Le tracce dell’assente in Ozu

Un Deus absconditus

Nella breve presentazione del mio libro Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale[1] che appare su quella che nel gergo editoriale viene detta “quarta di copertina” si parla del mio pormi anche in questo caso sulle orme del Trascendente e alla ricerca delle “tracce dell’Assente”. Non è un caso se le parole Trascendente e Assente siano scritte con la lettera maiuscola. La mia ricerca infatti va oltre una indagine di tipo filosofico o esistenziale ma pur muovendo da lì i suoi passi ha scelto poi di accedere ad un livello teologico e spirituale del discorso in cui ad essere interrogato è il Dio della tradizione biblica anche se ciò può essere meno evidente e solo sottinteso nel caso del libro sul cinema di Yasujiro Ozu (1903-1963)[2]. San Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo del sedicesimo secolo affermava che dal momento in cui il Padre ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire. Si tratta di un concetto che è presente nel Nuovo Testamento nella lettera agli Ebrei e in altri testi soprattutto giovannei e paolini. Il Dio che ha scelto di rivelarsi in maniera totale e definitiva nel suo Figlio Gesù Cristo (Eb. 1,2) non cessa tuttavia di essere un Deus absconditus[3], un Dio nascoso, che spesso a noi sembra essere avvolto e occultato da una coltre di silenzio e di “assenza”. Da qui quell’esigenza inestinguibile e quell’inquietudine che ci portano a cercarlo senza sosta “andando come a tentoni” (At. 17,27) e a volte non senza affanno come la sposa del Cantico dei cantici cerca l’Amato. Anche solo un segno del suo passaggio, un’orma o una traccia della sua silenziosa e invisibile presenza colmano il nostro cuore di una gioia sublime e indicibile (1Pt. 1,8) ed è per questo che il desiderio che anima la nostra ricerca lungi dall’ estinguersi si riaccende e si accresce man mano che intravediamo qualcuno dei suoi segni.

Lo stile di Ozu

Ora l’espressione “le tracce dell’assente” in questo caso scritto con la minuscola non è del tutto mia, in quanto l’ho trovata in un testo[4] che cito più volte nel mio libro dedicato al regista giapponese. Il libro di Carlos Martìs Arìs è dedicato ad alcune figure eminenti di artisti del ventesimo secolo nelle cui opere risulta determinante il tema del silenzio che squarcia il tetto dell’immanenza. Tra loro l’autore inserisce anche Yasujiro Ozu a cui dedica un capitolo, il quinto: “Ozu o le tracce dell’assente”[5]. Si tratta di un brano testuale ricco di spunti metafisici che cerca di penetrare nel significato di una poetica che ha radici profonde spingendosi oltre la realtà fenomenica e aprendosi sul mistero della trascendenza. Io ho scelto di fare mia l’espressione per certi versi misteriosa ed enigmatica “tracce dell’assente” subendone il fascino affatto particolare, dando tuttavia alle parole, man mano che mi dedicavo ai saggi su Bergman e Rohmer, un senso più compiuto e definito che trova il suo contesto vitale di riferimento nell’ambito della rivelazione biblica e cristiana in particolare. Trovo tuttavia di considerevole importanza e significato che tali tracce si possano rinvenire anche nel percorso personale di un grande autore che appartiene ad un mondo culturale che per molti aspetti ci risulta estraneo.

Tomba di Yasujiro Ozu con fiori
Tomba di Yasujiro Ozu con fiori

Il regista nipponico ha tratto dall’humus della propria tradizione culturale e religiosa i valori spirituali che informano la sua arte che quasi non è comprensibile se si prescinde dalla comprensione del loro apporto. Concetti come“mu”[6], “mono no aware”[7], “omiai”[8], “ie”[9], “devozione filiale[10] sottendono il pensiero del regista e la sua precomprensione della realtà ispirandone profondamente lo stile. Egli adotta di fatto un punto di vista “obliquo”, ponendosi come di lato, senza che la sua persona sia al centro e si frapponga tra l’obiettivo e la realtà, il suo non è solo un osservare ma anche un mettersi in ascolto, un ascolto che si fa umile e rispettoso. È da tale postura che gli oggetti e le persone stesse vengono inquadrati dalla macchina da presa, quasi attendendo il momento in cui vivranno un mutamento e una trasformazione che solo a volte si rende più percepibile. È a quel momento che lui tiene particolarmente ed è in tal modo che “l’inventario del quotidiano si trasforma dunque in una invocazione spirituale”[11]. La società e la famiglia che ne rappresenta il distillato e anche il microcosmo sono lette attraverso questa lente e il tempo è il fattore saliente attraverso cui tutto viene filtrato. Nel testo ci sono riflessioni molto dense sullo stile peculiare di Ozu e anche sul significato dei suoi celebri “piani vuoti”, quegli inserti nel flusso narrativo che lo interrompono per qualche secondo. Essi sono abitati da un silenzio che a volte si fa ricettacolo di emozioni e stati d’animo e altre ne diventa evocatore attraverso oggetti inanimati o ambienti spesso domestici svuotati della presenza umana. Per spiegare meglio ciò che l’autore intende per “tracce dell’assente” nel capitolo si fa una breve analisi di alcuni brani tratti dalle opere del regista giapponese. Voglio soffermarmi su di uno in particolare riguardante le sequenze finali di Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, 1953). Vi sono rappresentati tre personaggi del film mentre sono soli e pensano.

