smaltata di bianco e invitò l’estate successiva Villa il nano in un coltivo immerso dal mare verde di un’onda di cavallette, alcune giganti e verdi come draghi, ed in cima al mucchio immenso faceva capolino un grillo nero e così Villa il nano assistette anche al Palio nel paese dove cavalieri dovevano infilare aste a forma di lunghissime dita indici stando in equilibrio sul cavallo in un anello sostenuto a mezz’aria da un saracino e due delle contrade erano la ‘dragonda’ ed il ‘grillo’: simbolo delle invasioni di orteotteri e di pulcensi nei campi. Dopo l’agone del palio c’era la fiera e Villa il nano vide davanti ad un banco di dolciumi un nonno chiamato di cognome Vescuovi con il suo pupattolo nipote detto Bimbiberon, che rimiravano i croccanti a forma minuscola di rocche parmensi, come se fossero fatti di mandorle con calce di miele e comprarono il castellino di Soragna e se lo sgranocchiarono mentre nella calca della sagra il nano scorse incedere a carponi un quarantesimo cugino del marchese Meli Lupi al quale, imprigionato nelle prigioni del feudo da quel dinasta parente, erano cresciuti peli spessi da lupo, e proprio come questa bestia camminava appoggiandosi come alle zampe, alle braccia e alle gambe. Con il comico mercenario nonché capitano di ventura chiamato Ubertosacqua, il nano Villa giunse a Soragna dove piovevano dal cielo mele a forma di teste di lupo e peli neri di questi animali voraci.

 

La barba fluente

il poeta gobbo Leopardi, ospitato a Napoli nella casa dell’amante letterato Antonio Ranieri, preparandosi un minestrone scambiava il pentolone pieno di verdure per la selva oscura di boschi di fagioli, carote e sedani dell’inferno rosso infuocato di passata di pomodoro in cui, incuriosito come l’Alighieri, sfidando i bollori voleva entrare nella bocca della pentola gigante come se fosse l’ingresso di un girone infernale. Dopo aver sorseggiato la pietanza il recanatese ed il napoletano fecero sesso su un letto matrimoniale. Un leguleio partenopeo dalle scorregge legumiche aveva processato la camorra che regalava a Leopardi bocconcini giganti di mozzarelle, pizze, maccheroni, confetti, strufoli, pastiere, barrette di cioccolato, gelati, zabaioni, limoncini e carne d’asinina da fare in umido, doping del poeta per scrivere i suoi versi. La notte dopo il coito il figlio di Monaldo fece sogni stramboni e in una visione onirica vedeva crescere la barba fluente ad un regnante Borbone la cui peluria risaliva lo stivale italiano impossessandosi e ricoprendo la sua crosta terrestre fino ad arrivare con la punta ricciola della bazza allo zerbino dell’abitazione torinese di Cavour e su questo tappeto peloso il Leopardi si sognava di giungere in Sicilia a mangiare babà e cassate. Nel sogno si sognò con l’amico di giungere nel Granducato di Toscana dove allora regnava Leoppolodo, precisamente al Palio di Siena, che vinse un fantino gibbo come lui chiamato il Santini detto Saragiolo, che portato in trionfo dai contradaioli e denudato da questi mostrava questa gibba sulla schiena a forma minuscola di un groppo del Monte Amiata detto Saragiolo, dal quale aveva preso il nomignolo.

Le due Iris di Shalev

Iris è una donna israeliana di quarantacinque anni che vive a Gerusalemme. Ha una famiglia – un marito e due figli grandi – e un lavoro in cui mette tutta se stessa: è direttrice in una scuola dove si tenta con coraggio e tenacia l’integrazione tra arabi ed ebrei, è stimata da tutti. Dieci anni prima è rimasta coinvolta in un attentato a un autobus, passava di lì nel momento dell’esplosione (a causa di un cambio di programma forse imputabile a un tradimento del marito) e ha riportato gravi ferite per le quali ha subito interventi chirurgici e lunghi periodi di ricovero. Dopo un decennio di relativo benessere fisico, improvvisamente il dolore fisico si risveglia, lancinante, insopportabile. “Devo aver  fatto un movimento sbagliato, prendo una pastiglia e vado a lavorare” dice a Michi, il marito che la soccorre spaventato.

