Le biciclette di Duchamp ovvero l’arte concettuale come trasformazione in O

Qualche tempo fa una vecchia allieva e nuova amica, Alessandra Pistillo (ora copywriter e consulente di comunicazione), metteva online (su Facebook, il 15 ottobre 2016) la foto di un’opera appena vista nel Museo Pecci di Prato: la famosa Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp. La foto – che qui riproduco – era accompagnata da un delicato commento sull’emozione che poterla guardare da vicino, nell’originale, le aveva prodotto. Manco a dirlo – a più di un secolo dalla prima versione dell’opera! – si è scatenata una folla di “amici” (che probabilmente ignoravano l’esistenza sia dell’opera che dell’Autore) con una serie di commenti tristemente prevedibili del tipo: “che roba è?”, “questo lo sapevo fare anch’io”, “e la chiamano arte”. Mi sono chiesto, allora: perché non sono d’accordo? E ancora: che cosa ispira commenti di tal fatta?

Ruota di bicicletta (Duchamp)

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Quando Freud disse no a Hollywood

Il 14 agosto 1925, mentre Hollywood sta vivendo una delle sue più incredibili stagioni cinematografiche, Sigmund Freud scrive a Sándor Ferenczi, suo amico e collega, a proposito della pratica, che stava sempre più prendendo piede tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, di far prolificare la contaminazione tra psicanalisi e cinema:

La riduzione cinematografica sembra inevitabile (…) e, personalmente, non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere.

Samuel Goldwyn Studios

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La città dolente

0. Il trionfo maniacale della “soggettività” corrisponde ad una evacuazione massiva del reale; vi si sostituisce una “realtà” immaginifica intrinsecamente negazionista. Il negazionismo è la peggior forma della negazione e nel contempo l’epitome del relativismo: la più ignobile versione del collaborazionismo.

Postilla: Il negazionismo “neutralizza” il negativo favorendo “l’incistarsi nel sociale” di quel che Roberto Cheloni chiama gli “enunciati del fondamento” divenuti un sistema efficacissimo di produzione ideologica della contraddizione. (R. Cheloni, La società maniacale. Paradigmi e paralipomeni per un suo avvento, Canova, Treviso 1996).

G. Sirena, La città dolente, olio su tela, collezione privata Orvieto

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Le pene del padre (Die Sorge des Hausvaters) (1916-17)

Alcuni dicono che la parola “Odradek” (il Dissuasore, dal serbo odraditi, dissuadere) derivi dallo slavo e tentano di conseguenza di indagarne la formazione (die Bildung). Altri, all’opposto, reputano che il termine derivi dal tedesco e sia soltanto influenzata dallo slavo. L’incertezza delle due interpretazioni, tuttavia, permette a ragione di concludere che nessuna corrisponde al vero (zutrifft), tanto è vero che nessuna di esse permette di trovare un senso nella parola.

Kafka, disegni, in «Obliques», n. 3, Edition Borderie, Paris 1973
Kafka, disegni, in «Obliques», n. 3, Edition Borderie, Paris 1973

Naturalmente nessuno si indaffarerebbe su questi studî, se non ci fosse davvero un essere che si chiama Odradek. Ad un primo sguardo sembra una spoletta piatta a forma di stella e difatti appare anche rivestito di filo; è tuttavia probabile che siano soltanto frammenti strappati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati di diverso tipo e colore. Non è soltanto una spoletta, in quanto dal centro della stella si diparte una piccola stanghetta trasversale (ein kleines Querstbächen), alla quale se ne aggiune un’altra ad angolo retto. Con l’aiuto di quest’ultima stanghetta da un lato e di uno dei raggi della stella dall’altro, il tutto riesce a reggersi in piedi, come su due gambe.

Si sarebbe tentati di credere che quest’oggetto un tempo abbia avuto una forma adatta a qualche scopo (zweckmäßige Form) ed ora sia soltanto rotto. Ma questo non sembra il caso; o per lo meno non c’è alcun indizio di ciò; da nessuna parte si vedono aggiunte o rotture che diano adito a una siffata ipotesi; il tutto appare privo di senso, ma a suo modo in sé compiuto (in seiner Art abgeschlossen). Del resto non c’è alcunché da aggiungere, poiché Odradek è agile fuori dall’ordinario e non si lascia afferrare.