Le sequenze finali di Viaggio a Tokyo

La storia volge al termine e il vecchio Sukichi che ha perso da poco la compagnia della moglie Tomi è nella sua casa, seduto sul tatami in silenzio davanti alla finestra, lì dove prima amava sedere insieme con lei. Caccia una mosca fastidiosa che gli vola vicino al viso e guarda al di fuori verso il porto di Onomichi e il mare. Tra poco si affaccerà la vicina e la saluterà sorridendole gentilmente come è suo modo. Gesti consueti che si ripetono e fanno pensare a quando con lui c’era Tomi, i gesti sono gli stessi ma allo stesso tempo sono mutati, hanno un sapore diverso. Rimane sospeso nell’aria il non detto, l’implicito, tutti lo pensiamo guardando questa scena e non sono tanto le parole a manifestarlo, ancora nessuno ha parlato, ne altri elementi che vi siano presenti, a rivelarlo sono le tracce dell’assente[12].

Poi c’è Kioko, la figlia di Sukichi che è maestra e mentre i bambini cantano lei si affaccia alla finestra dell’aula e guardando l’orizzonte pensa. Sa che tra poco vedrà passare il treno per Tokyo su cui è appena salita la cognata Noriko, quel treno le evoca tutto un passato recente fatto di parole ed emozioni, di lutti e amarezze, di scoperte e rivelazioni: nulla sarà più come prima. La figura del treno come è in grado di presentificare una realtà interiore così nella sua corsa porta lontano. Il protagonista è il silenzio e a parlare sono solo le immagini e in sottofondo il coro dei bambini ma le tracce di ciò che è stato (e di un turbamento verso un futuro inconoscibile) si fanno segno e memoria e pur essendo a tutti gli effetti invisibili e impalpabili vengono impercettibilmente trasferite dalla composizione di quella scena con al centro la figura pensosa di Kioko, direttamente al cuore dello spettatore.

L’altro vertice di questo triangolo ideale è rappresentato da Noriko che su quel treno sta lasciando la casa dei suoceri e del marito disperso in guerra per tornare a Tokyo, la città dove lei vive e lavora e che indica il suo futuro. Il treno è immagine del tempo che trascorrendo si lascia dietro paesaggi, città, campagne, in una parola il passato. E insieme alla dimensione temporale «introduce la dolorosa coscienza che tutto si avvia irreversibilmente alla fine». Noriko osserva l’orologio da taschino che le ha regalato il suocero (ancora un rimando al trascorrere del tempo), era quello che apparteneva alla moglie defunta, non può che commuoversi e piangere pensando a quel dono, all’affetto ricambiato verso Tomi, alla propria travagliata storia matrimoniale, una storia che non vuole lasciarla e che neppure lei vorrebbe lasciare. Ma le parole di Sukichi hanno sollevato il suo animo da scrupoli insensati, un tempo sta davvero esaurendo il suo corso…  Nel silenzio di uno scompartimento ferroviario l’unico rumore che si avverte è lo stridore meccanico e sordo del treno sulle rotaie. Silenzio imperfetto “in cui si imprimono le tracce dell’assente” [13].

[1] Bersan D., Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2024.

[2] Bersan D., Figure del padre in Ozu, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2020.

[3] Is. 45,15. Rimando anche alle mie riflessioni a commento del film “Luci d’inverno”: Bersan D., Dio ridotto al silenzio. Pensieri inattuali su Bergman, Polimnia Digital Editions. Sacile (PN) 2021, pag. 149-153.

[4] Martìs Arìs C., Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2002.

[5] Op. cit., pag. 58-69.

[6] Concetto buddista che richiama al vuoto, al nulla inteso non nel senso nichilistico proprio dell’Occidente ma come feconda matrice in cui l’io si perde per poi ritrovarsi in un processo di perenne movimento attraverso l’estinzione e la rinascita.

[7]Dolce mestizia che prende l’animo mentre contempla il dileguarsi inarrestabile delle realtà umane.

[8] Si tratta del matrimonio combinato dalle famiglie dei futuri sposi, anche attraverso un mediatore interno o esterno alla famiglia.

