Vittorio Sermonti

Ho conosciuto troppo tardi Vittorio Sermonti, anche se è bastato uno sguardo, una parola, una stretta di mano per conquistarmi completamente. Poi la sua lettura della Commedia mi ha accompagnato per tante notti, prima di dormire, mentre a letto ascoltavo in cuffia il cofanetto dei DVD, e la pura forza della sua voce faceva veramente il miracolo – come lui diceva – di rendere Dante un mio contemporaneo, anzi di immetterlo nel buio della stanza, lì accanto a me, mentre ascoltavo  i Canti nella lingua di tutti i giorni, senza alcun bisogno di apparati critici.

Ci sono persone che fanno parte delle mie giornate, quasi fossero interlocutori silenziosi a cui mi rivolgo, persone a cui non mi sono identificato e che si dedicano a me, e Vittorio, stranamente – stranamente per il poco tempo che mi è stato concesso per conoscerlo – mi è così famigliare, ed è una di queste persone. Sergio Contardi, non so come, non so per quale oscura affinità che lui aveva intuito, aveva colto nel segno quando sorprendentemente mi chiese di presentarlo a Milano, a Palazzo Cusani, al convegno Il disagio della cultura nella nostra modernità (12-13 ottobre 2013), io che lo conoscevo solo per fama. Ed ecco un padre, mi sono detto, e tutto è stato molto semplice. Qui di seguito riproduco la mia breve presentazione.

Mi è stato chiesto di presentare brevemente Vittorio Sermonti, classe 1929. Suppongo che mi sia stato chiesto perché non lo conosco affatto. Di lui so o posso sapere quello che può sapere chiunque sia rimasto catturato da una sua lettura pubblica della Commedia, digitando il suo nome su Google o Wikipedia. Saprò, per esempio, edotto dalla Treccani, che fin “da bambino vedeva circolare, in casa dei nonni materni, a loro legati da vari gradi di parentela o affinità, Vittorio Emanuele Orlando (suo padrino di nascita), Alberto Beneduce, Luigi Pirandello”. Passi per Pirandello, e scusate se è poco, ma gli altri? Basti dire che sono tra gli uomini più insigni della seconda metà dell’Ottocento – statisti, economisti, letterati –, uomini che affondano ancora le proprie radici nel Risorgimento e nell’Unità d’Italia. Ed ecco, fin dalla nascita, troviamo un’incredibile sovrabbondanza, quella che non si conta coi soldi. Saprò, ancora – cito: “Che ha lavorato con tutti i maggiori attori italiani del secondo novecento” e con i nomi più prestigiosi in assoluto della cultura italiana: Niccolò Gallo, Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Antonio Delfini, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise “e molti altri”. Come “dantista” gode della stima e dell’amicizia di Cesare Segre e Gianfranco Contini, tra le massime autorità di filologia dantesca. E nella nota bio-bibliografica non si contano, a ogni periodo della vita di Sermonti, gli “ecc. ecc.” e gli “e altri/o ancora”. Ovunque si sovrabbonda. È scrittore, traduttore (di Plauto, Ovidio, Virgilio, Molière, Racine, Lessing, Schiller, Wedekind, Hoffmanstahl, Sartre, Hoffenbach, Rilke, Venanzio Fortunato, Machado ecc.), drammaturgo, poeta, romanziere, regista per la radio e la televisione, speaker, attore, giornalista, docente di italiano e latino al liceo e di tecnica del verso teatrale all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, traduttore di un ponderoso testo di economia finanziaria e perfino consulente CEE. E altro, e altri ancora.