Si intrattiene di volta in volta nei solai, per le scale, nei corridoi, nell’atrio. A volte non si fa vedere per mesi; magari si è spostato in altre case; ma torna poi infallibilmente a casa nostra. A volte, quando uno esce dalla porta e lo vede appoggiato proprio alla ringhiera della scala, vien voglia di interrogarlo. È ovvio che non gli si possono porre domande difficili: lo si tratta piuttosto, e già la sua mole minuscola ci induce a ciò, come un bambino. “Come ti chiami?” gli vien chiesto. “Odradek”, dice. “E dove stai?” (Und wo wonst du?) “Domicilio imprecisato” (si avverta in Unbestimmter Wohnsitz la tonalità giuridica). E qui la conversazione, di solito si conclude. Del resto tali risposte non sempre si ottengono; spesso se ne sta a lungo in silenzio, come il legno di cui sembra fatto.

Invano mi chiedo cosa ne sarà di lui. Può morire? Tutto ciò che muore ha avuto un tempo una sorta di scopo, una sorta di attività nella quale si è consunto (daran hat es sich zerrieben); ma non è il caso di Odradek. Potrebbe dunque darsi anche che un giorno rotolasse giù per le scale, trascinandosi dietro un filo, tra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli (vor der Füßen meiner Kinder und Kindeskinder; è il tema delletre generazioni”, che – secondo la mia tesi – percorre l’opera di Kafka)?

Certo, non fa del male a nessuno; ma l’ipotesi che egli possa anche sopravvivermi quasi mi addolora.

Ring – Walkie Talkie

Ring

Infine non ha vinto

Un uomo o una carriera.
Non hanno vinto gli occhi o
Svaganti giovinezze.

Ma il cielo se distante,
Una collina,
Il vento.
Ha vinto un’alba coi Re Magi
E abbagli di letame.

Ha vinto,
Cosa ha vinto?
Per quanto vinceranno
Ancora
Fiumi,
Iridescenze,
Le stelle e i fuso orari?

Riscuoteranno nuovamente orgasmi e gelosie?
Le nere discoteche,
Paralisi affollate.

Ma sempre più assordante
Quel numinoso prato,
La fronte sua implacabile
O è docile, allentata?

Non ha parole scritte più, né nostalgie o ambizione:

A me
Ha preferito
Un croco e un sonno zingaro.

Ring (Brunate, 2016)

Walkie Talkie (Canzo, 2016)

Dal Paradiso, di Ettore Perrella

Canto XII. Passaggio al secondo tema: il principio logico. Gerolamo Saccheri parla sulla necessità di fondare le scienze in un principio comune. Arrivano nuovi ospiti, fra i quali Jacques Lacan e Sigmund Freud, che parla della formazione.

