Le tracce dell’assente in Ozu

Un Deus absconditus

Nella breve presentazione del mio libro Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale[1] che appare su quella che nel gergo editoriale viene detta “quarta di copertina” si parla del mio pormi anche in questo caso sulle orme del Trascendente e alla ricerca delle “tracce dell’Assente”. Non è un caso se le parole Trascendente e Assente siano scritte con la lettera maiuscola. La mia ricerca infatti va oltre una indagine di tipo filosofico o esistenziale ma pur muovendo da lì i suoi passi ha scelto poi di accedere ad un livello teologico e spirituale del discorso in cui ad essere interrogato è il Dio della tradizione biblica anche se ciò può essere meno evidente e solo sottinteso nel caso del libro sul cinema di Yasujiro Ozu (1903-1963)[2]. San Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo del sedicesimo secolo affermava che dal momento in cui il Padre ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire. Si tratta di un concetto che è presente nel Nuovo Testamento nella lettera agli Ebrei e in altri testi soprattutto giovannei e paolini. Il Dio che ha scelto di rivelarsi in maniera totale e definitiva nel suo Figlio Gesù Cristo (Eb. 1,2) non cessa tuttavia di essere un Deus absconditus[3], un Dio nascoso, che spesso a noi sembra essere avvolto e occultato da una coltre di silenzio e di “assenza”. Da qui quell’esigenza inestinguibile e quell’inquietudine che ci portano a cercarlo senza sosta “andando come a tentoni” (At. 17,27) e a volte non senza affanno come la sposa del Cantico dei cantici cerca l’Amato. Anche solo un segno del suo passaggio, un’orma o una traccia della sua silenziosa e invisibile presenza colmano il nostro cuore di una gioia sublime e indicibile (1Pt. 1,8) ed è per questo che il desiderio che anima la nostra ricerca lungi dall’ estinguersi si riaccende e si accresce man mano che intravediamo qualcuno dei suoi segni.

Lo stile di Ozu

Ora l’espressione “le tracce dell’assente” in questo caso scritto con la minuscola non è del tutto mia, in quanto l’ho trovata in un testo[4] che cito più volte nel mio libro dedicato al regista giapponese. Il libro di Carlos Martìs Arìs è dedicato ad alcune figure eminenti di artisti del ventesimo secolo nelle cui opere risulta determinante il tema del silenzio che squarcia il tetto dell’immanenza. Tra loro l’autore inserisce anche Yasujiro Ozu a cui dedica un capitolo, il quinto: “Ozu o le tracce dell’assente”[5]. Si tratta di un brano testuale ricco di spunti metafisici che cerca di penetrare nel significato di una poetica che ha radici profonde spingendosi oltre la realtà fenomenica e aprendosi sul mistero della trascendenza. Io ho scelto di fare mia l’espressione per certi versi misteriosa ed enigmatica “tracce dell’assente” subendone il fascino affatto particolare, dando tuttavia alle parole, man mano che mi dedicavo ai saggi su Bergman e Rohmer, un senso più compiuto e definito che trova il suo contesto vitale di riferimento nell’ambito della rivelazione biblica e cristiana in particolare. Trovo tuttavia di considerevole importanza e significato che tali tracce si possano rinvenire anche nel percorso personale di un grande autore che appartiene ad un mondo culturale che per molti aspetti ci risulta estraneo.

Tomba di Yasujiro Ozu con fiori
Tomba di Yasujiro Ozu con fiori

Il regista nipponico ha tratto dall’humus della propria tradizione culturale e religiosa i valori spirituali che informano la sua arte che quasi non è comprensibile se si prescinde dalla comprensione del loro apporto. Concetti come“mu”[6], “mono no aware”[7], “omiai”[8], “ie”[9], “devozione filiale[10] sottendono il pensiero del regista e la sua precomprensione della realtà ispirandone profondamente lo stile. Egli adotta di fatto un punto di vista “obliquo”, ponendosi come di lato, senza che la sua persona sia al centro e si frapponga tra l’obiettivo e la realtà, il suo non è solo un osservare ma anche un mettersi in ascolto, un ascolto che si fa umile e rispettoso. È da tale postura che gli oggetti e le persone stesse vengono inquadrati dalla macchina da presa, quasi attendendo il momento in cui vivranno un mutamento e una trasformazione che solo a volte si rende più percepibile. È a quel momento che lui tiene particolarmente ed è in tal modo che “l’inventario del quotidiano si trasforma dunque in una invocazione spirituale”[11]. La società e la famiglia che ne rappresenta il distillato e anche il microcosmo sono lette attraverso questa lente e il tempo è il fattore saliente attraverso cui tutto viene filtrato. Nel testo ci sono riflessioni molto dense sullo stile peculiare di Ozu e anche sul significato dei suoi celebri “piani vuoti”, quegli inserti nel flusso narrativo che lo interrompono per qualche secondo. Essi sono abitati da un silenzio che a volte si fa ricettacolo di emozioni e stati d’animo e altre ne diventa evocatore attraverso oggetti inanimati o ambienti spesso domestici svuotati della presenza umana. Per spiegare meglio ciò che l’autore intende per “tracce dell’assente” nel capitolo si fa una breve analisi di alcuni brani tratti dalle opere del regista giapponese. Voglio soffermarmi su di uno in particolare riguardante le sequenze finali di Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, 1953). Vi sono rappresentati tre personaggi del film mentre sono soli e pensano.

Le sequenze finali di Viaggio a Tokyo

La storia volge al termine e il vecchio Sukichi che ha perso da poco la compagnia della moglie Tomi è nella sua casa, seduto sul tatami in silenzio davanti alla finestra, lì dove prima amava sedere insieme con lei. Caccia una mosca fastidiosa che gli vola vicino al viso e guarda al di fuori verso il porto di Onomichi e il mare. Tra poco si affaccerà la vicina e la saluterà sorridendole gentilmente come è suo modo. Gesti consueti che si ripetono e fanno pensare a quando con lui c’era Tomi, i gesti sono gli stessi ma allo stesso tempo sono mutati, hanno un sapore diverso. Rimane sospeso nell’aria il non detto, l’implicito, tutti lo pensiamo guardando questa scena e non sono tanto le parole a manifestarlo, ancora nessuno ha parlato, ne altri elementi che vi siano presenti, a rivelarlo sono le tracce dell’assente[12].

Poi c’è Kioko, la figlia di Sukichi che è maestra e mentre i bambini cantano lei si affaccia alla finestra dell’aula e guardando l’orizzonte pensa. Sa che tra poco vedrà passare il treno per Tokyo su cui è appena salita la cognata Noriko, quel treno le evoca tutto un passato recente fatto di parole ed emozioni, di lutti e amarezze, di scoperte e rivelazioni: nulla sarà più come prima. La figura del treno come è in grado di presentificare una realtà interiore così nella sua corsa porta lontano. Il protagonista è il silenzio e a parlare sono solo le immagini e in sottofondo il coro dei bambini ma le tracce di ciò che è stato (e di un turbamento verso un futuro inconoscibile) si fanno segno e memoria e pur essendo a tutti gli effetti invisibili e impalpabili vengono impercettibilmente trasferite dalla composizione di quella scena con al centro la figura pensosa di Kioko, direttamente al cuore dello spettatore.

