Si legge tutto d’un fiato questo dialogo con se stesso bambino, questo spezzarsi in due e ricostruirsi anche tramite l’agire psicanalitico della Maga, questo omaggio a non voler morire del bambino, questo osteggiare il funerale del ‘noi bambino’ decretato un giorno imprecisato dal ‘noi adulto’, che non è mai cresciuto abbastanza da poterlo dimenticare.
Ed eccolo riemergere, il bambino, contrastato e controllato dall’adulto (quando Volevi dare un pugno contro quel fottuto treno), stizzito di aver perso il treno della vita, di essersi lasciato imbrigliare dagli infidi consigli del linguaggio scritto e parlato. In quello scritto ci può essere un incontro (È nella scrittura che dico d’incontrarti), ma i bimbi, quelli molto piccoli, non sanno di scrittura, non sanno neanche parlare bene, sanno appena cos’è l’angoscia e il sollievo. Credono però nei sogni e negli angeli, proprio in quelli in cui non credono più i grandi, e ci restano male se l’angelo non si presenta, in un giorno come un altro (Quel mattino) in cui troneggia l’umiliazione. Perché lui, il bambino, continua a crederci, e quando non ci crederà più, sarà ormai grande. In Non m’interromperai nel momento in cui la voce, l’adulto invece chiede un po’ di rispetto verso la parola parlata, un po’ d’attenzione, una crescita quasi anticipata nel bisogno di ascolto, un vero e proprio trionfo di se stesso. Forse è solo un momento, il bambino per definizione non ascolta, si rimette a rincorrere i suoi sogni. Lo intuisce l’adulto, come si deduce dalla poesia È la fantasia che a quel tempo ti ha graziato, quella fantasia che imbarazza gli uomini cosiddetti cresciuti, che buffamente non solo faticano a liberarla, ma anche fanno di tutto per nasconderla e sotterrarla. Forse in questo il bambino ci giudica e stenta a perdonarci, e siamo noi adulti che invece dovremmo invocare il suo perdono per la fantasia che abbiamo tradito, per la libera espressione che abbiamo sotterrato. E se la liberiamo questa fantasia, come in Ti porto per i boschi a passeggiare la domenica, ci ricongiungiamo col bambino che ci alberga in petto, che è lì in attesa di volare; lo sentiamo così forte dentro di noi che gli diamo del tu: “Puntuale, mentre fluttuo, ti aggrappi alle clavicole”.
Quanta fatica in questo ricongiungersi, dopo aver ricostruito un percorso interiore spezzato! Anche dalla lingua, usata da Filippo Parodi, si percepisce qualcosa di aspro, di spezzato, come se le immagini poetiche che si susseguono nei versi si ribellassero a questo gioco al massacro del bambino che felicemente continua ad albergare dentro di noi. Perché è dai cerchi concentrici attorno al bambino che è cresciuto l’albero adulto e “ogni cerchio, adesso, partecipa dell’altro”.
Un vero piacere leggere questo libro che, attraverso il contrasto bambino-adulto, ci concilia con noi stessi.
Salvatore Pisani, settembre 2018