Freud e altri psicanalisti nel 1922

Yehoshùa, che un poco a parte era restato,
allora disse: «Molto bene hai inteso
quanto dico sul mio regno a Pilato,
quando sovraterreno lo paleso.
Il governo del mondo delegai
a chi, con atti giusti, suo l’ha reso.
Per questo, molto non mi rallegrai
quando, in mio nome, un’altra religione
mi dette ciò che non rivendicai.
Anzi, da questo, quella confusione
nacque che, dopo, venne amplificata,
nell’indebita semplificazione,
che dall’Arabia fu propagandata,
ritraducendo, in una forma ebraica
superata, la nuova predicata.
La religione, se non resta laica,
ma rivendica d’essere sovrana,
la sua legalità rende giudaica.
Il che vuol dire che per essa è vana
la promessa che sta nella sostanza
della venerazione, quando è sana.
Se vi sorprende quanto qui s’avanza,
voi vedrete fra poco come invece
ciò compie meglio tutta la speranza,
che riponete voi nella sua vece
con fedeltà ed amore. Questa trina
virtù dentro il potere si disfece,
per l’empietà, che la fa non divina.
Non v’anticipo più quello che intendo.
Siccome oggi la scienza vi raffina
dei nuovi doni, prima vi commendo
di vedere la logica e la fisica,
come colgano ciò che sottintendo.
Per chi la sua ragione rende tisica,
ricordo solo che assai male spende
il proprio dono, chi del suo non risica».
E qui Yehoshùa il suo dire sospende.
Platone allora dice: «A questo tema
ora passiamo. Facile si vende.
In logica ed in fisica ci prema
mettere in luce qui la condizione
che, nella scienza, sulle altre è suprema,
perché evidenzia la sua fondazione».
Non so chi ora ci parla, ma da prete
è vestito. «L’odierna situazione,
è prodotta, nel luogo in cui vivete,
da una scienza che dà nuovi reperti,
e però a volte v’appaga la sete,
versando degli intrugli, agl’inesperti,
a cui la distinzione non sia chiara
fra i fondamenti validi e gl’incerti.
Il vestito che porto ti dichiara
che sono un gesuita. Dei pensieri
che pensai, nella Logica, la tara
è il mio nome: Gerolamo Saccheri.
Prendono parte adesso a questa scuola
quanti intuirono i principi veri,
che sono l’ente, l’atto e la parola».
Vidi entrare Lacan. Con lui, è chi a Vienna
la formazione, a noi moderni, mola,
ed altri, da cui attinse la mia penna,
che, grazie a loro, da molto lavora
a sciogliere l’agire, se tentenna.
«Certo, trovarmi qui ben poco onora
quel che dicevo nei miei seminari»,
disse Lacan, sedendosi. Ed allora
aggiunse Freud: «È bene che ripari
anch’io ai miei errori. Adesso m’accompagna
l’amico Pfister. Mi furono avari
gli scritti suoi. Ben poco si guadagna
con l’ateismo. Come ebreo, vi devo
confessare che troppo poco bagna
il pensiero, e che troppo poco bevo,
dal ruscello di quella teologia,
da cui, vivendo, sempre m’astenevo.
Nessuna scienza la filosofia
mai rende vana, e zoppica il pensiero,
se percorre la sua ripida via,
però non beve alla fonte del vero.
E ciò mi rese anche troppo ottimista,
vivendo, sul disastro menzognero
che fu la nera svastica nazista,
che sventolava nella mia Berggasse,
e che a tanti di noi cucì la vista.
Che cosa veramente dimostrasse,
sul falso che s’insinua nella scienza,
io non lo vidi, e come lavorasse,
persino nell’inconscio, la demenza
che, negando il principio, guasta il desco
di chi si nutre solo di parvenza».
«Herr Professor», dissi allora in tedesco,
«posso sapere, da questo cortile,
che cosa pensi sul modo in cui pesco,
nei libri tuoi, la perla del tuo stile,
o dico che assai spesso ti tradisce,
alla pratica diventando ostile,
chi ad una garanzia soltanto ambisce?
Che cosa resta della formazione,
se si confonde ciò che si capisce
con l’etica dell’atto, e la passione
per cui soltanto chi la riconosce
sulla tua strada fa la sua tenzone?».
«Amico mio, sono sempre più mosce
le teorie pubblicate dai colleghi,
quando di desiderio sono flosce,
e quando la teoria non si colleghi
a quella libertà di formazione
che mi pare che troppo si deleghi
alla legge, perché una professione
diventi quella pratica che, invero,
vale solo se l’interpretazione,
non garantita, apre la strada al vero.
Solo perciò l’inconscio molto giova
alla scienza, schiudendone il sentiero.
La mia teoria solamente si prova
s’è animata dall’individuale
esperienza di quel che vi si trova.
Tutto il resto davvero poco vale.
Delle miserie non faccio il catalogo.
Il dogmatismo ha sempre poco sale.
Perciò molto ho apprezzato il tuo Dialogo».
«Non sospettavo che l’avessi letto»,
dissi. Ed aggiunse: «Ben poco d’analogo
si pubblica laggiù. Per noi è perfetto.
E non ti preoccupare se i lettori
sono pochi. Si sentono allo stretto,
quando leggono questi tuoi lavori.
E molto bene fai a non compiacerli.
Chi cede all’ovvio sempre pochi onori
concede al vero e all’atto. Lascia ai merli
il loro cra-cra crudo, e vai diritto,
dove la luce più chiara s’imperli.
Il vero, non puoi prenderlo in affitto:
devi subordinargli l’esistenza.
Solo così non sarai mai sconfitto.
Lascia che parli a tutti l’evidenza,
e canta il canto tuo, senza curarti
di vincere la loro resistenza.
Soltanto questo dà un impulso alle arti,
fra le quali tu poni giustamente
anche le scienze. Tutte sono parti
della logica, che sola non mente
e prende corpo: come tutti sanno,
se aprono gli occhi usando la tua lente.
Se t’ignorano, è solo loro il danno.
Trascrivi pure queste mie parole.
Sai che, fra quelli che le leggeranno,
non ci saranno coloro cui duole
quel che dico. Se sei nel nostro coro,
non dare mai importanza a chi altro vuole.
Solamente così farai tesoro
dei miei scritti. Anche i miei son letti poco,
eppure stanno al fondo d’un lavoro
che in atto non può mettere chi è roco.
Per praticare non basta ascoltare.
Si deve invece trasmettere il fuoco
che ogni viltà da sempre fa arretrare».