L’altro vertice di questo triangolo ideale è rappresentato da Noriko che su quel treno sta lasciando la casa dei suoceri e del marito disperso in guerra per tornare a Tokyo, la città dove lei vive e lavora e che indica il suo futuro. Il treno è immagine del tempo che trascorrendo si lascia dietro paesaggi, città, campagne, in una parola il passato. E insieme alla dimensione temporale «introduce la dolorosa coscienza che tutto si avvia irreversibilmente alla fine». Noriko osserva l’orologio da taschino che le ha regalato il suocero (ancora un rimando al trascorrere del tempo), era quello che apparteneva alla moglie defunta, non può che commuoversi e piangere pensando a quel dono, all’affetto ricambiato verso Tomi, alla propria travagliata storia matrimoniale, una storia che non vuole lasciarla e che neppure lei vorrebbe lasciare. Ma le parole di Sukichi hanno sollevato il suo animo da scrupoli insensati, un tempo sta davvero esaurendo il suo corso…  Nel silenzio di uno scompartimento ferroviario l’unico rumore che si avverte è lo stridore meccanico e sordo del treno sulle rotaie. Silenzio imperfetto “in cui si imprimono le tracce dell’assente” [13].

[1] Bersan D., Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2024.

[2] Bersan D., Figure del padre in Ozu, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2020.

[3] Is. 45,15. Rimando anche alle mie riflessioni a commento del film “Luci d’inverno”: Bersan D., Dio ridotto al silenzio. Pensieri inattuali su Bergman, Polimnia Digital Editions. Sacile (PN) 2021, pag. 149-153.

[4] Martìs Arìs C., Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2002.

[5] Op. cit., pag. 58-69.

[6] Concetto buddista che richiama al vuoto, al nulla inteso non nel senso nichilistico proprio dell’Occidente ma come feconda matrice in cui l’io si perde per poi ritrovarsi in un processo di perenne movimento attraverso l’estinzione e la rinascita.

[7]Dolce mestizia che prende l’animo mentre contempla il dileguarsi inarrestabile delle realtà umane.

[8] Si tratta del matrimonio combinato dalle famiglie dei futuri sposi, anche attraverso un mediatore interno o esterno alla famiglia.

[9] È la famiglia tradizionale giapponese che ospitava più generazioni e anche altri membri adottati o acquisiti.

[10] È uno dei principi cardine della dottrina confuciana.

[11]Op. cit. pag. 63.

[12] Op. cit. pag. 67.

[13] Op. cit. pag. 67. La citazione si riferisce alle parole che nel testo commentano un altro film di Ozu, “Inizio di primavera” (Soshun, 1956) e riguardano la scena finale in cui i due coniugi momentaneamente riconciliati e lontani da Tokyo, la loro città, osservano in silenzio il treno che lentamente si allontana attraversando quel grigio paesaggio industriale.

Giancarlo Ricci

Scrivere su Giancarlo Ricci significa riaffrontare l’eco di svariati ricordi e suggestioni che non possono, è ovvio, lasciarmi indifferente e distaccato. Nell’ultimo periodo, a causa del Covid-19, ci siamo visti di meno. Dovevamo incontrarci proprio la mattina successiva alla sua morte, avvenuta il 20 maggio 2020. Ci eravamo visti ai primi di maggio, dopo più di due mesi. Ne ho ricevuta notizia durante la notte da un’amica. In quella notte non riuscivo a prendere sonno, che strano! E poi la notizia, un sms che mi ha sconvolto, oltre che addolorato profondamente. Negli ultimi mesi, e mi riferisco ai primi mesi dell’anno, avevo notato il suo dimagrimento, o meglio, un evidente deperimento fisico, ma non avevo voluto dargli troppa importanza. Era evidentemente il mio tentativo di negare la realtà, di rimuoverla, un poco barando con la mia coscienza. Del resto egli mi si presentava assolutamente tranquillo, sereno e sorridente, come sempre. Certo, potevo chiedergli: Come stai? La salute come va? Non l’ho fatto. È un piccolo rimpianto che mi porto. Ho preferito, anche nel momento in cui ci si salutava e in cui non era insolito che gli chiedessi di lui, delle sue ultime pubblicazioni o su che cosa stesse scrivendo, ho preferito parlare d’altro, parlare di me, dei miei progetti. Era certo nell’ordine delle cose che si fosse parlato di questo. Poi lui non parlava volentieri della sua salute e glissava facilmente. È vero, ma non riesco a non pensare che siano delle giustificazioni postume e inutili.

Egli, negli ultimi mesi e già dall’anno scorso, mi diceva che stava lavorando sul tema del passaggio generazionale e dell’eredità nel suo significato simbolico. Il lascito dei padri ai figli e quello che nell’incontro tra le generazioni viene trasmesso. A tal proposito, mi citava spesso gli scritti del giurista e psicanalista francese Pierre Legendre che lui leggeva con grande interesse, ritrovando in essi una miniera di spunti di ricerca. La figura del padre risultava centrale in questo discorso e ricordo perfettamente i suoi continui riferimenti alle figure mitiche di Ettore, del figlio Ascanio e del padre Anchise. Ettore fugge dalla città di Troia in fiamme ma vuole portarsi dietro l’anziano padre, caricandoselo sulle spalle, e il figlioletto, che tiene saldamente per mano. La moglie Creusa rimane un po’ indietro a seguirli. Vi è una copiosa e antichissima iconografia che raffigura questa situazione. Perché, si chiede Giancarlo, Ascanio non viene affidato alle cure della madre e viene tenuto da Ettore accanto a lui, in prima linea, dove il rischio è più grande? Evidentemente perché considera ormai Ascanio il figlio a tutti gli effetti e, in quanto tale, erede e destinatario di una promessa e di un compito. Quindi, non più solo un bambino. Il bambino si situa ancora nell’ambito del desiderio materno, ma il figlio non più. Leggi tutto “Giancarlo Ricci”

La consegna di Giovanni Sias

È simile a dei ragazzi che stanno nelle piazze e gridano a altri, dicendo: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato lamenti e non vi siete battuti il petto
Matteo 11, 16-17

Nella mia ultima lettera, scrivevo a Giovanni Sias di avere terminato di costruire i file di stampa e di copertina del libro, da lui curato, delle interviste inedite a Giuseppe Pontiggia rimaste nel cassetto per trent’anni – quel libro a cui dichiarava di tenere più di ogni altro.1 La sua estrema volontà era di saperlo certamente pubblicato, anche se forse non avrebbe avuto il piacere di tenerlo tra le mani. Stavo per inviare i file in tipografia, quando Daniela Marcheschi (a cui si deve la Prefazione) mi ha inviato una quarantina di indirizzi di articolisti che lo avrebbero recensito su quotidiani e riviste. Si poneva così la questione di chi dovesse ricevere i libri stampati e occuparsi degli invii. Date le condizioni di Sias, spettava a me il compito di soddisfare il suo estremo desiderio. La lettera con cui lo rassicuravo in tal senso non ha fatto in tempo a raggiungerlo in vita. Ma la sua risposta mi è giunta in sogno, la notte di ferragosto.

