Poesie

La poesia che ho pubblicato

La poesia che ho pubblicato
Era la stessa del foglio che ho lasciato
scritto in un angolo,
per anni dentro un cassetto.
La poesia che ho pubblicato
Era quella che il mio cuore
ha aperto sul mondo,
come un melograno maturo
col riso spalancato
in grani lucenti e rossi,
gustosi e acerbi.

Ho corretto qua e là,
gli errori, la lingua, la forma,
la grammatica.
È rimasta intatta la linfa
vitale che ha mosso la libertà
di parlare, agire, pensare,
sognare, partire, tornare, restare.

Immutata la voglia bruciante
del mio cuore di dire a voce alta,
pur sussurrando,
le cose che ho scritto
su quel foglio strappato,
e che dirò.

Parole impresse nel primo inchiostro
che desse segno,
pietra o telefono che ho trovato.
In tutti questi anni,
in tutto questo tempo,
so per certo che,
grazie alla poesia che ho pubblicato,
non è affatto cambiato il mio cuore,
sei tu a esser cambiato, o lettore.



L’Africa
(Scritta dopo l’attentato di Barcellona, 18/08/2017)

L’Africa è nel terrore.
Nel terrore di vivere e morire,
Nel terrore di partire e tornare.
Nel terrore dell’Africa
C’è il terrore dell’Occidente,
Nel terrore dell’Occidente
C’è il terrore dell’Africa.

Il terrore della presenza,
il terrore dell’assenza.
Quanto Occidente c’è in Africa?
Quanta Africa c’è in Occidente?
Dell’Occidente è il terrore dell’assenza,
Dell’Africa è il terrore della presenza.
Eppure l’Africa è assente
L’Occidente è presente.

Perché l’Africa è assente dalle Borse mondiali?
Perché in Africa non si corre il Gran Premio di Formula Uno?
Le macchine più veloci al mondo sono fatte,
e corrono, col petrolio africano,
e in Africa non si corre un Gran Premio!
Sono gli africani il petrolio dell’Africa.
Fuggono dalla schiavitù di casa
per diventare schiavi dell’Occidente.

Col terrore negli occhi
di chi ha conosciuto il terrore,
manifestano così la loro presenza al mondo.
Il terrore negli occhi sotto gli occhi
di chi è assente in casa propria.

Perché, allora, alla presenza dell’Occidente
l’Africa è assente?
È vero, è giusto – dirai anche tu –.
Eppure queste cose le dico io,
ma dovrebbe dirle un africano in Africa,
e con lui molti africani in Africa.
Io dovrei sentirle pronunciate da loro,
anche fuori dall’Africa.

Non tu, ma io, dovrei
avere il coraggio di ascoltarle qui
pronunciate da loro,
per dargli ragione.
Tutto questo nonostante i loro morti,
nonostante i nostri morti.



Devo tacere…

Devo tacere, lasciarla parlare,
Fermare il moto del mio cuore,
Saper ascoltare, smettere di dominare,
di aggredire il mondo con verbosità convincente,
di ammiccare alla comprensione che comprende,
evitare di voler possedere quei segreti inconfessabili
che lasciano senza fiato, col tambureggiare ripetuto
di una lingua indolente e ribelle.

Non pretendere, ancora, di arrivare alla mente,
per vedere lei semplicemente che parla,
gesticola, sorride, si ferma per darmi un bacio d’improvviso.
Vederla muoversi elegantemente
tra le vie di questa città nuova,
districarsi tra politica, storia dell’arte,
immigrazione, trucchi e alta società.

Mai avrei pensato di incontrare la parte
migliore di me facendola semplicemente tacere,
ascoltare lei come un dono del cielo,
mentre guarda l’infinito del mare con l’infinito dei suoi occhi,
persi tra le sfumature dell’ultimo colore al tramonto,
quando il mare s’infrange rumoroso di fronte a noi;
sentirla esultare davanti a una stella cadente,
sotto il cielo stellato, guardato con gli stessi occhi,
una donna all’altezza del cuore,
cui segue silenzio per esprimere il Desiderio segreto.
Proprio lei non sa che questo è sempre stato
l’inconfessabile mio segreto:
scrivere righe profetiche accanto a lei.