Dal Paradiso, di Ettore Perrella, NeP Edizioni, Roma 2016, vol. 3, pp. 107-13.

Il midollo della vita

«Dev’essere necessario un grande coraggio per donare a molti quel che spesso non si dà che all’amato». Questa frase di Anaïs Nin l’ho trovata rovistando su internet e mi ha fatto venire in mente una puttana. Mi correggo: la puttana per antonomasia. Si chiamava Gina, esercitava a orari fissi tra via Fontanelli e via Montecuccoli, indossando l’inseparabile pelliccia leopardata che era insieme un richiamo ferino e un segno di riconoscimento a distanza.

A Modena la Gina era un mito. Ai tempi del liceo ne sentivo parlare dai ragazzi più grandi con iperboli così smaccate da non poter essere altro che figlie della loro imbranataggine. Andare a puttane non faceva  più  parte dei nostri riti di passaggio, ma quella prodigiosa nave scuola bionda, bella e disinibita, già sulla breccia ai tempi delle case chiuse, continuava a esercitare un fascino indescrivibile e lievemente incestuoso. Era come se nella Gina, la donna «più bella di un’auto da corsa», fossero condensati al loro apice i sogni erotici dei nostri padri e fratelli maggiori, e nella fantasticheria di possederla si nascondesse da parte nostra un desiderio di stupro verso quel loro passato odoroso di rispettabilità e di casino che un po’ ci stomacava ma un poco anche ci attirava.

Purtroppo eravamo soltanto dei liceali imbranati. Gli universitari che si presentavano alla Gina con un trenta e lode fresco sul libretto potevano sperimentare gratis di persona quel coraggio nel donare a molti ciò che spesso non si dà che all’amato, o neppure a lui, di cui parla Anaïs Nin. Lo so: il dono di sé della Gina agli studenti meritevoli può sembrare di portata limitata, paragonabile al massimo –senza confondere il buon costume con la Buoncostume – alle coeve elargizioni delle pie dame di San Vicenzo ai poveri e ai diseredati in base all’etica dell’«arriverò fin lì, ma non oltre», giusto quanto basta per sentirsi la coscienza a posto. E questo, ammoniva San Francesco, «significa non dare assolutamente nulla».

Ma il caso della Gina è diverso. Se nei consueti rapporti professionali era ben chiara la mercificazione del suo corpo in cambio di denaro, la  cessione gratuita seppure temporanea di se stessa e della propria arte come premio per un esame superato col massimo dei voti costituiva un’autentica violazione del principio di scambio e, dunque, un dono. Che cosa mai può farsene, una puttana, d’un trenta e lode stampato sul libretto di qualche studente brufoloso?  L’etica della Gina era quella del regalo disinteressato, una specie di bonus che premiava la qualità e l’impegno negli studi: in largo anticipo sui tempi, aveva adottato un ingenuo ma efficace antidoto alla fuga dei cervelli. Qualcosa d’impensabile per i papponi, i banchieri, le multinazionali e le agenzie di rating oggi al potere, che sono i nuovi vampiri del capitale. Li stigmatizzava già Marx , scrivendo che «il capitale è come un vampiro, il capitale è lavoro morto che succhia sempre lavoro vivo e più ne succhia più si ricostituisce». La Gina invece succhiava il midollo della vita, con quel gioioso spreco di sé che –per dirla con Benjamin- «contrassegna l’amore». Non dovrebbero fare lo stesso anche i poeti?

Vittorio Sermonti

Ho conosciuto troppo tardi Vittorio Sermonti, anche se è bastato uno sguardo, una parola, una stretta di mano per conquistarmi completamente. Poi la sua lettura della Commedia mi ha accompagnato per tante notti, prima di dormire, mentre a letto ascoltavo in cuffia il cofanetto dei DVD, e la pura forza della sua voce faceva veramente il miracolo – come lui diceva – di rendere Dante un mio contemporaneo, anzi di immetterlo nel buio della stanza, lì accanto a me, mentre ascoltavo  i Canti nella lingua di tutti i giorni, senza alcun bisogno di apparati critici.