Mi trovo nella casa in cui sono nato e vengo sorpreso dallo squillo imperioso del campanello. Mentre vado ad aprire, i miei movimenti sono lenti e pesanti, mi trascino con grande sforzo verso la porta, mentre tutto il mio corpo sembra opporsi. En passant, scorgo in un letto la sagoma informe di mio padre, completamente sepolto sotto un ammasso di coperte. Quanto meno, penso, uno “straccio di padre” ce l’ho (avuto). Apro infine la porta di casa e nel buio delle scale intravvedo “l’ombra di un volto imperscrutabile nell’ombra”. Nonostante l’angoscia, non mi sveglio. Con uno sforzo penoso trovo la voce per chiedere:
Per chi è la consegna?
È per te, mi sento rispondere.

Nel sogno riconosco i tratti pavidi della nevrosi (se l’angoscia mi avesse svegliato, la capitolazione sarebbe stata completa), che ad ogni invocazione, ad ogni promozione di un’investitura, si aggrappa a uno straccio di padre e volentieri si schermisce: destinatario assente, si prega di ripassare. Non senza motivo: la consegna va ben al di là di un compito editoriale, per affidarmi (insieme ad altri: cuique suum), un’eredità spirituale ancora tutta da stimare, l’esito di una ricerca all’insegna del motto della Lega anseatica caro a Freud: navigare necesse est, vivere non necesse. Leggi tutto “La consegna di Giovanni Sias”

Ricordando Giovanni Sias

Difficilmente potremmo incontrare in questi tempi di «non pensiero», una personalità di talento speculativo e di interrogazione etica e filosofica come quella di Giovanni Sias: psicanalista e formatore di psicanalisti, studioso e teorico della psicanalisi

Nato a Biella nel 1952 e morto a Milano il 1° agosto 2020, Sias ha vissuto e lavorato fra quest’ultima città, Firenze e Parigi. Fra i pochi a pensare gli statuti della propria disciplina, è stato attento a un teorizzare aperto e pluridirezionale della cultura; attento alla sua dinamica in continua evoluzione. Lo ha fatto in un dialogo con i grandi classici dell’antichità e della contemporaneità, e in ascolto di maestri e amici quali Giuseppe Pontiggia, Mario Lavagetto, Moustapha Safouan e con quanto di meglio è stato teorizzato dal pensiero psicoanalitico, e non solo, in ambiti molto allargati e differenziati: sistema delle arti e delle scienze, filosofia, linguistica, ecc.

Lo ha fatto in un’epoca che lui stesso avrebbe definito, secondo le parole dell’amato José Ortega y Gasset, di falsificazione della vita, di intellettuali che leggono talora molto, ma che pensano poco. I loro libri risultano così ineffettuali: platonicamente «riponendo la loro fiducia in ciò che è scritto, crederanno di comprendere le idee, ma così facendo le prendono dal di fuori per mezzo di segnali esterni e non dal di dentro, per conto proprio… Imbottiti di presunte conoscenze che non hanno realmente acquisito, si riterranno capaci di giudicare tutto, quando a rigore non sanno nulla e, inoltre, saranno insopportabili, perché invece di essere saggi come essi suppongono, saranno soltanto un cumulo di frasi» (così José Ortega y Gasset, La missione del bibliotecario, Milano, SugarCo, 1984, p. 57).

Sias è stato fedele alla grande tradizione sapienziale dell’Occidente, all’approfondimento delle culture greca ed ebraica, in dialogo con altre tradizioni, e soprattutto alla psicoanalisi come percorso di saggezza in una costante interrogazione. Ha dedicato la sua vita a un percorso fatto di pratica analitica, formazione, riflessione, scritti e conferenze, convegni nazionali e internazionali. Importante quello di Parigi del 2008 organizzato dall’UNESCO, sul tema Incoscient droit, savoir. Journée mondiale de la Philosophie, o quello franco-turco tenuto a Istanbul nel 2009 della prima e quasi nascente associazione psicanalitica turca affiliata all’I.P.A.  Non meno importanti altre sue relazioni, come ad es. quella tenuta al II Convegno Internazionale di Studi sull’Umorismo del 2009 su Il motto di spirito nei suoi rapporti con la verità (ora in AA.VV., L’Umorismo in prospettiva interculturale. Immagini, aspetti e linguaggi/Crosscultural Humour: Images, Aspects, and Languages. Atti del II Convegno Internazionale di Studi sull’Umorismo Lucca-Collodi 2009, a cura di Omar Coloru e Giuseppe Minunno, Con CD allegato, Parma, Atelier65, 2014).

Il suo lavoro ha cercato sia di porre argine alla mercificazione e agli opportunismi di una “medicalizzazione” della psicoanalisi, e alla sua pretesa di cura, sia di contrastare le ossificazioni della pratica e del metodo, i settarismi di scuole e dottrine nella loro incomprensione di fenomeni quali la follia e il disagio psichico, la complessità dello psichico, del linguaggio, della lettera e della letteralizzazione e dei disastri di pseudoscienze, tecniche e apparati di ragione strumentale. Di fronte alla distruzione dell’alta cultura nel nostro paese e all’accettazione nichilistica dell’esistente in quanto esistente o supposto tale, Sias ha richiamato all’importanza fondamentale di un’etica, non solo della scrittura, e alla responsabilità del pensare: dovere a cui troppo spesso mancano gli intellettuali.

In un contesto di quasi generale disarmo e scarsa attenzione, chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo ne ricorda le parole piene di pathos, vive di una luce di cultura libera e intelligenza ispirata da una verità profondamente cercata e abitata. Le stesse che si ritrovano nei suoi libri. Suoi testi notevoli hanno circolato in paesi francofoni, di lingua inglese, spagnola, portoghese e perfino in turco. In italiano e francese ricordiamo Inventario di Psicoanalisi (Torino, Bollati Boringhieri, 1997); Cinq propos sur la Psychanalyse (Toulouse, Erès, 2001); Fuga a cinque voci. L’anima della Psicoanalisi e la formazione degli psicoanalisti (Torino, Antigone, 2008); Logos. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicoanalisi («Kamen’» n. 34, gennaio 2009); Appunti per una nuova epistemologia. Psicanalisi, scienza, verità (Lucca, ZonaFranca, 2012); Aux source de l’âme. Le retour de l’ancienne sagesse dans la psychanalyse (Paris, Éditions des crépuscules, 2013); Davar. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi («Enthymema», Università degli studi di Milano, 2013); La follia ritrovata. Senso e realtà dell’esperienza psicoanalitica (Roma, Alpes Italia, 2016); La psicoanalisi oltre ogni Weltanschauung. La letteratura come frontiera della scienza (Polimnia Digital Editions, 2019). L’ultima sua fatica è stata la cura di Giuseppe Pontiggia, Dialoghi sul romanzo, la psicanalisi, la scrittura e altro (Polimnia Digital Editions, 2020). Il volume riunisce i testi di due belle interviste, finora inedite, che Sias aveva fatto a Pontiggia nel 1989 e nel 1992, restituendoci, per intero, il sapore di un dialogo intellettuale ricco di suggerimenti critici e il senso di una amicizia, che fu forte e vera.

Giovanni Sias

La Biografia

Giovanni Sias (Biella, 1952-Milano 2020) ha vissuto e lavorato a Milano, Firenze e Parigi. Psicanalista e formatore di psicanalisti, è stato studioso e teorico della psicanalisi, e ha fatto parte dell’Area Mediterranea di Psicoanalisi, un collettivo di lavoro che riunisce psicanalisti italiani, francesi e spagnoli.