Rima & Rhythmus musicae nella Comedìa

Il ritmo definisce quasi interamente la propria musica. Ritmo che –anche nella poesia dantesca – serve alla musica del testo: canto, cadenza d’intonazione, respiro creativo del poeta, equilibrio della composizione stabilito da pause e accelerazioni, attraverso l’endecasillabo suggerisce il fluire del tempo, stabilisce il susseguirsi continuo di versi in terza rima.

Terza rima di endecasillabi che, nella Divina Commedia, determina la prima azione del ritmo in quel testo. La stessa radice etimologica della parola rima pone davanti a un bivio: considerare la rima dal punto di vista metrico o dal punto di vista ritmico? Dal punto di vista della metrica o della fruizione musicale?[1] A partire dall’ultima vocale tonica, nella parte finale tra una o più parole, o versi, la rima possiede un’identità di suono e di accento che determina l’andamento ritmico e melodico del testo.[2] Il ritmo è, dunque, parte integrante di una funzione costitutiva, o qualità, della poesia che la critica spesso studia nel campo dell’analisi metrica, ma che all’origine delle lingue volgari ricadeva più propriamente nel campo musicale, dal momento che la poesia stessa rientrava nell’ambitus artis musicae.[3]

L’attenzione musicale espressa da Dante[4] ha forse più che il sapore di una ‘consapevolezza’ della critica moderna evidenziata principalmente con funzione ‘retorica’. Il fatto – per esempio – che il sirventese e la canzone fossero musicati all’età della Commedia, suggerisce certamente la funzione di un metro, ma dà anche conto della necessità che fu di Dante di creare un metro nuovo per un poema nuovo: poema classico nella forma e nello scopo, ma contemporaneo, pregno di una valenza musicale, più legata ai chansonnier medievali francesi che non ai ritmi declamatori di Virgilio.[5]

Ritmo musicale

 

L’aspetto della cadenza ritmica della terzina, dunque, la perfectio rhythmica della musica, aiuta a capire quale fu la portata di tale invenzione per un poema morale, epico, cronacistico, attraverso la sua funzione mnemonica, evolutiva, narrativa, musicale, orale, teologica, sillogistica, determinante per lo svolgimento della fabula poetica.

Fondamentale è analizzare il ritmo per definire la distribuzione dell’accento, il numero delle sillabe del verso, la posizione per cui anche il metro, alla fine, stabilisce quel ritmo. La distribuzione dell’accento metrico,[6] casi canonici a parte, che investono il modo e cioè il carattere del verso, fa sì che l’endecasillabo offra varie soluzioni ritmiche. Ci si richiama ad accento variabile ma, per quanto riguarda le possibili modulazioni dell’accento secondario, la collocazione finale spetta all’esecutore.[7] Il Fubini in particolare ha sottolineato la contrapposizione tra lettura ritmica, o lettura metrica, e lettura ad sensum. Riteniamo che una soluzione di compromesso sia adottabile, per ciò che pare insanabile nella distanza di posizioni tra studiosi di metrica classica e gusto recitativo di dizione dell’arte moderna. Gli uni e gli altri pare si discostino contrapponendo tra loro scelte di gusto a scelte di metodo.[8]

Parliamo di una lettura ritmica che consenta di percepire la regolarità metrica dell’endecasillabo scandito in terzine, ma che non smetta di considerare la pausa a fine verso, capace, da sola, di suggerire il tempo, il respiro semantico dell’intera frase. È una pausa musicale indispensabile, quella, utile alla comprensione del testo, per una lettura rispettosa della sua ritmicità. In tal modo si eviterebbe, per esempio, che il senso venisse soffocato dall’esasperazione timbrica, e che proprio il ritmo, di fatto, alla fine non conceda diverse significative varianti. Così si considera la ritmica evitando di distruggere il significato. All’interno di una lettura ritmica, mentre ci si abbandona al motivo di una lettura a voce alta, il senso del testo si recupera esattamente per via di quelle distanze architettonicamente cadenzate, già disegnate dall’autore, in sé già rivelatrici di significato.

C’è poi da considerare che anche le pause sistematiche in Dante svolgono un ruolo ritmico-semantico. Vengono applicate differentemente a seconda del luogo e dello scopo della funzione narrativa che ricoprono. Qualcosa di simile accade proprio col ritmo, quale varietà del contorno accentuale che dal metro interagisce col contorno prosodico. Metro e lingua, così, s’impongono l’uno sull’altra, creando una complessità timbrica e sonora che per esempio nell’Inferno – sono segno di ricerca delle rime difficili, di rime infernali, secondo la convenientia d’ottenere anche per via ritmica le rime “aspre e chiocce” (Inf. XXXII, v. 1), così come in Purgatorio e Paradiso gradualmente troviamo l’opposto rispetto alla tematica di quelle Cantiche.