Zeruya Shalev, Dolore (Copertina)

Invece il dolore non passa, anzi peggiora. Così decide di interpellare un luminare nel campo della terapia del dolore e qui un’incredibile coincidenza le fa reincontrare l’unico vero grande amore della sua vita, Eitan, con cui a diciassette anni aveva vissuto una storia travolgente e che l’aveva abbandonata dopo la morte della propria madre, amorevolmente assistitita da Iris per tutta la malattia. Dopo l’abbandono lei era caduta in una profondissima crisi e aveva trascorso mesi di completa abulia, sfiorando l’annientamento fisico e psichico. Da allora non l’aveva più incontrato. Iris decide di rivederlo, lo cerca, chiede insistentemente alla sua segretaria un appuntamento per un’altra visita. Le pare che la sua vita possa finalmente uscire dai binari grigi su cui ha proceduto per vent’anni con un matrimonio insoddisfacente, con un uomo che non è quello giusto e con cui ha generato due figli che dovevano essere invece i figli di Eitan. La sua vita può riprendere il corso naturale che per un errore era stato abbandonato. Per caso, proprio in quei giorni viene a sapere che Eitan, poco tempo dopo l’abbandono, era andato a cercarla per tentare un riavvicinamento. Ma lei quel giorno non era in casa, e lui, cacciato in malo modo dalla madre, non l’aveva più cercata. Questa tremenda beffa del destino la convince ancora di più a perseverare nel suo tentativo di riavere l’uomo che è stato la sua gioia e la sua rovina e di recuperare il tempo perduto. E ci riesce. I due riprendono la relazione lì dove l’avevano interrotta, convinti di poter cancellare con un colpo di spugna i decenni di lontananza e le nuove vite che nel frattempo si sono costruiti. E subito Iris si caccia in situazioni che sfiorano il grottesco – nel giardino del condominio dove abita Eitan, di sera al buio, nascosta come un ladro nel folto di una siepe, o a casa sua, dove, febbricitante, in pagine tra le più riuscite e divertenti del libro, riceve l’amante-medico senza accorgersi della domestica che li sorprende in atteggiamento quantomeno sospetto e alla quale lei fornisce spiegazioni decisamente inverosimili.

Mentre il desiderio di rivedersi si fa ogni giorno più impellente e si scontra con le complicazioni della vita familiare e lavorativa di entrambi, Iris scopre che sua figlia Alma è in pericolo: a Tel Aviv dove lavora è caduta nella rete di una setta a capo della quale c’è proprio il titolare del locale dove la ragazza fa la cameriera. E subito si affaccia il pensiero che, se vuole salvare la figlia, dovrà rinunciare all’uomo che ha appena ritrovato e che cerca di convincerla a lasciare la sua famiglia per cominciare una nuova vita con lui. L’aut-aut è immediato nella sua testa. Così come non riesce a cogliere l’opportunità di un incontro che, comunque, sarà un nuovo incontro e continua a riproporre la messa in scena di un canovaccio ormai defunto da secoli, allo stesso modo Iris non riesce a tenere separati i fili della sua esistenza, ciascuno con la propria responsabilità, i propri sentimenti, il proprio tempo, e ha bisogno di barattare l’uno con l’altro, senza riuscire a venire a capo di niente. Se io rinuncio a Eitan, allora Alma si salverà. Questo il pensiero che guida le ore frenetiche di Iris a Tel Aviv. Dopo una sequenza drammatica in cui, nel tentativo di impedire ad Alma di distruggersi con le proprie mani, Iris rischia di finire un’altra volta in ospedale, nelle ultime pagine la famiglia si trova finalmente riunita al suo capezzale, in un quadretto che cerca di ricomporre un’armonia mai esistita, e dove traspare un senso di incompiutezza molto forte.  Se è vero infatti che Iris non può pensare sul serio di riesumare come se niente fosse una storia che aveva vissuto all’età di diciassette anni (e la scena in cui Eitan, in trattoria, la costringe a ingoiare della carne, a lei che da vent’anni è vegetariana, lo dimostra con una violenza che nessuna spiegazione avrebbe potuto esprimere e misura l’abisso che in realtà separa i due amanti), è altrettanto vero però che nel libro non si spiega mai cosa veramente c’è stato di “necessario” nella storia con suo marito. Michi per tutto il libro ci appare una figura di contorno, insignificante. La domanda che il lettore si fa dall’inizio del libro è: “Ma perché lo ha sposato?”. Le figure femminili (Iris, Alma, l’amica Noa con la figlia Daphne) sono ben delineate, vive, si impongono al lettore. Quelle maschili invece (Michi, Omer, perfino Eitan, che a un certo punto Iris comincia a chiamare Dolore) sono sfuocate, sbiadite, incoerenti. Ma, nonostante tutto, l’autrice sembra incapace di credere che un’altra storia, al di là di quella fantasticata e di quella reale, sia possibile. La scelta per lei è tra la farsa di un amore tra liceali e il presente, a cui lei attribuisce un valore “a prescindere”. E infatti, nelle ultime pagine, alla figlia che le dice “Dolore ti ha cercato” e che chiede spiegazioni su quest’uomo dal nome bizzarro, Iris confida:“ [È stato] il mio primo fidanzato. L’ho rivisto per caso nello studio medico, qualche settimana fa”, e Alma la ascolta interessata: “L’hai rivisto dopo trent’anni? Allora è per questo che stanotte l’hai sognato! Davvero sembra un sogno!”. “Hai ragione, non fa parte della realtà” mormora Iris … “è una specie di fuga dalla realtà,” e Alma dice: “che c’è di male nella fuga?”, e sua madre esita un attimo, prima di rispondere: “quando si scappa non è mai libertà”.