La sua ricerca teorica ha riguardato i fondamenti della pratica della psicoanalisi e l’approfondimento dei principi primi della conoscenza psicoanalitica: Edipo, Mosè e il pensiero sapienziale (Presocratici e Profeti), le forme di elaborazione e trasmissione della psicanalisi (il teatro, la letteratura, l’arte) e dei suoi rapporti con il pensiero scientifico moderno.

A Milano ha collaborato anche con la Società Umanitaria–Fondazione Humaniter, presso cui ha tenuto seminari sulla Cultura della Psicoanalisi.

Nel 2012, è stato direttore scientifico del convegno internazionale Letteratura e psicanalisi (cfr. AA.VV., Letteratura e Psicanalisi, a cura di Daniela Marcheschi, Presentazione di Angelo Genovesi, Venezia, Marsilio, 2017), su nomina della Fondazione Dino Terra di Lucca, per la quale ha svolto anche un ciclo di lezioni sui fondamenti della psicanalisi.

Fra le sue maggiori pubblicazioni segnaliamo Inventario di psicoanalisi, Torino, Bollati-Boringhieri, 1997; Fuga a cinque voci. L’anima della psicoanalisi e la formazione degli psicoanalisti, Torino, Antigone, 2008; LOGOS. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicoanalisi, «Kamen’», 34, gennaio 2009; Appunti per una nuova epistemologia. La psicoanalisi, la scienza, la verità, Lucca, ZonaFranca, 2011; La follia ritrovata. Senso e realtà dell’esperienza psicoanalitica, Roma, Alpes Italia, 2016; La psicoanalisi oltre ogni Weltanschauung. La letteratura come frontiera della scienza (Polimnia Digital Editions, 2019); Giuseppe Pontiggia, Dialoghi sul romanzo, la psicanalisi, la scrittura e altro, a cura di Giovanni Sias (Polimnia Digital Editions, 2020).

I suoi saggi più importanti sono stati tradotti anche in francese, inglese, spagnolo, portoghese, greco e turco.

Doriano Fasoli ha dedicato un importante volume all’opera di Sias: Dal libro al divano. Autobiografia di una psicoanalisi. Saggio-conversazione con Giovanni Sias, Roma, Alpes Italia, 2018.

Articolo comparso su Corso Italia 7

Figure del padre in Ozu

In occasione della pubblicazione del libro di Davide Bersan Figure del padre in Ozu (Polimnia Digital Editions, Sacile 2020, ISBN: 978-88-99193-79-9)[1], riportiamo un’ampia presentazione scritta espressamente dall’Autore.

Il libro è un itinerario dentro il cinema di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato nel 1903 a Fukagawa, sobborgo popolare di Tokyo e morto nel 1963, lo stesso giorno del suo compleanno, il 12 dicembre. Il suo primo film è del 1927, l’ultimo del 1962: Il gusto del saké.

Ozu è considerato un maestro del cinema per il suo modo peculiare e geniale di saper utilizzare la macchina da presa. Il suo stile passa progressivamente da un cinema di imitazione – i film americani appassionavano il giovane Yasujiro che ne traeva ispirazione particolarmente per i suoi lavori dei primi anni Trenta, che esploravano i generi slapstick, noir, gangster, storie di studenti, ecc. – a uno più personale e originale. Si tratta di uno stile sempre più sfrondato dai numerosi espedienti tecnici appresi e sempre più ispirato a un rigore formale ed espressivo basato su criteri di sobrietà ed essenzialità, basti citare la fissità della mdp e la scelta di mantenerla all’altezza di una persona seduta sui tatami o a quella di un bambino. Ma non si trattava solo di decisioni che riguardavano alcuni procedimenti tecnici. Esse esprimevano una propria personale visione del mondo ispirata alla tradizione filosofica e spirituale del buddismo zen in cui concetti come mu (vacuità, assenza) e mu-jo (impermanenza) costituivano dei principi cardine. I film di Ozu hanno costituito e rappresentato questa sua visione del mondo.

A partire dai primi anni trenta – penso a Il coro di Tokyo (1931) – Ozu fa propria la cifra di una delicata e toccante umanità, descrivendo le storie della gente comune (Shomingeki). È un genere che certamente Ozu non inventa e trova già frequentato da altri, ma che a suo modo reinterpreta e traduce attraverso la sua levità particolare, il suo sguardo distaccato, obiettivo, che lascia emergere la realtà così come essa si presenta.

Dallo Shomingeki Ozu non si è mai allontanato, descrivendo le classi sociali più umili nei film degli anni Venti e Trenta per passare alla classe media nei film degli anni Quaranta e del dopoguerra. All’interno di questo genere di cinema contemporaneo l’obiettivo del regista si focalizza fin quasi da subito sulla famiglia giapponese che viene seguita nel corso di più di tre decenni nelle sue mutazioni a volte più lente e a volte improvvise e travolgenti.

Davide Bersan – Figure del padre in Ozu – Copertina

La figura del padre è indubbiamente in primo piano e risalta in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni attraverso le opere dell’autore a partire dai film più vecchi fino agli ultimi. Come spiego nell’introduzione al libro, nel corso degli ultimi anni ho curato vari incontri pubblici in cui i film di Ozu sono stati visti e discussi presso la biblioteca comunale della mia città. Di tale lavoro di analisi filmica condivisa ho mantenuto ed elaborato alcune riflessioni che considero interessanti e che riguardano la figura paterna prendendo spunto anche dagli studi di alcuni autori di psicanalisi. Tra questi in particolare non posso non ricordare l’amico Giancarlo Ricci, recentemente scomparso, che ha partecipato a molti di questi eventi dando sempre con la sua consueta umiltà, nelle vesti di un anonimo partecipante, il suo contributo profondo e prezioso. Da questo punto di vista il libro è anche un tentativo di approfondimento sul tema del padre che raggiunge la contemporaneità e il nostro contesto culturale attraverso lo specchio di una civiltà “altra” e lontana, oltre che di una fase storica che ci ha preceduti.

Il primo capitolo è dedicato agli anni del muto e il padre si caratterizza per la sua lotta quotidiana volta a garantire la sussistenza materiale della propria famiglia. È un padre limitato e difettoso ma anche sensibile e umano. Egli subisce le recriminazioni e a volte i rimproveri dei figli che non si rendono ancora conto di quanto il discorso sociale imponga le sue leggi aspre e dure a cui il genitore deve soggiacere, a volte patendo umiliazioni nella sua dignità pur di mantenere il suo posto di lavoro: Il coro di Tokyo (1931), Sono nato, ma… (1932). In alcune opere di questo periodo il padre è un perdente dal punto di vista sociale (disoccupato, attore ambulante fallito, perdigiorno alcolizzato…) ma conserva comunque un candore particolare che si rivela per lo più quando entrano in gioco i suoi sentimenti paterni.