Non aumenterò ulteriormente l’abisso che separa la mia generazione, e quelle successive, da un uomo che mi piace definire – con la preghiera di non fraintendermi: non si tratta di vetustà – “di un’altra epoca”. Non si tratta solo del fatto che io appartengo a un’epoca senza nessuna Storia, nessun patrimonio spirituale dietro di me, nessuna vera cultura radicata nei rapporti d’amicizia; io sono figlio dell’acculturazione e dell’antropologia strutturale, non possiedo che un “sapere” astratto e separato dalla vita, quello che si studia all’Università. La mia storia è simile a quella dai miei analizzanti, dove il romanzo di formazione, il Bildungsroman, cede il posto al racconto “minimalista”, quello di un Raymond Carter nel migliore dei casi. Ecco perché la vita di Vittorio Sermonti mi appare eccezionale, prodigiosa, anzi favolosa, completamente, irrimediabilmente fuori dalla mia portata. Dubito che a un uomo del nostro tempo, per cui ogni via da intraprendere appare fin dall’inizio già sbarrata, possa essere concessa la grazia, la forza, la sovrabbondanza, la libertà, la pietà di una simile vita e vitalità. Ecco perché Sermonti mi appare inanalizzabile. Inanalizzabile, intendo, come lo può essere un uomo che non appartiene all’epoca della psicanalisi, che è un’epoca dell’uomo senza qualità e senza Storia, forse perfino senza Kultur, senza civiltà e cultura. Azzardo, ma penso che se Sermonti è a “disagio” nella cultura, non è per le nostre stesse ragioni. Forse lui ci dirà per quali.

Non si tratta, dicevo, solo di questo. Ma piuttosto di quello che esprime questa considerazione di J. Salinger, uno dei padri del romanzo di formazione della nostra epoca: “Stare nell’esercito, dice Salinger, è peggio che fare la guerra”. Ecco: Vittorio Sermonti, al di là dell’anagrafe, è un uomo che ha fatto la guerra. Che cosa vuol dire “un uomo che ha fatto la guerra”? Quando sento parlare un uomo che ha fatto la guerra, dunque un uomo che non può stare nell’esercito, la mia vita, che, come quella di tutti, trema di freddo, si riscalda alla sua voce. Proprio per questo, solo un uomo che ha fatto la guerra è fino in fondo un uomo di pace.

Per salutarti (in morte di Vittorio Sermonti)

Per salutarti, vecchio amico, che fino a stamane, quando ho letto la notizia sulla «Stampa», mi parevi immortale. Fortuna ha voluto, caro Vittorio, che ci vedessimo di recente, ché altrimenti mai mi sarei perdonato, essendo a Roma nello scorso ottobre, di non essere passato a salutarti e di passare alcune ore insieme, a casa tua, con le nostre mogli, a chiacchierare piacevolmente del presente. Fortuna, così, mi ha concesso ancora di sentirmi contento della vostra compagnia, tua e di Ludovica.

Ti ho sentito e visto sofferente, è vero, ma comunque mi sembravi sempre immortale, con quel tuo sguardo curioso e divertito del mondo, che però sapeva anche farsi serio e severo, di un mondo abitato per lo più da stupidi. Ma anche questo era parte del gioco e della meraviglia: quel gioco tragico del vivere a cui si può opporre solo l’intelligenza dell’umorismo del vizioso che si accompagna con il tempo della solitudine in cui ci s’immerge nella lettura e nella scrittura: vizio capitale di chi passa la vita a scrivere e tradurre, ad amare le donne occhi pescosi, e quell’autore nelle cui mani (pagine…) si consegna la propria vita, con lo sforzo titanico e gioioso e generoso di ridargli vita, e pensieri che non aveva ancora pensato, largo respiro e voce per raggiungere ancora, come in un tempo immemore, folle curiose e anche desiderose di ascoltare colui che non avevano forse mai ascoltato.

Vittorio Sermonti
Vittorio Sermonti

E io con te ho davvero letto Dante perché, diciamolo, non l’avevo mai letto per davvero. In passato avevo letto solo dei versi senza voce, e la tua voce li ha resi di nuovo vivi; e quando la mia lettura seguì la tua voce tutto mi è apparso limpido e pulsante ancora di vita e di senso: hai saputo dare voce alla mia lettura della Commedia. Ti sono davvero grato per questo, come lo sono per il buon vino bevuto insieme.