Il presente di Iris tuttavia in realtà è la greve storia di un attuale senza passione, senza posta in gioco, segnata solo dal dolore fisico che non dà tregua e dal legame creato dal lavoro e dai figli. Non una parola riscatta davvero questo presente, dove per tutti a dettare legge è il senso del dovere e l’impegno quotidiano. Come a dire: nel presente non c’è posto per il sogno e l’amore, solo ciò che accade sul piano del reale conta davvero. Non a caso, sarà la figlia rientrata all’ovile a gettar via il biglietto di Eitan, nel quale egli aveva scritto a Iris “Torna da me”.

Una scrittura potente quella di Zeruya Shalev, verrebbe da dire quasi maschile, senza tentennamenti, senza mezze misure. Travolgente, brillante. In questa storia senza pause si piange, si ride, si mangia, si beve, si suda. I corpi sono ora puliti e profumati, ora sporchi e puzzolenti. Come le strade, le città e le case in cui i personaggi della storia si muovono. Immagini dai colori saturi, le sue, che vengono da un altro mondo, quello di Israele, dove la vita e la morte, il bene e il male, i sentimenti, le percezioni sensoriali, le parole hanno il rigoglio di un tempo arcaico, sono esposti alla luce di mezzogiorno. Una scrittura che rimbalza di continuo dal tempo attuale – fatto di cellulari, computer, messaggini, rumori di città, auto nel traffico, cosmetici, negozi, ospedali – al tempo biblico, scandito da altri ritmi e altri suoni, un tempo sospeso che ricorda l’eternità e la morte, ciò che – come il dolore per Iris – non passa e insiste.

Dolore, di Zeruya Shalev, sul sito dell’editore

Un progetto di lotta poetica

In un’epoca contrassegnata da un narcisismo di massa, anche nel caso della poesia lirica lo “io” dell’enunciazione poetica, per essere tale, deve superare lo “Io” esistenziale, quello del poeta. La poesia non appartiene a nessuno e nutre tutti coloro che ne hanno bisogno vitale.

Nel discorso quotidiano, nella comunicazione in una lingua che ci accomuna, le parole indicano direttamente le cose, persone, temi, gossips ed evaporano immediatamente lasciando la scena alla persona, cosa, evocata-indicata. L’autonomia che caratterizza il discorso poetico integra il nominato in un mondo altro che non evapora e permane finché avrà dei lettori.

Tomaso Kemeny

In un’epoca, di perverso soggettivismo, può anche meravigliare il fatto che le maggiori opere della nostra tradizione appartengano all’ordine didascalico, storico o mitico. Basti ricordare l’Iliade, l’Odissea, il De rerum natura, le Georgiche, l’Eneide, la Divina Commedia, la Légende des siècles… La forma poetica che unisce il sogno individuale al sogno collettivo e all’immaginario è quella nutrita da tensioni mitiche, tensioni in grado di trascendere il pensiero etnocentrico che ci lega alla nostra patria per aprirci al pensiero circolare delle origini comuni, quella che esige il sentimento di una fratellanza primigenia.