Il padre del periodo bellico è una figura che spicca per la sua caratura morale da cui promana una certa gravità e austerità che però non annullano il suo lato umano e affettivo. Egli segnala i valori a cui riferirsi e che ritrova nella tradizione degli antichi. Il contesto culturale è segnato profondamente dal confucianesimo di cui uno dei principi cardine è la pietà filiale. Il padre va onorato e occorre riconoscere il debito che nascendo si contrae nei suoi confronti. D’altra parte il padre – ma anche la madre: Figlio unico (1936) – si sacrifica per il figlio, esercita un lavoro ingrato con poche soddisfazioni, costretto a vivere a una grande distanza da lui, per permettergli di studiare. Egli si rivela come un autentico eroe del quotidiano, assolvendo con dignità e umiltà il suo compito di ogni giorno solo per poter vedere un giorno il figlio felice di aver trovato a sua volta la sua strada. La gioia del padre si alimenta e si riflette in quella futura del figlio. Illuminanti a tale proposito sono le parole del protagonista di C’era un padre (1942), Horikawa,che prima di morire dice al figlio Ryohei: «Fai sempre del tuo meglio, come tuo padre, che ha fatto tutto quello che ha potuto… Sono felice! Ho tanto sonno…».

 Il padre del dopoguerra è invece una figura più complessa che si incarica di fare da ponte e da mediatore tra ciò che è del passato e merita di rimanere e ciò che sembra essere il futuro nel bene e nel male, come promessa o come incombenza. Il Giappone è un paese che esce sconfitto e umiliato dal conflitto bellico, occupato militarmente da una potenza straniera che impone anche i suoi modelli culturali. Modelli che progressivamente vengono adottati dalla popolazione e soprattutto dalle giovani generazioni. Di ciò risente e patisce in primis l’istituzione familiare tradizionale. La grande famiglia (ie) si sfalda e sul modello occidentale diventa famiglia nucleare. L’azienda e i rapporti con i colleghi prendono, in una certa misura, il posto della famiglia stessa, parassitandone l’offerta di un’appartenenza a un corpo sociale, istanza a cui l’uomo giapponese è molto sensibile. La conseguenza è che i padri rimangono la maggior parte del tempo lontani da casa e dai figli.

 Il padre dei primi film di Ozu del dopoguerra è una presenza equilibrata e rassicurante, è sempre un uomo dedito al suo lavoro e custode dei valori della tradizione che però non può esimersi dal confrontarsi con un cambiamento che si fa ineluttabile. Cambiamento dovuto ai tempi, certo, ma anche al trascorrere della vita stessa, delle scelte che devono essere fatte, che i figli devono fare per trovare il loro posto nel mondo. Si tratta – prima ancora di un cambiamento culturale e sociale che tuttavia fa da sfondo, e che in certi film pare prevalere – di un cambiamento insito nelle leggi universali che reggono la natura, la vita degli esseri viventi. I figli (e le figlie) un giorno quando saranno cresciuti prenderanno la loro strada, si sposeranno, si allontaneranno dal nido familiare, è inevitabile… Una sensazione di perdita e di solitudine si fa presente. Non è così solo per l’allontanamento dei figli ma anche per quel processo inesorabile che accompagna l’esistenza di ogni realtà creata che ha necessariamente un inizio, un fiorire, una maturazione e una fine.

 Il sentimento estetico e spirituale che l’uomo giapponese prova dinanzi alla provvisorietà (mu-jo) anche delle cose più belle e sublimi, e che unisce l’accettazione serena e una dolce tristezza, è quell’atteggiamento contemplativo che la tradizione zen chiama mono no aware. I padri di Tarda primavera (1949), di Inizio d’estate (1951) ma anche di Viaggio a Tokyo (1953) vivono ed esprimono questa profonda spiritualità che riflette senz’altro quella del regista che in loro trova degli alter-ego in cui rispecchiarsi. Ma negli ultimi film e in particolare nell’ultimo, Il gusto del sakè (1962) pare di cogliere qualcosa di più di un raffinato atteggiamento estetico: un aspetto tragico in cui si accampa il dolore del padre, una faglia di dolore che non può e non vuole placarsi. Dentro una realtà sociale in radicale cambiamento, in cui la preziosa eredità degli affetti familiari viene minata fin nelle sue fondamenta, vi è una dimensione che si radica su di un piano più metafisico e universale e che riguarda le leggi eterne della vita e della morte, pare dirci Yasujiro Ozu.

Non sono solo le potenti trasformazioni della società giapponese a porre il padre dentro un’esperienza continua di perdita e di lutto, è qualcosa di più profondo. Non è nemmeno il venir meno dei legami più intimi, dell’allontanarsi delle persone a cui si è più affezionati, come era avvenuto per l’anziano padre Somiya dopo il matrimonio tardivo della figlia Noriko in Tarda primavera. Qui si coglie qualcosa che riguarda il senso della trascendenza. Il padre ne è il silenzioso testimone, e non può non esserlo, dato che è proprio questo il suo compito. Dal suo silenzio, il padre si fa indicatore di un Oltre. Un compito altamente nobile e spirituale che lo pone sulla breccia. Un mondo sta morendo, forse un altro sta per nascere e lui è solo, sulla breccia. Non è un eroe, neppure un eroe del quotidiano come Horikawa, non lo è più. Se il suo avanzare tra i corridoi è fiaccato e reso instabile dal troppo sakè, il suo sguardo è lucido: egli guarda in faccia la fine e il dopo, la morte e l’Altrove, è una sentinella che non si stanca di fissare l’orizzonte e di scrutare il sentiero dove sono impresse le tracce dell’Assente.

Milano, 11 giugno 2020


[1] Il libro è disponibile nei principali store in formato PDF, epub e mobi-Kindle, e in edizione cartacea richiedendolo all’editore.

Un libro casto

Definire Il gioco (Mondadori, 2018, pp. 526, euro 20) di Carlo D’Amicis “un libro casto” può sembrare provocatorio, perché il romanzo, vuoi per l’argomento vuoi per il linguaggio, parrebbe situarsi ai limiti del pornografico. L’autore, soprattutto all’inizio, usa una terminologia cruda e brutale per descrivere un contesto fatto essenzialmente di pratiche sessuali borderline. Questa però è soltanto la cornice. In realtà, mentre apre il racconto introducendo il lettore in uno scenario pervaso di visioni torbide e costruito su situazioni “indecenti”, mentre ci parla di sesso, di ossessioni e perversioni, D’Amicis compie il miracolo di creare davanti a noi un mondo parallelo di assoluta purezza, che è quello delle vite vissute dai tre protagonisti, ciascuno con la sua storia unica e irripetibile, ciascuno con la sua dote di fantasmi, paure e desideri. Tutto questo teatro, in fondo, questo apparato liturgico di prestazioni sessuali fuori dalla norma è uno stratagemma per rendere più luminosa la vera scena che si svolge davanti a noi, fatta di personaggi in carne e ossa, con nomi, colori e intrecci, un passato, un presente, e corpi che non rispondono ai canoni immaginari del godimento. E a mano a mano che il racconto prende il volo, staccandosi dal terreno aspro e accidentato del tema di fondo con cui comincia il libro – due uomini e una donna legati da un “gioco” scabroso che si svolge in un club privé dell’Italia centrale tra l’inizio del nuovo millennio e i giorni nostri –, ti addentri nella storia delle vite vissute, che è bellissima e avvincente, e non ti lascia fino all’ultima pagina, quando scopri con tristezza che dovrai separarti dai tre eroi seguiti per oltre 500 pagine.

