Originariamente questa Introduzione è apparsa in Ettore Perrella, Dialogo sui tre principi della scienza. Perché una fondazione etica è necessaria all’epistemologia, Ipoc, collana Con-scientia Milano 2014, pp. 632. Il Dialogo, suddiviso in tre volumi, è in corso di ristampa nei formati PDF, epub, mobi-Kindle presso Polimnia Digital Editions, Sacile (PN).
Recentemente è stato pubblicato il volume I. La parola e l’atto. La pubblicazione del II e III volume (II. La scienza, fra l’etica e l’ontologia; III. La scienza come pratica formativa) è prevista entro la fine di novembre 2021.
L’opera che il lettore tiene fra le mani – monumentale nel suo genere, quello del dialogo filosofico – ha per tema lo statuto epistemologico delle scienze. Essa è destinata a suscitare reazioni diverse, anche opposte fra loro. Non solo per le conclusioni alle quali perviene – che aprono una breccia definitiva, non più ammendabile, nella cortina eretta da quella forma di sapere esclusivo che ha inteso distinguersi come “esatto” –, ma anche per i riferimenti culturali di cui si serve. Il lettore avrà modo di conoscere nel dettaglio le une e gli altri: qui è sufficiente menzionare, circa le conclusioni, il superamento di una visione ingombrante e limitante dell’esperienza conoscitiva umana, culminante nella convinzione, mai sufficientemente solida (e perfino contraddittoria con se stessa), che la natura (degli oggetti di studio) si informi esclusivamente a leggi matematiche, le quali, desunte da lì, possano a loro volta costituire la struttura portante di qualunque ulteriore “sapere” certo ed esatto, “scientifico”; e, circa i riferimenti culturali, il recupero del platonismo, di aspetti più e meno noti della riflessione teologica medievale, di dimostrazioni non necessariamente non contraddittorie provenienti dai campi più diversi del sapere e delle pratiche umane.
Lasciamo che di tutto questo si occupi il tempo della recezione.
Quello che a me preme, invece, primo lettore fra i lettori, è presentare – quasi mettendoli in fila, nella maniera più chiara e semplice, e per questo anche volutamente ingenua – quegli elementi di novità, tematici e metodologici, che fanno di quest’opera un sasso scaraventato con determinazione e convinzione in acque già di per sé increspate, piuttosto che il minuscolo ciottolo incautamente caduto a generare mirabili cerchi concentrici sulla superficie placida e tersa dell’acqua di uno stagno.
E partirei senz’altro dall’aspetto apparentemente più innocuo della tecnica di “scaraventare sassi”, vale a dire dalla scelta della forma dialogica. Al di là dell’esplicito rimando a Platone, che nel testo trova ripetuti motivi di vicinanza ideale, il ricorso al dialogo (tra formae mentis diverse: che vuol dire, dato di grande rilevanza in questo contesto, non solo “saperi specialistici” diversi, ma diverse culture e modalità del sapere) esprime essenzialmente la necessità di ribadire un insuperabile punto di partenza, e cioè che, dopo circa seicento anni di cammino in direzione di un’idea di scienza avente soprattutto il carattere dell’oggettività, per confrontarsi sulla scienza non si può ricorrere al linguaggio delle formule matematiche, al codice simbolico delle cifre arabe e dei varî segni ad esso connesso, ma si deve continuare a farlo servendosi di quella “metascienza”, terreno comune e di frontiera, che è la filosofia (“se una cosa è chiara, in matematica, è che la verità se ne frega totalmente di noi, anche se noi non possiamo mai fregarcene di lei… E proprio questo dà alla scienza tutta la sua importanza”). E se in una nota introduttiva l’Autore dà ragione del ricorso al dialogo come opportunità per esprimere contemporaneamente diverse prospettive e per segnare un distacco da se stesso, è pur vero che le figure specializzate (lo psicanalista, il matematico, la neuropsicologa e il teologo) da lui messe in campo, nell’economia della conversazione hanno ragione delle proprie argomentazioni (e dunque dei rispettivi campi di interesse e conoscenza: di “scienza”, dovremmo specificare) solo nella misura in cui sono capaci di innestarle all’interno di un tronco più generale del discorso, che è quello continuamente condotto dai tre filosofi (il filosofo, la sua allieva e il traduttore di Palamas).