Per l’Inferno, in particolare, Marina Nespor individua un ritmo astratto di tipo giambico. Schema formato da un’alternanza di posizioni metriche in tesi (debole) e posizioni metriche in arsi (forte).[9] Come esempio di lettura ritmica prendiamo un passo di Inferno, con quattro posizioni ritmiche principali, non necessariamente combinate con quelle sillabiche.[10] Solo dopo aver assegnato lo schema ritmico notiamo alcune importanti caratteristiche: esistono delle identità ritmiche, dei patterns. Si tratta di isole ritmiche, o nuclei ritmici, che nel brano si ripetono in diversi luoghi, e che qui per esemplificazione li abbiamo individuati con due colori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si vede, anche una breve analisi di questo tipo porta a diversi interrogativi e a varie soluzioni rappresentative, in una lingua costruita attraverso l’intreccio consapevole di suoni e timbri che, pur in un solo metro, dia svariate ragioni comunicative utili alla propria causa: per cui suono e concetto perseguono un loro unico fine.

BIBLIOGRAFIA

  1. Alighieri Dante De Vulgari Eloquentia in Le Opere di Dante, a cura di Pio Rajna, Società Dantesca Italiana, Firenze, 1960.
  2. Alighieri Dante, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1994.
  3. Beltrami Pietro G., Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002.
  4. Fubini Mario, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962
  5. Nespor Marina, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994.
  6. Terni Clemente, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975.

Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[1]   “Altro è il ritmo preso in considerazione nei manuali di metrica, che di necessità prescindono dalla poesia in concreto, altro è il ritmo reale, che risulta da tanti elementi, dalle parole, dal loro peso, dalla loro estensione, del loro colore, dai loro suoni, dalla loro varia disposizione, e così via; bisogna però sempre tener presente che solo per necessità di analisi parliamo di elisioni, cesure, ecc., e che questi elementi non esistono uno per uno: ciò che esiste è il ritmo; isolando quegli elementi distruggiamo la poesia”, Mario Fubini, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1962, pag. 45. Si veda anche Quaderni di M/R, atti del convegno “La musica nel tempo di Dante”, Edizioni Unicopli, Ravenna, 1986.

[2]    Dal francese antico, risme, e il provenzale rim o rima, la funzione del suo significato originario si ricava dal latino rhythmus. Dove rhythmus della poesia metrica latina era considerato il rapporto di equilibrio e alternanza tra sillabe lunghe e sillabe brevi, che nella poesia latina medievale, veniva detta appunto rhythmica. Indicando, cioè, le forme che vanno a perdere dinamica quantitativa, per rispettare altro tipo di parametri: numero delle sillabe, distribuzione dell’accento e rima, appunto. Si veda Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 75.

[3]    “Il rapporto fra metrica e musica nasce storicamente dal fatto che in origine (un’origine ripetuta più volte nella storia) i testi in versi erano tali perché eran testi per musica: si pensi quante volte la poesia è stata detta canto, anche quando non era per musica, e quante volte è stata effettivamente cantata. Le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica; ma la metrica, come la musica, organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni (non puri suoni, ma segni linguistici, fatti inseparabilmente di suono e significato), mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora.”, Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag. 13.

[4] “Poesim (…) nichil aliud est quam fictio retorica musicaque poita”, < La poesia altro non è che una finzione costruita sulla retorica e sulla musica > (De vulgari eloquentia, II, IV, 2).