Carlo D’Amicis – Il gioco

Il gioco si compone di tre lunghe interviste ai tre protagonisti: un bull (Leonardo), una sweet (Eva) e un cuckhold (Giorgio). Come viene chiarito nelle primissime pagine, “il bull è un maschio dominante che sottomette cornuti consenzienti (i cuckhold) scopandosi le loro femmine (sweet)”.

Il primo a raccontarsi è Leonardo, alias Mister Wolf. Il suo esordio è gelido e asettico, disturbante, immette subito il lettore in un contesto narrativo crudo, da teatro anatomico, privo di riferimenti personali. Illustra con dovizia di particolari gli obblighi per chi stipula il particolarissimo contratto, nel quale “è lo stesso confine tra la regola e la sua trasgressione a risultare indistinguibile”. Già dopo poche pagine, però, ci introduce nel racconto vero, quello della sua vita prima del “gioco”. La morte del padre, rigido e taciturno ufficiale dei carabinieri con una passione segreta per Heather Parisi e Giorgio Almirante, vittima di un attentato quando Leonardo era molto giovane; poi le scuole in collegio, dove conosce Pretegrosso, sacerdote addetto alla biblioteca che gli trasmette la passione per i libri, insieme ad altre meno lecite. Per un breve periodo insegna inglese in una scuola media (da cui viene licenziato perché sorpreso a palpeggiare la figlia della sua amante durante la recita di fine anno), e quindi conosce Giacomo, folle e sensibile poeta con il quale inaugura la sua esperienza a “Le Ore”, rivista pornografica degli anni Settanta, su cui comincia a pubblicare dotti racconti erotici. Dopo varie vicende divertenti e tragiche, incontra Giorgio, primario al reparto di oncologia dell’ospedale di Grosseto nonché cuckhold, ed Eva, sua moglie, sweet, con i quali che si lancerà nell’avventura dell’Infinito, club privé destinato a durare, fra alterne vicende, quasi vent’anni.

E qui si innesta il racconto di Eva, protagonista della seconda intervista. Sua madre, incinta di lei, viene spedita a Livorno dalla Sicilia per sfuggire a una vendetta di mafiosi, e qui, cambiata identità, inizia una nuova vita con le suore dell’ospedale dove ha trovato rifugio e un lavoro dopo la nascita della bambina. La piccola cresce insieme alla madre e a Macigno, ex ricoverato dell’ospedale, uno dei molti personaggi straordinari di questo libro. Diventa una ragazzina bellissima, consapevole della propria carica seduttiva, che usa in modo cinico e strumentale, ma anche con generosità e altruismo; comincia a lavorare come cubista in una discoteca della Versilia e qui conosce Giorgio, che poi diventerà suo marito. Anche il terzo protagonista, forse all’inizio il più respingente, quello in cui è più difficile identificarsi (è lui che, in quanto cuckhold, spinge Eva tra le braccia di Leonardo) ci racconta la sua storia, stavolta, curiosamente, partendo dal momento in cui viene informato che Eva e Leonardo si sono “fidanzati”, lo stesso momento in cui egli scopre che quest’ultimo, ovvero il bull, è diventato quasi impotente. La scena, che si svolge nella camera da letto con i tre protagonisti, ha qualcosa di surreale. (Detto di passaggio, i tre protagonisti mostrano tra loro per tutto il libro una delicatezza di sentimenti, uno stile aristocratico, un rispetto d’altri tempi che spiazza e cattura). Alla fine dell’intervista, Giorgio confiderà all’intervistatore che lui, invece, impotente non lo è più, in un ribaltamento dei ruoli che rende ancora più inconsistente, quasi carta velina, l’intero apparato scenico su cui si è retto finora il libro. Del rapporto con Eva riusciamo a capire qualcosa solo quando rievoca la sua infanzia e la sua giovinezza con la madre, soprano affetta da disturbo bipolare, e il padre, primario ginecologo di chiara fama, che esercita sul figlio un potere quasi assoluto e delinea in modo incancellabile l’orizzonte del suo desiderio.

Ma allora, dopo tutto quello che è stato detto, perché definire Il gioco un libro casto? Perché non rassegnarsi al fatto che, fatte le debite precisazioni e i distinguo del caso, è un libro che parla essenzialmente di sesso?  Perché, oltre che svilupparsi su quello che potremmo definire un doppio piano narrativo, quello di cui parlavo all’inizio, il libro si fonda sulla coesistenza, portata all’estremo, di un piano puramente di linguaggio accanto a quello che dovrebbe essere di significato concreto, reale, ed è proprio questa contaminazione, che dà continuamente origine a effetti umoristici, a costituire la cifra stilistica del libro. Ogni volta che D’Amicis racconta cose “pesanti”, tipo gang bang (le vecchie ammucchiate) o altre pratiche analoghe, o si lascia andare alla descrizione di un particolare anatomico, inciampa in dettagli grotteschi, o ridicoli, o inverosimili, che strappano al lettore una risata e lo spostano dal registro su cui si trovava – nel quale il desiderio segue un canone e recita un copione – a un altro completamente diverso, mettendolo davanti alla irrealtà del primo. E a quel punto il mondo immaginario del sesso su cui era costruita l’intera scena va in frantumi, con un effetto comico irresistibile. In quel momento ti rendi conto che tutto il mondo del porno vero può essere costruito solo sul registro del serio, del cupo, del melodrammatico, o addirittura del drammatico, e non tollera la “cosa buffa”, perché si sgonfia immediatamente. Il decalogo del sesso – indispensabile alla sua esistenza – si regge solo a patto che non ci sia deviazione dalla scena “come dev’essere”, niente fuori programma. Più vicino a Palahniuk o a Mel Brooks che a Sade, D’Amicis, insomma. E infatti, in questo libro non c’è nulla di morboso, perché lo sguardo dell’autore, anche quando si insinua tra le pieghe del sesso più scontato, incontra sempre l’imprevedibile con cui inizia il gioco vero, che è un gioco di parole. In questo senso quello di D’Amicis è davvero un libro casto. La coesistenza ininterrotta di registro alto e basso – il rimando letterario, l’allusione colta – impedisce all’atto sessuale di consumarsi, il godimento è qualcosa di cui si può elucubrare ma che non avviene realmente, e rivela la sua natura in fondo squisitamente intellettuale.

Artaud, il teatro e il suo oppio

«L’attore è un atleta del cuore»: non è lo slogan di qualche iniziativa benefica in favore delle cardiopatie rare, ma un’affermazione di Antonin Artaud, il teorico di quel “teatro della crudeltà” che aspirava a propagarsi come una peste per ridestare la scena dal rigor mortis estetizzante degli allestimenti ben fatti, liberando lo spettacolo dalla soggezione al testo. Chissà quante volte avrei voluto averlo accanto a me, Artaud, col suo ciuffo ribelle spiovente sulla fronte, gli occhi allucinati dal peyote e dai troppi elettroshock, durante qualche spettacolo del Living Theatre o dell’Odin di Eugenio Barba, oppure in certe edizioni del Festival di Santarcangelo farcite di attori Kathakali e danzatori balinesi.

«Sei soddisfatto?» avrei voluto chiedergli, strizzati fra il pubblico in trance ipnotica, celebrando il rito primigenio del teatro mescolato all’odore di piadina e salsicce sfrigolanti.