In ogni caso la grande poesia apre al lettore una “realtà” altra, unendo indissolubilmente il senso evocato alla lettera e alla sonorità, impregnando, sospendendo la razionalità nel sogno ad occhi aperti o nella visione. Il poeta contemporaneo ha la possibilità di tracciare frammenti integrabili in un organismo vivente, correlativo oggettivo dell’universo in espansione ipotizzato dalla scienza.

Ma per fare questo il poeta deve attivare una pluralità di punti di vista confermando il discorso poetico come una forma di energia plurima in ricominciamento permanente.

In un presente oscillante tra la pulsione di morte e di possesso, la grande poesia trasfigura i semi di morte del linguaggio comune in una meravigliosa fioriture in fieri. Evitando cristallizzazioni verbali, e costruzioni di languore, di nostalgia e speranza in “poetichese”, si chiede al poeta di amare tutto senza chiedere nulla.

In un mondo taroccato, dove tutto ha un prezzo e nulla un valore, si chiede al poeta di imprimere nel tempo quella energia metamorfica da cui sorgano quei valori estetici che sono anche autentica e profonda moralità.

 

È il sentimento del sublime ad accendere la lotta all’Impero del Brutto, mentre il pensiero mitico favorisce l’irruzione del sacro evocando nuove avventure per l’immaginazione, mentre solo la passione poetica potrà tradurre in parole umane il sogno infinito che dimensiona l’Universo.

Insomma, quando un testo poetico oltrepassa i limiti dei discorsi codificati e codificabili e innalza la lingua madre nel meraviglioso della creazione; quando il verbo poetico apre il mondo all’eterno ritorno alle origini, l’immagine dell’inizio si manifesta come abbagliante e, allo stesso tempo, non del tutto visibile. Al di là della luce della pura riflessione, ci sconvolge l’enigma non del tutto penetrabile dell’immagine che precede pensiero e la stessa immaginazione consapevole.

Se le parole sciolgono e vincolano alle cose, le immagini suggeriscono legami impossibili o perduti. Dalle buie caverne del sogno a occhi aperti, l’uomo adulto percepisce il linguaggio delle immagini, immagini le cui correlazioni, da svegli, sfuggono al controllo della veglia. Impersonale, il linguaggio delle immagini non è confinabile nell’anima infantile o primitiva. Esso connota la solitudine infinita dell’uomo, che come nei sogni, non si percepisce nella forma della coppia o di un insieme più o meno numeroso di persone. Animata dal ritmo nascente, l’immagine poetica porta a naufragare la gioia visionaria e il canto nell’enigmatico residuo accecamento, in un silenzio solitario e onnivoro.

Se tutte le forme dell’arte si concretizzano nel linguaggio della bellezza, è la parola poetica, e la sua sete di assoluto, a portare a trascendere con più vigore lo “io” solitario del fruitore in un “noi” di varia consistenza, di gruppo, di appartenenza ideologica o nazionale, o di universale fratellanza, a seconda delle sensibilità del lettore.

D’accordo con Callicle, e il suo “os pleiston epirrhein” (“versare il più possibile”), penso che solo l’eccesso possa fronteggiare le miserie della mediocrità e del risparmio; aiuta anche a lottare lottare, senza requie, contro l’Impero del Brutto. Guerra dichiarata, sotto le bandiere della bellezza insurrezionale, dal Mitomodernismo negli anni ’80 e oggi perseguito dal movimento internazionale Poetry and Discovery alimentato dall’impegno di chi scrive insieme a Flaminia Cruciani (nome di battaglia ‘Nothung’), Pietro Berra, Paola Pennecchi, Angelo Tonelli, Germain Droogenbroodt, Mirna Lopez Ortiz Chicca Morrone, Géza Szocs, Endre Szkàrosi e altri che convergono con il loro entusiasmo insostituibile nel tentativo di rovesciare il Dio Denaro del suo trono, per l’invenzione di un percorso nuovo rischiarato dal lampo dell’immaginazione al grido “Fight for beauty!”.