Ci sono persone che fanno parte delle mie giornate, quasi fossero interlocutori silenziosi a cui mi rivolgo, persone a cui non mi sono identificato e che si dedicano a me, e Vittorio, stranamente – stranamente per il poco tempo che mi è stato concesso per conoscerlo – mi è così famigliare, ed è una di queste persone. Sergio Contardi, non so come, non so per quale oscura affinità che lui aveva intuito, aveva colto nel segno quando sorprendentemente mi chiese di presentarlo a Milano, a Palazzo Cusani, al convegno Il disagio della cultura nella nostra modernità (12-13 ottobre 2013), io che lo conoscevo solo per fama. Ed ecco un padre, mi sono detto, e tutto è stato molto semplice. Qui di seguito riproduco la mia breve presentazione.

Mi è stato chiesto di presentare brevemente Vittorio Sermonti, classe 1929. Suppongo che mi sia stato chiesto perché non lo conosco affatto. Di lui so o posso sapere quello che può sapere chiunque sia rimasto catturato da una sua lettura pubblica della Commedia, digitando il suo nome su Google o Wikipedia. Saprò, per esempio, edotto dalla Treccani, che fin “da bambino vedeva circolare, in casa dei nonni materni, a loro legati da vari gradi di parentela o affinità, Vittorio Emanuele Orlando (suo padrino di nascita), Alberto Beneduce, Luigi Pirandello”. Passi per Pirandello, e scusate se è poco, ma gli altri? Basti dire che sono tra gli uomini più insigni della seconda metà dell’Ottocento – statisti, economisti, letterati –, uomini che affondano ancora le proprie radici nel Risorgimento e nell’Unità d’Italia. Ed ecco, fin dalla nascita, troviamo un’incredibile sovrabbondanza, quella che non si conta coi soldi. Saprò, ancora – cito: “Che ha lavorato con tutti i maggiori attori italiani del secondo novecento” e con i nomi più prestigiosi in assoluto della cultura italiana: Niccolò Gallo, Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Antonio Delfini, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise “e molti altri”. Come “dantista” gode della stima e dell’amicizia di Cesare Segre e Gianfranco Contini, tra le massime autorità di filologia dantesca. E nella nota bio-bibliografica non si contano, a ogni periodo della vita di Sermonti, gli “ecc. ecc.” e gli “e altri/o ancora”. Ovunque si sovrabbonda. È scrittore, traduttore (di Plauto, Ovidio, Virgilio, Molière, Racine, Lessing, Schiller, Wedekind, Hoffmanstahl, Sartre, Hoffenbach, Rilke, Venanzio Fortunato, Machado ecc.), drammaturgo, poeta, romanziere, regista per la radio e la televisione, speaker, attore, giornalista, docente di italiano e latino al liceo e di tecnica del verso teatrale all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, traduttore di un ponderoso testo di economia finanziaria e perfino consulente CEE. E altro, e altri ancora.

Non aumenterò ulteriormente l’abisso che separa la mia generazione, e quelle successive, da un uomo che mi piace definire – con la preghiera di non fraintendermi: non si tratta di vetustà – “di un’altra epoca”. Non si tratta solo del fatto che io appartengo a un’epoca senza nessuna Storia, nessun patrimonio spirituale dietro di me, nessuna vera cultura radicata nei rapporti d’amicizia; io sono figlio dell’acculturazione e dell’antropologia strutturale, non possiedo che un “sapere” astratto e separato dalla vita, quello che si studia all’Università. La mia storia è simile a quella dai miei analizzanti, dove il romanzo di formazione, il Bildungsroman, cede il posto al racconto “minimalista”, quello di un Raymond Carter nel migliore dei casi. Ecco perché la vita di Vittorio Sermonti mi appare eccezionale, prodigiosa, anzi favolosa, completamente, irrimediabilmente fuori dalla mia portata. Dubito che a un uomo del nostro tempo, per cui ogni via da intraprendere appare fin dall’inizio già sbarrata, possa essere concessa la grazia, la forza, la sovrabbondanza, la libertà, la pietà di una simile vita e vitalità. Ecco perché Sermonti mi appare inanalizzabile. Inanalizzabile, intendo, come lo può essere un uomo che non appartiene all’epoca della psicanalisi, che è un’epoca dell’uomo senza qualità e senza Storia, forse perfino senza Kultur, senza civiltà e cultura. Azzardo, ma penso che se Sermonti è a “disagio” nella cultura, non è per le nostre stesse ragioni. Forse lui ci dirà per quali.