Chissà cosa risponderebbe oggi Artaud, nato a Marsiglia il 4 settembre 1896 e morto settant’anni fa, il 4 marzo 1948, per una dose letale di cloralio. La sua rivoluzione teatrale è riuscita al punto di rovesciarsi quasi nel suo contrario: un nuovo manierismo. E forse Artaud dovrebbe rimettersi in cammino verso il paese degli indios Tarahumara, come fece nel ’36 durante quel soggiorno in Messico che segnò il suo simbolico distacco dagli “antichi parapetti d’Europa”. S’allontanava da un mondo «in cui, a parte il fatto di avere un corpo, (…), tutto è falso». E in questa falsità rientrava, in primo luogo, la vil razza dannata dei letterati che «hanno punti di riferimento nello spirito, in posti ben localizzati del cervello, che sono padroni della loro lingua».

Non la padronanza, ma lo spossessamento, la liberazione dalle trappole della psicologia e della razionalità attraverso l’energia del corpo Artaud andò cercando nel corso d’una vita matta e disperatissima : «Ogni emozione ha basi organiche. Coltivando l’emozione nel suo corpo, l’attore ne ricarica la densità voltaica»

Antonin Artaud
Antonin Artaud

Figlio d’un capitano di lungo corso e d’una madre d’origine turca, a quattro anni s’ammalò d’una grave forma di meningite, alla base dei suoi successivi problemi neurologici. Dopo un breve arruolamento nell’esercito, dal quale si fece subito scartare per sonnambulismo, finì in sanatorio dove le cure a base di laudano lo resero schiavo degli oppiacei. Nel 1920 Artaud si trasferisce a Parigi e si lega ai surrealisti. L’incontro con l’impresario-regista Lugné-Poe gli apre la via del teatro come attore e scenografo. In seguito collabora con Charles Dullin, poi con Georges e Ludmilla Pitoëff. Lavora anche nel cinema, con Dreyer e soprattutto con Abel Gance. Alla fine del ’26, quando i surrealisti aderiscono al partito comunista francese, Artaud si dissocia e fonda con Roger Vitrac il Théâtre Alfred Jarry. Ma l’incontro fondamentale avviene nel’31 con il teatro balinese: danza, canto, pantomima «e pochissimo di teatro psicologico quale lo intendiamo noi in Occidente» scriverà ne Il teatro e il suo doppio. È il modello di spettacolo puro, che «vale ed esiste esclusivamente nella misura in cui si oggettiva sulla scena». Nascono i due manifesti sul Teatro della crudeltà (1932 e ’33): niente a che fare col sadismo, si tratta di spezzare una volta per tutte la soggezione del teatro al testo, ritrovando un linguaggio a metà strada fra gesto e pensiero. Ma nel’35 il suo allestimento de I Cenci si risolve in un fiasco. Da qui s’apre una lunga stagione all’inferno. Artaud viene internato in manicomio: cinquantuno coma da elettroshock in nove anni sono il tragico bilancio di questo “teatro della crudeltà” psichiatrico, contro il quale nel ’47 esprimerà la sua estrema ribellione nel saggio Van Gogh il suicidato della società. Il 4 marzo del’48 lo trovano morto nella sua stanza con una scarpa in mano, assorto per sempre in una definitiva trance magica.

Roberto Barbolini

Dal sintomo del bambino al bambino come sintomo

(Nota a Il bambino, padre dell’uomo, di P. L. Assoun)

In Il bambino, padre dell’uomo, al capitolo intitolato Al di là della “psicologia del bambino”, Paul Laurent Assoun osserva che il termine Kinderpsychologie ha “un senso peggiorativo sotto la penna di Freud”, e in nota precisa che “il punto di vista kinderpsychologisch sovrastima la portata dell’accesso terapeutico alla verità del bambino”. In effetti, l’accesso alla verità del bambino, Freud non lo realizza attraverso l’analisi dei bambini (che non ha mai praticato e che è impraticabile: il “caso clinico del piccolo Hans” è estraneo all’autore di Analyse der Phobie eines fiinfjahrigen Knaben) ma attraverso l’analisi degli adulti nevrotici, giungendo alla conclusione – come precisa Assoun – che oggetto della psicanalisi non sono le vicissitudini (o, come si ama dire oggi, i “vissuti”) di questo o quel bambino, ma il Bambino, das Kind (o l’Infantile, da non confondere con l’infantilismo), in quanto non è altro che l’inconscio dell’adulto. Così, “un fenomeno psichico che finora si è sottratto a ogni spiegazione”: diese Kindheitamnesie der Menschheit, l’amnesia che colpisce e fa sprofondare nell’oblio tutta la prima infanzia, la quale diviene per “ciascun individuo per cosi dire una specie di epoca preistorica” (Freud), viene a coincidere con la “rimozione primaria”, costitutiva dell’inconscio; al tempo stesso, tutto ciò che riguarda la nostalgia per l’infanzia come Paradiso perduto non è altro che “ricordo di copertura” con cui l’adulto si compiace di ingannarsi sulla propria origine. Ciò che viene coperto non è questo o quel particolare “vissuto” rimosso, ma il dramma, o se si preferisce la “struttura universale”, attraverso cui ciascun soggetto deve passare per poter essere un uomo o una donna, e per poter essere mortale: il complesso di Edipo e le teorie sessuali infantili che lo introducono. L’analisi della fobia del piccolo Hans ci rivela che la fobia non era altro, per lui, che la soluzione o la risposta insufficiente e inadeguata ai fondamentali enigmi della vita su cui il bambino – ogni bambino − è impegnato a indagare, spinto dalla “pulsione di sapere o di ricerca” (Wiß- oder Forschertrieb): la differenza dei sessi; la nascita e il ruolo per lui ancora impensabile che vi gioca il padre (“da dove vengono i bambini?”); il “rapporto sessuale” tra un uomo e una donna.

A questi enigmi il bambino risponde formulando tre teorie: 1. Tutti gli esseri animati, indistintamente, sia maschi che femmine, sono dotati di un fallo (teoria “panfallica”) 2. I bambini nascono dall’ano (teoria “cloacale”) 3. Il coito tra i genitori è una lotta violenta dove ci si ferisce (teoria “sadistica”).

Quel che innanzitutto importa sottolineare è che non si tratta di fantasie, ma di autentiche teorie elaborate dal bambino, considerato da Freud alla stregua di un pensatore, sulla base dei dati fornitigli dalla propria esperienza (necessariamente incompleta); teorie che egli formula nel rifiuto di quelle propostegli dagli adulti, che si tratti di quella classica della cicogna (bersaglio di un umorismo esilarante da parte del piccolo Hans), o di quella scientifica sul reale della sessualità.