Se il cosiddetto “uomo-medio” può esibire solo un’identità incerta, tanto da apparire interscambiabile, il poeta percorre i confini estremi della depravazione e della santità per affermare, al di là di un avvenire ordinario, che la bellezza non si fondi sulla proprietà di cose (come avvertì anche la psicanalista lacaniana Adele Succetti), persone, oggetti, ma sulla capacità di fare vivere e rivivere l’esperienza, drammaticamente incompiuta, dell’interiorità individuale e collettiva coll’assoluto.

In questa prospettiva ho assunto l’impegno assegnatomi da Jaca Book, nella persona di Vera Minazzi, a realizzare una collana di poesie (“Cantos”) che segnali la vitalità della poesia in Italia e nel Mondo. Chiudo il discorso con il pentalogo denominato Il piccolo io e l’universo:

  1. Basta
    con la cristallizzazione delle menti, con i vulcani spenti dell’immaginazione
  1. Basta
    col pensiero immerso nelle paludi del piccolo io, basta con i sensibili parrucchieri dell’intimità.
  1. Nessuno dorma
    rimirandosi negli specchi di versi vuoti stuzzicorecchi mentre si inspessisce la complessità del reale.
  1. La grandiosa bellezza
    iscritta nella materia dell’universo sia la guida iniziale per la nascita di un noi universale.
  1. Sotto la minaccia di un istupidimento mondiale, lavoriamo alle genesi mitica di una nuova luce aurorale.

 

 

Tomaso Kemeny
Febbraio 2017

Incontri possibili

A Correggio in Piazza Francesco c’era la  curiosa sartoria Soffici dove si davano appuntamento artisti più o meno coetanei.

Maso di Banco allestiva le vetrine e Lucio Fontana andava a farsi cucire i tagli da Andrea del Sarto. Del Guercio invece la evitava perché spesso era frequentata dal Guercino.

Qualche volta capitava che qualcuno portasse prelibati piatti, Sebastiano Ricci arrivava con degli spaghetti e Francesco Cozza con dei gamberi.

Il Sodoma vi passò per assaggiare un Parmigianino sul Carpaccio.

Antonio Badile, amante di Antonio Campi, un giorno disse che a Brindisi dei Soldati armati di Tamburi e Pistoletto stavano sparando a Paolo Uccello con delle freccette di Antonio Balestra.

Pietro Bracci, dai gambi corti, replicò: “Füssli che Füssli la volta bona!”.

Un giorno un uomo Aalto e Nigro venne a bottega e raccontò la storia di un Cantatore Greco al quale mancava una Rotella e di un manipolo di guerrieri sulla Costa del Fiume che dicevano che ci sarebbe voluta la protezione di Angeli custodi e la cura di Dottori. Si fermarono sotto un Albers mangiando Del Pezzo di Pomodoro e del Nespolo. Sopra un Sassu il Paladino Clemente incise con ferri di Fabbri le parole: “Che Dio ci Guidi”. All’improvviso giunse una Vedova in Bianco urlando: “State attenti che il Burri non si Cagli!”

L’apoteosi fu raggiunta durante una gran festa quando Botticelli esclamò: “Che Bellini quei Martelli in Lega di Bronzino!”.

Il Pollaiolo volava su Jacopo della Quercia, felice di aver messo Radice in profondità.

Fuori, dal Piazzetta al Canaletto, ci passava un Lotto.

Medardo Rosso, che ne aveva abbastanza di Rosso Fiorentino, considerava le manine di Segantini troppo piccole per i polsi di Tiberio Calcagni.

Ma ci fu una gran confusione quando si scoprì che Andrea Sacchi se la faceva con lo Squarcione.

Pas d’adieu

“Ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…”
Cristina Campo

 

Ogni addio compiuto ha varcato una soglia e diventa misura del tempo per ogni «storia smisurata», antidoto contro la presunzione di eternità di una vita, di un legame.

Dire addio oltrepassa il potere della parola, della nostalgia e del rimpianto, figli dell’amore perduto che per un tempo infinito ha continuato a sedurre e catturare dolcemente.