Non si tratta, dicevo, solo di questo. Ma piuttosto di quello che esprime questa considerazione di J. Salinger, uno dei padri del romanzo di formazione della nostra epoca: “Stare nell’esercito, dice Salinger, è peggio che fare la guerra”. Ecco: Vittorio Sermonti, al di là dell’anagrafe, è un uomo che ha fatto la guerra. Che cosa vuol dire “un uomo che ha fatto la guerra”? Quando sento parlare un uomo che ha fatto la guerra, dunque un uomo che non può stare nell’esercito, la mia vita, che, come quella di tutti, trema di freddo, si riscalda alla sua voce. Proprio per questo, solo un uomo che ha fatto la guerra è fino in fondo un uomo di pace.

Per salutarti (in morte di Vittorio Sermonti)

Per salutarti, vecchio amico, che fino a stamane, quando ho letto la notizia sulla «Stampa», mi parevi immortale. Fortuna ha voluto, caro Vittorio, che ci vedessimo di recente, ché altrimenti mai mi sarei perdonato, essendo a Roma nello scorso ottobre, di non essere passato a salutarti e di passare alcune ore insieme, a casa tua, con le nostre mogli, a chiacchierare piacevolmente del presente. Fortuna, così, mi ha concesso ancora di sentirmi contento della vostra compagnia, tua e di Ludovica.

Ti ho sentito e visto sofferente, è vero, ma comunque mi sembravi sempre immortale, con quel tuo sguardo curioso e divertito del mondo, che però sapeva anche farsi serio e severo, di un mondo abitato per lo più da stupidi. Ma anche questo era parte del gioco e della meraviglia: quel gioco tragico del vivere a cui si può opporre solo l’intelligenza dell’umorismo del vizioso che si accompagna con il tempo della solitudine in cui ci s’immerge nella lettura e nella scrittura: vizio capitale di chi passa la vita a scrivere e tradurre, ad amare le donne occhi pescosi, e quell’autore nelle cui mani (pagine…) si consegna la propria vita, con lo sforzo titanico e gioioso e generoso di ridargli vita, e pensieri che non aveva ancora pensato, largo respiro e voce per raggiungere ancora, come in un tempo immemore, folle curiose e anche desiderose di ascoltare colui che non avevano forse mai ascoltato.

Vittorio Sermonti
Vittorio Sermonti

E io con te ho davvero letto Dante perché, diciamolo, non l’avevo mai letto per davvero. In passato avevo letto solo dei versi senza voce, e la tua voce li ha resi di nuovo vivi; e quando la mia lettura seguì la tua voce tutto mi è apparso limpido e pulsante ancora di vita e di senso: hai saputo dare voce alla mia lettura della Commedia. Ti sono davvero grato per questo, come lo sono per il buon vino bevuto insieme.

Hai ridato voce a quell’Alighieri, Dante di nome e fiorentino per sorte maligna, ché in quella città di Firenze gli toccò di nascere, che è poi la sorte di tutti e di ciascuno nascere in un luogo di esilio anche se il caso, o altri, non ci caccia costringendoci ad altri luoghi. E qui, la tua vita, caro amico a riposo, la sapeva lunga.

In quella Firenze in cui studiasti e che esiliò a un certo punto voce e pensiero che tu ridonasti negli anni a Dante con tutta la forza dirompente della sua e tua tragicità; quella città di esili preferì, alla tua voce italiana calda e profonda, la voce fiorentina e sguaiata di uno sgangherato comico che nel diluire nelle risa il tragico canto tolse all’Alighieri la forza e la statura della sua poesia rendendola sterile all’ascoltatore. Ma così è Firenze: vende, e si vende, al miglior offerente del niente.

Una sera a cena a Firenze, di ritorno da Santa Croce dove leggevi Dante, in un momento di sfogo, e anche di rabbia perbacco e perché no: giusta!, dicesti che, finita quella lettura, a Firenze non ci saresti mai più tornato. E così anche in una cena a casa mia a Milano, con Sergio e Laura e le mogli inseparabili, parlasti con divertito dispiacere di quella città inospitale che aveva preferito il suo comico nazional-popolare al sommo Dante da ritrovare. E così fu. Al Dante tragico, da leggere, da ascoltare, da meditare, Firenze preferì un Dante ridanciano da intrattenimento serale. Esiliato un’altra volta, questa volta con l’esilio della tua voce. Non è così facile, amico caro, cambiare un destino anche se ci proviamo per una intera vita.