In proposito, una considerazione tratta dalla clinica s’impone : mentre nelle analisi dei nevrotici, pronti a conformarsi alla vulgata scientifica, si ritrovano sempre, immutate nell’inconscio, le teorie sessuali infantili; negli psicotici ritroviamo solo le teorie scientifiche (insieme a dei deliri cosmologici), mentre le teorie infantili mancano, come se non fossero mai state elaborate. Questa considerazione è solo un’indicazione, anche se potrebbe fornire, se avvalorata dall’esperienza, un criterio per la diagnosi differenziale. Ma soprattutto essa mostra che la grottesca “’istruzione sessuale” propinata ai bambini nella scuola (che per un momento aveva tentato anche un Freud vittima delle belle speranze dell’Aufklärung), con tutta l’autorità scientifica e istituzionale che la sostiene non riesce nemmeno a scalfire le teorie sessuali infantili, che, se ci fanno permanere sessualmente “immaturi”, in qualche modo ci proteggono dal delirio di attribuire la paternità allo spermatozoo − come se l’accertamento della paternità potesse essere di potestà della scienza (quando accade, si produce un serial horror come quello che ha “interessato” il cadavere di Yves Montand).

Il grottesco è parte costitutiva della Kinderpsychologie, cosa che Assoun non manca di mettere bene in rilievo: “Tutto un movimento dell’immaginario sociale gioca con la psicologia del bambino, accordando con ghiottoneria una psicologia al bambino, concepito come una ‘piccola persona’. Il che permette, del resto, di proiettare senza vergogna l’immaginario adulto – il più infantilizzante – sulla piccola persona, come dimostra la povertà della maggior parte degli scenari nei quali è presumibilmente data la parola al bambino. Questa potrebbe essere l’ultima resistenza alla teoria dell’infantile. Essa [silicet : la resistenza] non si è indebolita, ma addirittura esce rinforzata, senza dubbio, attraverso gli alibi di questa specie di ‘personalizzazione feticizzante’ del bambino”.

Paul Laurent Assoun
Paul Laurent Assoun

Spingendosi più lontano, in quelle che sono le pagine più “politiche” del suo testo, Assoun invoca la “rottura con ogni ‘psicologia del bambino”: “Per dire la cosa in modo radicale, supporre una psicologia nel bambino significa mirare al di fuori dell’obiettivo che Freud vuole appunto cogliere: è del Bambino che si tratta. Ciò che gli interessa non è tanto l’inconscio dei bambini – ci si arena abbastanza pietosamente nell’evocarlo, non appena uno vi si immischi – quanto l’infantile, che pone ogni soggetto inconscio sotto l’egida del Bambino”.

Allora, la domanda posta agli psicologi dell’infanzia, ma che vale per tutti dato che tutti gli adulti lo sono chi più chi meno, è : come può esistere una “psicologia del bambino” distinta e separata da quella dell’adulto, quasi che il bambino appartenesse a una specie aliena dal genus umano? In effetti, una volta che il bambino è stato isolato in un suo “mondo” e gli è stata imputata una speciale psicologia, sorge logicamente il problema di “come comunicare” con lui e di “come interpretare” le sue parole e i suoi comportamenti. “Capire il bambino” diventa una esigenza meno “psicologica” o pedagogica che culturale, perché concerne il problema di integrare l’alieno nella civiltà, di educarlo ai nostri usi e costumi, di dargli una Legge morale che freni e regolamenti i suoi “istinti”. La psicologia dell’infanzia viene così ricondotta all’antropologia, supportata, per i casi ineducabili, perfino dall’etologia, come avviene per il bambino cosiddetto “autistico”, a cui sono stati dedicati importanti studi in materia. Il “mondo del bambino” – non meno del “mondo dell’autismo” – è un delirio. Assoun conclude: “A rischio di accrescere lo stock disponibile di formule gnomiche provocatorie, si potrebbe avanzare quella che il bambino non esiste.” La raccolgo e la rilancio in questi termini: al di là del prestare ascolto al sintomo del bambino, in quanto, come osserva Lacan nelle sue Note sul bambino, “è nel posto cruciale per rispondere a ciò che vi è di sintomatico nella struttura familiare”, non potremmo considerare il bambino come il sintomo dell’adulto ? – sintomo di cui la psicologia dell’infanzia (e dell’età evolutiva) verrebbe a occupare il posto “per introdurre i bambini umiliati nella menzogna – con dolcezza, a poco a poco, impercettibilmente” , scrive Kafka. (Indagini di un cane [1922], passo soppresso). E conclude: “E andò sempre peggio quando fui adulto, ma non disposto a cedere”.

Recensione a “Per te soltanto, bambino” di Filippo Parodi

Si legge tutto d’un fiato questo dialogo con se stesso bambino, questo spezzarsi in due e ricostruirsi anche tramite l’agire psicanalitico della Maga, questo omaggio a non voler morire del bambino, questo osteggiare il funerale del ‘noi bambino’ decretato un giorno imprecisato dal ‘noi adulto’, che non è mai cresciuto abbastanza da poterlo dimenticare.

Ed eccolo riemergere, il bambino, contrastato e controllato dall’adulto (quando Volevi dare un pugno contro quel fottuto treno), stizzito di aver perso il treno della vita, di essersi lasciato imbrigliare dagli infidi consigli del linguaggio scritto e parlato. In quello scritto ci può essere un incontro (È nella scrittura che dico d’incontrarti), ma i bimbi, quelli molto piccoli, non sanno di scrittura, non sanno neanche parlare bene, sanno appena cos’è l’angoscia e il sollievo. Credono però nei sogni e negli angeli, proprio in quelli in cui non credono più i grandi, e ci restano male se l’angelo non si presenta, in un giorno come un altro (Quel mattino) in cui troneggia l’umiliazione. Perché lui, il bambino, continua a crederci, e quando non ci crederà più, sarà ormai grande. In Non m’interromperai nel momento in cui la voce, l’adulto invece chiede un po’ di rispetto verso la parola parlata, un po’ d’attenzione, una crescita quasi anticipata nel bisogno di ascolto, un vero e proprio trionfo di se stesso. Forse è solo un momento, il bambino per definizione non ascolta, si rimette a rincorrere i suoi sogni. Lo intuisce l’adulto, come si deduce dalla poesia È la fantasia che a quel tempo ti ha graziato, quella fantasia che imbarazza gli uomini cosiddetti cresciuti, che buffamente non solo faticano a liberarla, ma anche fanno di tutto per nasconderla e sotterrarla. Forse in questo il bambino ci giudica e stenta a perdonarci, e siamo noi adulti che invece dovremmo invocare il suo perdono per la fantasia che abbiamo tradito, per la libera espressione che abbiamo sotterrato. E se la liberiamo questa fantasia, come in Ti porto per i boschi a passeggiare la domenica, ci ricongiungiamo col bambino che ci alberga in petto, che è lì in attesa di volare; lo sentiamo così forte dentro di noi che gli diamo del tu: “Puntuale, mentre fluttuo, ti aggrappi alle clavicole”.

Quanta fatica in questo ricongiungersi, dopo aver ricostruito un percorso interiore spezzato! Anche dalla lingua, usata da Filippo Parodi, si percepisce qualcosa di aspro, di spezzato, come se le immagini poetiche che si susseguono nei versi si ribellassero a questo gioco al massacro del bambino che felicemente continua ad albergare dentro di noi. Perché è dai cerchi concentrici attorno al bambino che è cresciuto l’albero adulto e “ogni cerchio, adesso, partecipa dell’altro”.

Un vero piacere leggere questo libro che, attraverso il contrasto bambino-adulto, ci concilia con noi stessi.

Salvatore Pisani, settembre 2018

Filippo Parodi - Per te soltanto, bambino
Filippo Parodi – Per te soltanto, bambino