Hai ridato voce a quell’Alighieri, Dante di nome e fiorentino per sorte maligna, ché in quella città di Firenze gli toccò di nascere, che è poi la sorte di tutti e di ciascuno nascere in un luogo di esilio anche se il caso, o altri, non ci caccia costringendoci ad altri luoghi. E qui, la tua vita, caro amico a riposo, la sapeva lunga.

In quella Firenze in cui studiasti e che esiliò a un certo punto voce e pensiero che tu ridonasti negli anni a Dante con tutta la forza dirompente della sua e tua tragicità; quella città di esili preferì, alla tua voce italiana calda e profonda, la voce fiorentina e sguaiata di uno sgangherato comico che nel diluire nelle risa il tragico canto tolse all’Alighieri la forza e la statura della sua poesia rendendola sterile all’ascoltatore. Ma così è Firenze: vende, e si vende, al miglior offerente del niente.

Una sera a cena a Firenze, di ritorno da Santa Croce dove leggevi Dante, in un momento di sfogo, e anche di rabbia perbacco e perché no: giusta!, dicesti che, finita quella lettura, a Firenze non ci saresti mai più tornato. E così anche in una cena a casa mia a Milano, con Sergio e Laura e le mogli inseparabili, parlasti con divertito dispiacere di quella città inospitale che aveva preferito il suo comico nazional-popolare al sommo Dante da ritrovare. E così fu. Al Dante tragico, da leggere, da ascoltare, da meditare, Firenze preferì un Dante ridanciano da intrattenimento serale. Esiliato un’altra volta, questa volta con l’esilio della tua voce. Non è così facile, amico caro, cambiare un destino anche se ci proviamo per una intera vita.

E mi apparivi immortale anche quando, qualche anno fa, chiacchierando noi sulla morte, mentre ti affermavo sicuro di cose lette e sentite che la morte non esiste ma solo dei morti, tu sornione e anche un po’ divertito mi dicesti che, forse, neppure i morti esistono. Confesso di non aver capito subito. Ma non ci volle molto perché mettessi insieme i cocci. Vero! Diamine, i morti non esistono! Freud aveva torto! Esistono soltanto nomi, quelli ci restano, di persone che (è semplice!), per quanto ci dispiaccia, non vedremo più. Ma non è che un’evenienza. Il dispiacere si assorda nel breve tempo, e il nome entra nei nostri racconti insieme ai ricordi di presenze e gesta, un po’ vere e un po’ inventate come avviene nella ricostruzione dei ricordi.

Ma il corpo, che solo una credenza ci dice non esser più, resta avvolto nel mistero della terra e in quella terra nuova di altra vita, altre trasformazioni lo riportano alla sua essenza primordiale. Morte è solo una parola che serve ad alimentare la superstizione religiosa della cui stratificazione millenaria è difficile liberarsi, ma chi se ne sa liberare è uomo libero. E questo mi eri apparso, libero e perciò immortale. Hai lasciato tutti per vivere il mistero della terra, il più insondabile il più irrappresentabile, quello inenarrabile. Quello di cui lascerai ad altri la narrazione fantasiosa di chi non lo potrà vivere. Hai scritto che ti saresti preso qualche giorno di riposo, avevi ragione, solo qualche giorno, forse una settimana se contiamo il funerale, ma poi ricomincerai subito con l’infaticabile lavoro del corpo.

Ti saluto, dunque, amico mio immortale. Vai libero a sondare il mistero della terra, ché il tuo ricordo non ci verrà meno. E chissà se, quando toccherà a me di avventurarmi in quel mistero profondo e irraccontabile della terra, noi non ci si possa rincontrare di nuovo per caso come quella prima volta a Milano quando insieme ci toccò di presentare il bel libro di Gabriella alla Feltrinelli di via Manzoni: e sarà grande festa.

Sai, dicono da molto tempo, ma, come al solito, è voce incontrollata, che verrà il giorno in cui tutti ci rincontreremo. Per ora mi accontento di leggerti ancora e di approfittare dei tuoi vizi. Giovanni.