E poi vi è comunque un’altra considerazione, allusa dall’Autore nella stessa nota: quella che riguarda la difficoltà a trovare interlocutori reali allorquando gli argomenti su cui confrontarsi sono particolarmente scottanti. Ripiegare e dialogare con se stessi, pur nella prospettiva triste che adombra, dispiega tuttavia la miracolosa, rischiosa possibilità di spingere fino all’estremo le proprie argomentazioni, non lasciando nulla d’intentato e nel contempo facendo della mancata opportunità del dialogo la via per sperimentare la proficua solitudine dell’uomo di genio.
E dunque, scaraventare un sasso nelle acque mosse di un dibattito tutt’altro che sopito, ricorrendo al dialogo “filosofico” come strumento di posizione, analisi, dipanamento e (forse) risoluzione di un problema, rappresenta già un’opzione di merito circa il rapporto tra le cosiddette “scienze” (quelle che, soprattutto avocano a sé il carattere dell’esattezza) e la filosofia: e significa ribadire il primato di quella branca filosofica che è l’epistemologia, teoria delle scienze, scienza delle scienze o, molto più semplicemente, spazio linguistico e concettuale all’interno del quale si può restare a un livello generale tale da consentire il confronto (il dialogo, per l’appunto) fra saperi diversi. E in questa prospettiva appare chiaro che un sapere non condiviso corre il serio rischio di configurarsi come un non-sapere.
Considerata a partire da qui, la novità più immediata e senza dubbio più significativa dell’opera – il ruolo strutturale che ha l’“atto” nel processo conoscitivo – apre scenarî tutt’altro che scontati e tranquilli.
V’è anzitutto una dimensione gnoseologica più sensata e fondata nel solco della fenomenologia: il mondo delle cose, gli enti nel loro statuto originario, da una parte e la facoltà/predisposizione a incontrare/inglobare quelle cose, la funzione dei concetti, dall’altra, trovano un effettivo punto d’incontro (la famosa e controversa “corrispondenza” rei et intellectus) in un elemento pratico, non necessariamente riconducibile alla sfera della volontà, che è l’“atto”. La predisposizione strutturale all’afferramento concettuale, intuita da Kant e poi confermata da tutta quella serie di riscontri scientifici che mette capo alla Teoria evoluzionaria della conoscenza, si compie – correttamente bisognerebbe dire “si attua”, e dunque si riempie di senso – solo nella misura in cui enti e concetti, oggetti e parole entrano “attivamente” all’interno di un discorso, di un’affermazione. Ma “chi” rende attivo questo processo, chi attua questa pratica, è pur sempre un individuo umano.
E mentre fino a qui, sul piano gnoseologico, si potrebbe profilare solo una forma di rinnovato “idealismo”, da un punto di vista epistemologico la dimensione pratica dell’atto conoscitivo implica automaticamente una considerazione diversa dei “modi” di sapere, non più ovvi e assodati, non più neutrali.