È nella poesia che Graziella Savoldi cerca questa misura, in una lotta con la parola che in questo tempo della sua vita ritrova spoglia, disabitata da una voce, come ogni traccia del passato che incontra nel suo andare. Poesie erranti che cercano casa in un paesaggio inciso da una storia primordiale scavata dal tempo, forme di minerali nella roccia, stalattiti rinchiuse nelle grotte, elementi che da tempo immemore custodiscono l’estraneità che insiste nelle cose. Un’estraneità che appare a torto addomesticata dall’illusoria familiarità di un bosco, dal corso inarrestabile di un fiume, da un cielo stellato. Ma passo dopo passo, questo paesaggio diviene inquietante, silenzio senza presenza, ostile perché resiste al ricordo, preferendo narrare del cammino di quei due viandanti che cercavano insieme «una strada nell’infinito» e hanno trovato invece «l’inconsapevole corsa» che porta su strade diverse.

Se il silenzio appartiene ad ogni congedo, poiché fa i conti con una parola perduta, sempre evocata, orfana della voce, del tocco dell’altro; il ricordo è balsamo per la memoria, perché fa accadere l’accaduto ancora una volta, riordinando quelle tracce e quelle impronte, quei suoni e quegli sguardi che l’assenza rapisce, e consuma avidamente. Allora, nel paesaggio che arresta il suo divenire troviamo, come cristalli nella roccia, i reperti di un sogno spezzato; ripercorriamo i cammini nella conta dei passi, come in un’antica mappa che non può guidarci al mutar delle cose: “ritorno sull’acqua passata e cerco nell’acqua più fonda un luogo dove nacque l’addio”. Ma l’acqua del fiume porta via irrispettosa ogni residua possibilità.

È un aggirarsi tra tracce dissipate (20) in cerca del luogo dove quell’addio è incominciato, per poterlo finalmente nominare, fermare, custodirlo, trasformandolo in un altrove dove le parole non dette “rimaste nella… bocca” possano avere un’altra possibilità, ritrovare la fenditura di una voce per vivere ancora tutte le occasioni mancate. Uno sguardo distratto, un cammino incerto hanno trattenuto invano quel bene perduto “inciampo sempre nei passi non fatti”. (31) Si cerca l’antica forma creata dagli occhi di un altro, rubata a uno sguardo catturato allo specchio, come un vestito da indossare ancora, ingannando il tempo.

Ma è concesso alla parola, unicamente alla parola, speranza di durata, affidandole le tracce preziose di un incontro, come sigillo o voto mai pronunciato?

Come l’acqua del fiume le parole andarono. E non tornarono più”, disabitate dalla voce dell’altro.

Eppure quell’incontro aveva inaugurato un tempo inaspettato, nomi nuovi che spezzavano la storia, un cammino inedito che risveglia una “lingua non parlata” rimasta in attesa; si schiude per la prima volta qualcosa di ignoto di cui solo un altro possiede la chiave. «Il tocco delle tue mani portava il richiamo della lingua non parlata». (p.11) Un nuovo creato prende forma quando la parola si addensa della potenza dell’altro che reinventa le cose, del suo sguardo, del suo riso: «Una risata… che irrompe e conquista la terra» (39), una terra inviolata, luogo di privilegio degli amanti «dove ogni piede alzato fu un passo. E inventò la strada», ma «in punta di piedi la vita ci piegò tra preghiera e peccato».

In agguato, senza farsi sentire, all’insaputa degli amanti, la vita spezza il filo dell’aquilone. Non bastano più mani di bambino a trattenere l’amore, perché «il serpente e l’albero della vita svaniscono nell’ombra».      Cacciati dall’Eden e condannati al mondo, rimane agli amanti solo l’eco lontana e irresistibile di ciò che è stato, come canto di sirena che li condanna a cercare ancora tra quelle macerie, in una terra d’esilio oscura e dolente.

Ma forse è proprio in esilio, all’ombra di una certa luce che aveva abbagliato, che ci è concesso di lasciar andare l’orgoglio, la pretesa nei confronti di un altro, l’illusione di essere quella tessera indivisibile e necessaria al suo esistere, quell’irrinunciabile pezzo mancante. Si ripete, allora, inesorabilmente il precipitare improvviso e senza fiato che appartiene già ad ogni infanzia, ad ogni bambino che impari a giocare con l’assenza. Gioco inconsapevole che inaugura un altro cammino, quando tace ogni domanda insistente e si distrugge il patto misurandosi con l’impossibile di ogni esistenza umana.