[5]    Dante compose un sirventese enumerativo, dedicato alle trenta più belle donne di Firenze, fatto certamente legato alle sue frequentazioni culturali in ambito musicale. Ma una delle argomentazioni portate avanti dal Fubini, sulla scia del De Lollis, è che il sirventese sia genere letterario meglio accreditato a inquadrare da vicino la costituzione genetica della terzina. Il sirventese era una forma di componimento musicato, che si adattava alle circostanze d’occasione, poesia di attualità, d’invettiva, con un metro pressoché identico a quello della canzone. Anche la canzone, stando alle affermazioni di Dante, era componimento che aveva forti attinenze con la musica, dato che – dopo che il poeta aveva fatto il lavoro di ‘armonizzare’ il testo, per renderlo più fruibile non solo all’ascolto, ma anche al canto – poteva essere accompagnata d musica musicata. Da questo tipo di opera derivava il suo nome: canzone. Ma nel De vulgari eloquentia troviamo importanti parole di teoria letteraria di fondamentale rilevanza per questa argomentazione. Sono parole dedicate alla descrizione del metro della canzone, e in particolare quando si parla del piede: “E se capita che nel primo piede ci sia una terminazione priva di rima, bisogna assolutamente assegnargliela nel secondo. Se invece ogni terminazione del primo piede ha qui stesso il suo accompagnamento di rima, nell’altro è lecito riprendere o invece rinnovare le rime, come si preferisce, o totalmente o in parte, purché si conservi in tutto e per tutto 1’ordine delle precedenti: mettiamo, dati piedi di tre versi, se nel primo piede le terminazioni dei versi estremi, cioè il primo e 1’ultimo, si rispondono, è necessario che si rispondano anche le terminazioni alle estremità del secondo piede; e quale si presenta nel primo piede la terminazione del verso mediano, voglio dire accompagnata o scompagnata, tale dovrà riaffacciarsi nel secondo: e la stessa regola va osservata per i restanti piedi.”, Dve, II, XIII, 10. Riteniamo che qui si possa individuare, in embrione, l’origine della genesi della terzina dantesca. È questo forse un passo che pertiene propriamente alla fase di elaborazione concettuale e culturale della terzina, anche se, in questo stadio, ancora inconscio.

[6]   Detto ictus, in metrica differente dall’accento dinamico, o d’intensità – nell’endecasillabo si basa su due tipi di schemi accentuativi fondamentali che determinano il profilo ritmico del verso: detti a maiore ed a minore. Il tipo a maiore è l’endecasillabo con l’accento principale sulla 6° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente solenne. Il tipo a minore è l’endecasillabo con l’accento principale che cade sulla 4° sillaba, prima della 10° canonica, di tono normalmente più pacato. Entrambi, nella loro nomenclatura, ricordano in musica il modo delle tonalità maggiore o minore.

[7]    Decisivo, dunque, il tipo di lettura scelta dal lettore, il quale decide gli spostamenti e determina il profilo ritmico del verso, pur avendo i punti di riferimento negli accenti primari. “Gli altri accenti sono secondari rispetto al metro, ma sono altrettanto importanti per il ritmo del verso; la disposizione di tutte le sillabe toniche o atone, soprattutto nei versi ad accentazione variabile, è anzi il primo strumento in mano al poeta per l’elaborazione ‘musicale’ del discorso”. Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, Il mulino, 2002, pag 54. La varietà dell’endecasillabo è elogiata da Dante nel De Vulgari Eloquentia per quella flessibilità determinata dal tempo e dalla durata dell’esecuzione del verso. Una lettura in grado di restituire la qualità musicale del testo, insieme a quella ritmica del metro, è certamente la recitazione a voce alta, all’interno di una regolarità metrica che di per sé è già musicale.