Indubbiamente, che esista una dimensione etica già nella natura potrebbe fare accapponare la pelle a qualche freddo razionalista o occluso scientista: non certo a chi, per esempio, partendo dalle “scienze”, ha pensato di dare all’etologia il nome che ha. In questo passaggio decisivo dell’opera v’è dunque un certo che di liberatorio: l’intervento dell’etica (intesa nel suo senso più autentico e originario di “ambito del comportamento”, vale a dire né come morale né, men che meno, come moralismo), infatti, mentre conferisce a qualsiasi forma di sapere un suo significato pratico (palese, dichiarato o meno, velato o nascosto che sia) – approdo, questo, per nulla ovvio: non esistono scienze, per quanto “astratte” o “formali” che non abbiano una ricaduta nell’“agire” –, eleva la dignità del sapere stesso, qualunque forma di sapere, al giudizio della sua ricaduta pratica (“costruire un’epistemologia trascendentale non significa dare per scontato che delle scienze esistano. Significa invece chiedersi a che cosa ci serve occuparcene”). Svaniscono in tal modo, una volta per tutte, le accomodanti scappatoie della neutralità, grazie alle quali, in nome della scienza e del progresso scientifico, si perpetrano (prima), si tollerano (al momento) e si giustificano (poi) i più efferati crimini nei confronti dell’ambiente, delle collettività, degli individui. Si libera il campo dall’idea che un errore possa essere compreso e legittimato quando a compierlo è un calcolo o una macchina calcolatrice, condannato ed esecrato quando a compierlo è “semplicemente” una coscienza individuale. Si allargano infine gli orizzonti di comprensione (e poi, progressivamente di riflessione e di pensiero) circa le modalità e gli ambiti del sapere; cadono le barriere che separano “scienze” esatte da “scienze” umane; si gettano nuove e, necessariamente diversificate, condizioni per stabilire quello che con “scienza” debba intendersi.
L’orizzonte etico – che allarga notevolmente, nella sua prospettiva fenomenologica, quello tradizionale logico/ontologico – se mette in campo, effettivamente, la sfera dell’azione, coi limiti che su questa possono gravare, dall’altra fornisce senza dubbio un’idea più concreta (cioè non meramente ideale e teorica) di quello che può essere la libertà (“agire ci vincola totalmente, ma questo vincolo non è altro che la libertà”). Grazie alla sua rinnovata considerazione, fondata sull’etica, l’epistemologia deborda dunque dai confini della mera ricognizione teorica delle condizioni di possibilità delle “scienze” e approda a una dimensione trascendentale che implica sempre, giocoforza, volente o nolente, la coscienza dello “scienziato”.
Giungiamo così a un’ennesima, significativa novità del presente Dialogo. Ha a che fare con l’idea – individuale, ma anche sociale – di “coscienza”. L’Autore – psicanalista e filosofo, e per di più fine pittore – sa bene quanto inverosimile e astruso, oltre che fuorviante e inutile, sia ammettere la distinzione tra un sapere tecnico e strumentale, freddo e distaccato, perché formale e poco opinabile, da una parte, e un sapere pratico e funzionale, coinvolgente e partecipato, ma per ciò stesso discutibile e soggettivo, dall’altra. Non si può credere di vivere sotto una campana di vetro e illudersi che da una parte si trovi quanto possa essere stimato e “agito” matematicamente, dunque con calcolo e precisione, e che dall’altra si abbia a che fare con fatti di volta in volta mutevoli, trattati e considerati in maniera personale e dunque soggettiva. Nella quotidianità, tanto che ci si occupi di fisica e di ingegneria informatica, tanto che si provi a comprendere e risolvere patologie dell’apparato respiratorio o fatti storici antichi e recenti, lo studioso, lo scienziato non può (e non deve illudersi neppure di) sottrarsi alla relazione col fatto in questione (fisico, informatico, sanitario o storico) lasciando fuori se stesso, la propria individualità, la propria forma mentis, il proprio modus vivendi, la propria storia, le proprie attese, insomma: specificamente e assolutamente (nel senso letterale di absolutus, svincolato, sciolto, affrancato da tutto il resto) se stesso. La coscienza non è la risonanza dell’eco che ha per onde sonore le regole (antropologiche o giuridiche) e per scienza la morale; la coscienza è il suono dei propri “atti”, il cui ambito scientifico è l’etica.
Ma così come gli infiniti “atti” riflessi, dell’“agire” fanno parte anche “atti” deliberati. La coscienza si evolve nel corso della nostra esistenza individuale, e non a caso. La psicanalisi, per esempio, ci rende progressivamente consapevoli, e dunque capaci di farvi fronte, di quella parte nascosta di noi, che noi stessi siamo. Di ogni forma di apprendimento, da un certo momento in poi della nostra vita, noi diveniamo consapevoli e poi coscienti (all’interno del Dialogo queste differenze sono esposte in maniera chiarissima). L’evoluzione della nostra coscienza può anche restare (per scelta o per caso) un fatto fortuito; oppure si può indirizzarla in questa o quella direzione. Questa seconda ipotesi – la più praticata, nei fatti – non può restare relegata a un fatto di routine, come sempre più avviene, ma deve assurgere a corollario “pratico” fondamentale della nuova visione triadica della scienza che qui si presenta. Indirizzare l’evolversi della coscienza è, in una parola, fare esperienza di “formazione”.