E mi apparivi immortale anche quando, qualche anno fa, chiacchierando noi sulla morte, mentre ti affermavo sicuro di cose lette e sentite che la morte non esiste ma solo dei morti, tu sornione e anche un po’ divertito mi dicesti che, forse, neppure i morti esistono. Confesso di non aver capito subito. Ma non ci volle molto perché mettessi insieme i cocci. Vero! Diamine, i morti non esistono! Freud aveva torto! Esistono soltanto nomi, quelli ci restano, di persone che (è semplice!), per quanto ci dispiaccia, non vedremo più. Ma non è che un’evenienza. Il dispiacere si assorda nel breve tempo, e il nome entra nei nostri racconti insieme ai ricordi di presenze e gesta, un po’ vere e un po’ inventate come avviene nella ricostruzione dei ricordi.

Ma il corpo, che solo una credenza ci dice non esser più, resta avvolto nel mistero della terra e in quella terra nuova di altra vita, altre trasformazioni lo riportano alla sua essenza primordiale. Morte è solo una parola che serve ad alimentare la superstizione religiosa della cui stratificazione millenaria è difficile liberarsi, ma chi se ne sa liberare è uomo libero. E questo mi eri apparso, libero e perciò immortale. Hai lasciato tutti per vivere il mistero della terra, il più insondabile il più irrappresentabile, quello inenarrabile. Quello di cui lascerai ad altri la narrazione fantasiosa di chi non lo potrà vivere. Hai scritto che ti saresti preso qualche giorno di riposo, avevi ragione, solo qualche giorno, forse una settimana se contiamo il funerale, ma poi ricomincerai subito con l’infaticabile lavoro del corpo.

Ti saluto, dunque, amico mio immortale. Vai libero a sondare il mistero della terra, ché il tuo ricordo non ci verrà meno. E chissà se, quando toccherà a me di avventurarmi in quel mistero profondo e irraccontabile della terra, noi non ci si possa rincontrare di nuovo per caso come quella prima volta a Milano quando insieme ci toccò di presentare il bel libro di Gabriella alla Feltrinelli di via Manzoni: e sarà grande festa.

Sai, dicono da molto tempo, ma, come al solito, è voce incontrollata, che verrà il giorno in cui tutti ci rincontreremo. Per ora mi accontento di leggerti ancora e di approfittare dei tuoi vizi. Giovanni.

Percorsi di un lettore. Dal libro Acheminement di Gérard Albisson

Il primo pensiero alla lettura di questo piccolo e prezioso libro è stato che sarebbe davvero bello venir recensiti da un lettore così raffinato come Gérard Albisson. Duemila battute in cui è scritto tutto l’importante di un libro. Il lettore di una tale recensione si trova come se avesse davvero vicino il libro recensito, potendo coglierne l’essenziale, esserne introdotto da una lettura acuta, intelligente, in grado di aprire il suo proprio desiderio di lettore trasportato dall’entusiasmo del recensore.  O comunque, un ipotetico lettore, sarà agevolato dalla scelta di un libro che “a caso” un tale recensore ha “deciso” che recensirà afferrato da un titolo, l’immagine di copertina, o da una qualche frase letta in veloce distrazione ma comunque capace di colpire l’attenzione. E allora il libro viene letto, pensato, si cerca la sua cifra ed ecco che la recensione salta fuori, in una pagina, perché non gliene occorre di più, asciutta, precisa, diretta al cuore della questione che il libro presenta e allo spirito dello scrittore in grado di comunicarsi a un lettore che potrà così avvicinare a sua volta quel libro.

Tutto così diverso dalle fasulle recensioni fatte a comando nei quotidiani di oggi e di tutto il mondo. La «Revue des Deux Mondes» per cui Albisson scrive le recensioni ha uno stile inconfondibile, una libertà assoluta e non cede alle lusinghe del mercato e alle obbligazioni editoriali. Questo ha permesso a un ampio pubblico di entrare in contatto con libri, autori e titoli che forse non avrebbe mai sentito nominare e che non avrebbe mai avuto occasione di notare. La scelta dei libri da parte del gruppo dei redattori della rivista di rue de Lille, è una scelta libera, dove i libri passano di mano, vengono quasi ascoltati: ovvero, il recensore ascolta qualcosa del proprio desiderio di lettore e si immerge.