Nella poesia di Graziella Savoldi prende corpo una simile impresa: perduto ogni luogo e ogni tempo anche il paesaggio si rinchiude come il desiderio  «lama affilata che taglia il giorno e la notte».

Ora che il patto è sciolto, le tessere divise e l’altro introvabile, non bastano due mani che si annodano per scongiurare l’impossibile, filigrana invisibile della vita dell’uomo. Essa rivela nel silenzio che “Io. Tu. Noi… Nessuno. Siamo rimasti miraggi. Vacillanti nell’aria calda dell’estate”. (25) Il silenzio ne aveva annunciato la sorte, separando, come squarcio crudele, i due viandanti per riportarli nella storia.

Si spegne così la luce accecante delle infinite strade che si erano aperte e rimane solo l’ombra di un’assenza.

Tra le mille possibilità di una vita, una sola può essere presa, coltivata, desiderata, una piccola vocazione che tagli via ogni paradiso perduto. Proprio qui costruiamo ogni volta il luogo dell’addio, come per un appuntamento irrevocabile, quando un passo si muove e va oltre.

Sei sculture

Oggetti volanti su fondo rosso (tela garza, acrilico smalti su tavola; dimensioni: 230x130x10)
Figura con meteore (tela, rame, cemento acrilico smalti su tavola; dimensioni: 230x130x20)
Appunti di viaggio (tela, garza, acrilico smalti su tavola; dimensioni: 230x130x5)
Guardiani attorno ad un covone (garza, metallo, gesso, legno, stoffa acrilici smalti; dimensioni: 220x75x75)
Viaggio dell’idolo verso la meta (rame, legno, acrilico, smalto, ferro; dimensioni: 120x150x45)
Totem circondato da 5 animali (rame, legno, stoffa, acrilici, smalti; dimensioni: 180×65 totem, animali 120x45x140)

Giuseppe Novello e Il Guerin Meschino

Giuseppe Novello (Codogno 1897 – 1988) è stato uno dei più grandi disegnatori umoristici italiani del Novecento, le cui vignette hanno varcato i confini nazionali, per confluire in libri, albi e riviste, tedesche, spagnole e francesi.

Nel 1929 grazie al successo di La guerra è bella ma è scomoda, 46 tavole – come la 46° compagnia del battaglione Tirano di appartenenza di Novello durante la Ia Guerra Mondiale, dove fu ufficiale degli Alpini e con il testo di Paolo Monelli (Fiorano Modenese, 1891 – Roma,1984) col quale per lungo tempo ha condiviso numerose imprese editoriali -, approda al «Guerin Meschino» fra i maggiori giornali umoristici del tempo, in un periodo nel quale dopo le leggi emanate dal Fascismo dal 1922 al 1925, per limitare la libertà di stampa, era difficile fare satira di impegno politico e la maggior parte dei giornali umoristici si dedicava a quella di costume.

Nella Guerra è bella ma è scomoda il disegno di Novello è sintetico, calligrafico e brulicante, ricco delle figurine caricaturali degli alpini, di intensa stilizzazione, simili alle figurine di Attilio Mussino comparse sul «Corriere dei Piccoli» negli anni della Grande Guerra. A metà del 1929 Novello inizia la breve collaborazione (un semestre circa) al «Guerin Meschino» la storica rivista umoristica milanese fondata nel 1882, che ha avuto fra i suoi disegnatori Luigi Conconi, Amero Cagnoni, Aldo Mazza, Giuseppe Russo (Girus),  Giovanni Manca, Vellani Marchi, e molti altri maestri ed amici di Novello.

Il ritorno del Parini

La prima tavola di Novello sul «Guerin Meschino» compare nel numero del 9 giugno 1929, ed ha per titolo Il ritorno del Parini. La tavola satireggia le esuberanze atletiche contemporanee del giovin signore: aeroplano, moto, sci, calcio. Un disegno molto ricco di movimento, a più quadri, con il giovin signore e la caricatura del Parini e la didascalia: «Mi rallegro giovane signore della mollezza ben guarì… Piuttosto mi spiacerebbe che, per troppo ardore, ora cadesse nell’eccesso opposto».