Nella visione compiuta delle cose che tratta, l’Autore chiude qui un cerchio perfetto: crescere apprendendo coincide di fatto col graduale prendere coscienza di se stessi e del circostante; e solo in una visione aperta, sgombera da pregiudizî, si crea lo spazio in cui i varî ambiti del sapere – da quelli più rigorosamente vincolati alle scienze matematiche a quelli apparentemente più fluttuanti perché inerenti i moti dell’animo o le dinamiche sociali, dalle pratiche artistiche alle specialità tecniche – possono non solo coesistere nella teoria, ma di fatto rendersi reciproca sussistenza nella pratica: possono cioè riflettere lo stato delle cose, né più né meno per come la loro specifica natura ce le rende note (“non possiamo che stupirci dinanzi alla folle ragionevolezza delle cose”, afferma uno degli interlocutori).
Tra le novità di quest’opera, per quanto finora qui esposto, non può essere taciuta una serie di elementi di metodo del tutto congeniali e funzionali allo spirito del discorso. Mi riferisco anzitutto alla capacità – decisamente amplificata, è vero, dal genere del dialogo – di condurre la conversazione su più piani, senza degenerare in caos (lo scopo “epistemologico” è, per dir così, sorretto da argomentazioni psicanalitiche e grammaticali, matematiche e linguistiche, teologiche e letterarie, oltre che ontologiche, logiche ed etiche): d’altronde, alla interdisciplinarità di certi argomenti sarebbe risultato inopportuno opporre una riduzione delle argomentazioni a comparti stagni (per quanto l’odierna, soffocante tendenza agli specialismi, vada esattamente in questa direzione). Nella posizione delle questioni più complesse, nella presentazione delle differenti ottiche specialistiche, nell’incedere cauto e a volte precipitoso delle inferenze, nell’acuirsi dei toni polemici, nel succedersi degli ammiccamenti, delle reciproche allusioni, nell’individuazione dei punti comuni e delle differenze: insomma, in tutti i passaggi complessi cui un dialogo a più voci effettivamente mette capo, il lettore resta difficilmente in disparte, come uno spettatore. Al contrario: v’è invischiato dall’inizio alla fine, schierandosi ora per una, ora per l’altra prospettiva, prefigurandosi argomentazioni e obiezioni, conclusioni. Difficilmente un testo riesce a rapire e a tenere l’attenzione e la partecipazione a un livello costantemente così alto. Al punto che, man mano che si avvicina la fine, si sente parlare di se stessi, di quello che si è stati fino a oggi e che si è ora; di quello che si vorrebbe essere. Accanto a suggestive indicazioni per la vita, affiorano suggerimenti politici, massime di comportamento, giudizi storici, critiche economiche, preoccupazioni tecnologiche, considerazioni antiaccademiche (“la filosofia, nelle università, è diventata la propria storia […] c’è qualcosa che gli odierni sedicenti filosofi non vedono: la responsabilità comune dell’approccio alla verità”). Grande prova di coraggio.
Non è paradossale affermare che pur nella complessità e nella articolata trattazione del tema (ben oltre la dichiarazione d’intenti che trapela dalle prime battute, il carattere dell’opera è molto affine a quello di una summa epistemologica, ragione per cui la bibliografia è decisamente, oserei dire abissalmente più ampia di quella che compare in fondo al volume) e, soprattutto, di certi passaggi, il testo è mediamente più che comprensibile, lineare, addirittura semplice per la ricchezza delle esemplificazioni. A momenti, il tono s’eleva sino alla poesia. E anche questo suona come perfettamente coerente col resto: la poesia è probabilmente già nelle cose quotidiane, né più né meno che Dio.
Castiglione al Salice Ròdano, primavera 2014