[8]    In maniera particolare nel Medioevo si posero le basi per la futura terminologia metrica, quella che noi oggi, seppure con una consapevolezza differente, correntemente utilizziamo. In questa esposizione veniamo confortati dalle applicazioni della musicologia allo studio letterario. In uno studio non recente, del 1975, infatti, Clemente Terni, musicista e musicologo sensibile alla lezione del Contini, aveva individuato un metodo prettamente musicale per determinare i modi ritmici di tutte le varietà tipiche della principale versificazione italiana. “In una prima fase vi sarà distinzione tra sillabe accentate con accento di diverso tipo, ma subito dopo si osserverà che solo alcuni accenti dànno ritmo alla frase. Questi accenti, che saranno poi chiamati accenti ritmici, usurperanno il ruolo di kyrios tonos all’accento acuto e gli accenti grave, acuto, e circonflesso resteranno alla grammatica.” Clemente Terni, Musica e versificazione nelle lingue romanze, in Studi Medievali, Terza Serie, XVI, I sem. Torino, 1975, pag 14. Basandosi sullo scritto di un autore del V secolo d.c. (De nuptiis Philologiae et Mercurii, di Marziano Capella, nel quale si evidenzia una particolare attenzione alla caratteristica musicale del linguaggio), Terni dice che in questa fase viene elaborato il naturale processo da una prosodia classica basata sulla quantità vocalica alla qualità sillabica, solo grazie al mantenimento dell’apporto concreto della musica. Il passaggio dalla percussio all’accentus, dunque, da un fatto temporale a un fatto sonoro, è il marchio di un cambiamento epocale nella metrica e nella versificazione medievale: dalla classica, appunto, a quella volgare. Il numero sillabico determina, così, la collocazione dell’accento, il ritmo è equiparato a quello musicale, il fatto sonoro della rima ripetuta a fine verso acquista una valenza ritmica, e non solo melodica. Le opposte maniere versificatorie, prosegue il Terni, ricadono nell’ambitus artis musicae, “naturale humus della loro origine”. Ma Terni va oltre, attraverso l’associazione musicale del tetracordo prima e, dopo la lezione di Guido D’Arezzo, dell’esacordo, poi, ricava i modi ritmici della versificazione italiana a partire dalla distribuzione dell’accentus. Posti in relazione con la semiminima della scala diatonica naturale, presente tra il terzo e quarto grado e il settimo e ottavo, lungo cui l’accentuazione ritmica doveva essere più marcata. Le soluzioni ritmiche accordali arrivano a riguardare anche l’endecasillabo, e a tal proposito si formulano varie ipotesi perfino per una esecuzione ritmica delle rime dantesche della Commedia. L’endecasillabo, infine, a seconda della sua distribuzione accentuale, si può considerare un pentasillabo più un eptasillabo, congiunto o viceversa, così da ottenere, per parte ritmica, rispettivamente, un tetracordo più un esacordo, congiunto o viceversa. Riteniamo questo un importante lavoro nella ricerca filologica, per un terreno comune riconosciuto nelle varie epoche come sempre vivo tra musica e poesia. Significati e accezioni moderne ridotte oggi a settori, rispetto al loro campo di applicazione originario.

[9]   L’analisi della stringa ritmica prevede di considerare una griglia metrica astratta, in grado di inglobare la maggioranza dei casi regolari, e sopportare le modificazioni che il materiale linguistico impone, per variatio e accidente, al materiale metrico: “Il primo vantaggio consiste nel rendere conto del fatto che i versi uniformemente giambici sono i più diffusi nella Commedia. Il secondo vantaggio è che si rende conto del fatto che anche negli altri casi, di endecasillabi che non sono completamente giambici, le posizioni pari sono di preferenza forti e quelle dispari deboli. Presumendo che l’endecasillabo abbia solo una posizione obbligatoriamente forte, la decima, e che ci siano diverse possibilità non connesse tra di loro per le altre posizioni, non si rende conto di queste due caratteristiche fondamentali dell’endecasillabo dantesco. Il terzo vantaggio di questo schema è che da esso, con poche regole ben definite si possono derivare tutti i versi dell’Inferno e che tali regole forniscono una misura della tensione o complessità: un verso completamente giambico avrà, a questo livello, tensione zero, e ogni deviazione da esso (espressa da una regola) aumenterà progressivamente la tensione”, Marina Nespor, Fonologia, Il mulino, Bologna, 1994, p. 298. Il ritmo metrico astratto è collocato dalla Nespor al secondo livello della griglia metrica, quella dei piedi metrici, mentre ciò che rende giustificazione del ritmo dell’endecasillabo si registra al terzo livello della struttura metrica di un’analisi fonologica, quello degli emistichi. Sono infatti queste le porzioni di verso che hanno le prominenze accentuali maggiori o minori, quelle che definiscono la stringa ritmica del verso, che stabiliscono la distinzione del modo a maiore, a minore, basano sulla lunghezza temporale dell’intero verso, e sul contorno accentuale dell’intera frase.

[10] LEGENDA: Le posizioni metriche che ricevono l’accento ritmico sono rappresentate da *; le posizioni isolate sono rappresentate da °, e indicano una pausa verbale che occupa a tutti gli effetti una posizione ritmica, rendono conto sia della pausa di fine verso, che – dove è concepita – della pausa della cesura a centro verso. Già il Sesini [1939] aveva chiamato questa pausa col nome ‘silenzio musicale’ e, anche egli, mentre studiava le caratteristiche dello scontro accentuale a centro verso in uno studio sul Petrarca, propese per una lettura ritmica di quei testi.