Dopo l’abolizione dei concorsi di bellezza

Il 16 giugno Dopo l’abolizione dei concorsi di bellezza, un disegno bipartito prima fanciulle discinte, poi con lunghe gonne, didascalia: «Le Ex-Reginette- Basta le gonne un po’ più in giù per concorrere ai premi di virtù».

Sul campo di battaglia derattizzato

Il 30 giugno, Sul campo di battaglia derattizzato, interno novelliano con personaggi che si turano il naso e cercano ogni dove (nel pianoforte, sotto e sopra l’armadio…) un topo morto. Didascalia: «Il disperso».

Le nuove vetture tranviarie

Il 7 luglio Le nuove vetture tranviarie, scienza bipartita, in alto una signora obesa con la testa impigliata nella porta di entrata e in basso il pigia pigia dei passeggeri in uscita sparati verso il cielo. Battuta: «Caricamento e sparo: ecco i momenti del nuovo tram da 420». Così per una trentina di tavole per un semestre, a commentare gli avvenimenti del tempo. La didascalia o la battuta è spesso in strofette a rime baciate o alternate al modo del «Corriere dei Piccoli» e in particolare del Signor Bonaventura di Sergio Tofano-Sto (1886 – 1973); personaggio nato dalla mente di Sto nel 1917.

I musei a sbafo

Altro esempio oltre a quelli già citati sopra: «I pesci, il pan moltiplicato hai / Ma il pubblico così, Maestro, Mai!» (Musei a sbafo, 4 – 8 – 1929). Il disegno riproduce un esilarante e caotico pubblico davanti all’Ultima cena di Leonardo. Questo uso delle rime andrà a perdersi nelle battute e didascalie degli anni successivi. Il buon Todde del suo volume ci avverte: «A Novello però, il compito di commentare settimanalmente gli avvenimenti della cronaca o della politica, milanesi o nazionali, non è né congeniale né gradito: Novello punta sul costume (vedi le due tavole per L’Almanacco sonoro e cantato del Guerin Meschino, supplemento al n. 50 del 15 dicembre). La conclusione è che Novello dopo sei mesi, viene “congedato”: “Sono stato licenziato per scarso rendimento” dice, abbassando gli occhi con l’aria di uno scolaro bocciato agli esami. Ma aggiunge subito: “In seguito (dopo l’uscita – fortunata – del Signore di buona famiglia) hanno insistito perché tornassi. Ho detto di no”». Collabora brevemente al «Giovedì» e poi dal 1932 al «Fuorisacco», supplemento della «Gazzetta del Popolo», fino al 1939.

Lettere d’amore

Donna che scrive una lettera (Vermeer)

per M e M
sempre all’altezza del cuore

 

Inchiodato alla responsabilità di una risposta che non sapeva dare, M si guardava attorno, distratto. Il mento sulle ginocchia, la schiena incurvata. La posizione – scomoda, in verità – favoriva il ricordo di M.

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La Festa (poesie inedite)

Le sale

hanno facce in colori come teli
su cui si danno i film dentro le sale,
i tipi nelle strade lungo i muri.
e vanno negli spazi avantindietro
uguali a stringhe che di foro in foro
allacciano le scarpe in qualche modo,
attorno al duomo in marmo a vene rosa,
pensando forse manca qualche cosa.

 

La fede

e non si estirpa mai la fede eterna,
è il maggiore mistero che sia noto
e qualunque violenza infine è poco.
la truculenza ha varie fantasie
tra lame, corde e raffiche di spari
pure i persecutori fanno pena,
non sanno proprio più che male ordire
che tanto, come ruote con i buchi,
si afflosciano le loro arcaiche mire.

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Il cammino. Un dialogo

Paesaggio italiano (Camille Corot)

“Senti le mie scarpe che urtano sulle pietre”.

“Ti seguo, nel buio vedo la tua sagoma. Vedo anche le ombre del bosco”.

“Ci sono lecci e ginepri, tutt’intorno, e anche faggi. Quell’ombra più cupa è forse un castagno”.

“Sì, dev’essere un castagno, dev’essere a questo punto che si entra tra i castagni”.

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