Ogni incontro dei redattori è una specie di seminario dice Albisson, che chiosa: «Ciascun libro passava più o meno velocemente di mano in mano, pagine girate, quarte di copertina percorse con rapidità, e in quel momento operava tutto il mistero della decisione e della possibilità di agire. Breve istante del destino: si tiene, si passa».

Libri che “ci trovano” dunque, dove ciascuno è libero di scrivere quel che coglie nella propria lettura, senza doversi inchinare alle esigenze del mercato ma solo a quel desiderio profondo di una nuova conoscenza, di un nuovo incontro che il libro apre e che il recensore trasferisce in scrittura per altri possibili lettori.

Poi, subito dopo quel desiderio appena accennato con pudore, la sorpresa di leggere qualcosa che assomiglia alla mia storia. Il viaggio, il libro, un panorama che fugge dal finestrino del treno. Come!, mi dico, come fa a sapere queste cose… di me! È stato questa emozione forte nel ritrovare pezzi della mia storia raccontati da un autore che ha vissuto la stessa intensità del viaggio e della lettura a decidermi immediatamente e senza alcuna considerazione ulteriore a tradurre Acheminement. Traduzione che, mi auguro davvero di cuore, abbia saputo rispettare il tono così alto e raffinato della scrittura di Albisson.

Viaggiare in treno, possibilmente soli, è una esperienza incomparabile, soprattutto se associata alla solitudine della lettura. Preparare il bagaglio e scegliere i libri che faranno da compagni di viaggio. Non uno, no, ma più libri che durante il viaggio si sfoglieranno, sul quale ci si soffermerà attratti dalla bellezza di una frase o anche di una sola parola in grado di aprire il nostro pensiero, che apre al viaggio nel viaggio esattamente come lo sguardo che si porge al paesaggio che fugge di là dal finestrino, quando l’occhio cattura il dettaglio fuggitivo che colpisce per la sua bellezza, che resta come un’impressione nell’animo. Così, la frase o il paesaggio, diventano scoperte di ciò che non si sapeva e di ciò che non si vedeva.

Chi viaggia solo con l’intenzione di spostarsi per raggiungere, e il più in fretta possibile, un luogo, non potrà mai cogliere l’essenza del viaggio, momento di conoscenza e di scoperta di sé concessa dalla grazia di un libro associata a quella di un paesaggio.

Oppure ci si potrà concentrare su un solo libro la cui lettura accompagna il viaggio, ed è un’esperienza nuova, diversa dalla concentrazione che si ha quando si legge seduti allo scrittoio o in poltrona. Quanti libri letti e anche scritti nei miei viaggi fra Torino e Venezia, Torino e Lione, Torino e Roma, Milano e Genova, Milano e Firenze, Milano e Parigi… O del mio primo viaggio in nave, memorabile, a quindici anni, per raggiungere la Sardegna.

La lettura in treno richiede un’attenzione fluttuante, continuamente interrotta dallo sguardo che coglie un’immagine che scorre veloce, ma non così veloce da non essere colta; interrompe la lettura e il pensiero vaga in altre direzioni. E in questo modo il nostro pensiero resta preso dentro il paesaggio e contemporaneamente dentro il libro, e i pensieri si mischiano, a volte si affastellano dispettosi, ma sempre curiosi nel loro andirivieni fra libro e paesaggio. Ogni viaggio su una stessa tratta rivela di volta in volta dettagli diversi. Accade così anche nella lettura di un libro quando ci si accorge, in una seconda lettura, di non aver colto certe frasi o certe parole: e quanti altri ritrovamenti in letture successive!

Ogni lettura ci mostra non tanto un altro libro quanto un’altra possibilità del nostro pensiero. Di volta in volta, di viaggio in viaggio, di lettura in lettura si può cogliere quel che non si era mai notato, a cui non si era ancora prestata attenzione: quel non ancora considerato che sempre apre, a ogni giro, un pensiero nuovo, una nuova scoperta.

Così Albisson, di pagina in pagina, di libro in libro, ci presta il suo sguardo acuto, il suo tendere all’essenziale, il suo proporci un ascolto che apre al desiderio della lettura.