[9] È la famiglia tradizionale giapponese che ospitava più generazioni e anche altri membri adottati o acquisiti.

[10] È uno dei principi cardine della dottrina confuciana.

[11]Op. cit. pag. 63.

[12] Op. cit. pag. 67.

[13] Op. cit. pag. 67. La citazione si riferisce alle parole che nel testo commentano un altro film di Ozu, “Inizio di primavera” (Soshun, 1956) e riguardano la scena finale in cui i due coniugi momentaneamente riconciliati e lontani da Tokyo, la loro città, osservano in silenzio il treno che lentamente si allontana attraversando quel grigio paesaggio industriale.

Figure del padre in Ozu

In occasione della pubblicazione del libro di Davide Bersan Figure del padre in Ozu (Polimnia Digital Editions, Sacile 2020, ISBN: 978-88-99193-79-9)[1], riportiamo un’ampia presentazione scritta espressamente dall’Autore.

Il libro è un itinerario dentro il cinema di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato nel 1903 a Fukagawa, sobborgo popolare di Tokyo e morto nel 1963, lo stesso giorno del suo compleanno, il 12 dicembre. Il suo primo film è del 1927, l’ultimo del 1962: Il gusto del saké.

Ozu è considerato un maestro del cinema per il suo modo peculiare e geniale di saper utilizzare la macchina da presa. Il suo stile passa progressivamente da un cinema di imitazione – i film americani appassionavano il giovane Yasujiro che ne traeva ispirazione particolarmente per i suoi lavori dei primi anni Trenta, che esploravano i generi slapstick, noir, gangster, storie di studenti, ecc. – a uno più personale e originale. Si tratta di uno stile sempre più sfrondato dai numerosi espedienti tecnici appresi e sempre più ispirato a un rigore formale ed espressivo basato su criteri di sobrietà ed essenzialità, basti citare la fissità della mdp e la scelta di mantenerla all’altezza di una persona seduta sui tatami o a quella di un bambino. Ma non si trattava solo di decisioni che riguardavano alcuni procedimenti tecnici. Esse esprimevano una propria personale visione del mondo ispirata alla tradizione filosofica e spirituale del buddismo zen in cui concetti come mu (vacuità, assenza) e mu-jo (impermanenza) costituivano dei principi cardine. I film di Ozu hanno costituito e rappresentato questa sua visione del mondo.

A partire dai primi anni trenta – penso a Il coro di Tokyo (1931) – Ozu fa propria la cifra di una delicata e toccante umanità, descrivendo le storie della gente comune (Shomingeki). È un genere che certamente Ozu non inventa e trova già frequentato da altri, ma che a suo modo reinterpreta e traduce attraverso la sua levità particolare, il suo sguardo distaccato, obiettivo, che lascia emergere la realtà così come essa si presenta.

Dallo Shomingeki Ozu non si è mai allontanato, descrivendo le classi sociali più umili nei film degli anni Venti e Trenta per passare alla classe media nei film degli anni Quaranta e del dopoguerra. All’interno di questo genere di cinema contemporaneo l’obiettivo del regista si focalizza fin quasi da subito sulla famiglia giapponese che viene seguita nel corso di più di tre decenni nelle sue mutazioni a volte più lente e a volte improvvise e travolgenti.

Davide Bersan – Figure del padre in Ozu – Copertina

La figura del padre è indubbiamente in primo piano e risalta in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni attraverso le opere dell’autore a partire dai film più vecchi fino agli ultimi. Come spiego nell’introduzione al libro, nel corso degli ultimi anni ho curato vari incontri pubblici in cui i film di Ozu sono stati visti e discussi presso la biblioteca comunale della mia città. Di tale lavoro di analisi filmica condivisa ho mantenuto ed elaborato alcune riflessioni che considero interessanti e che riguardano la figura paterna prendendo spunto anche dagli studi di alcuni autori di psicanalisi. Tra questi in particolare non posso non ricordare l’amico Giancarlo Ricci, recentemente scomparso, che ha partecipato a molti di questi eventi dando sempre con la sua consueta umiltà, nelle vesti di un anonimo partecipante, il suo contributo profondo e prezioso. Da questo punto di vista il libro è anche un tentativo di approfondimento sul tema del padre che raggiunge la contemporaneità e il nostro contesto culturale attraverso lo specchio di una civiltà “altra” e lontana, oltre che di una fase storica che ci ha preceduti.

Il primo capitolo è dedicato agli anni del muto e il padre si caratterizza per la sua lotta quotidiana volta a garantire la sussistenza materiale della propria famiglia. È un padre limitato e difettoso ma anche sensibile e umano. Egli subisce le recriminazioni e a volte i rimproveri dei figli che non si rendono ancora conto di quanto il discorso sociale imponga le sue leggi aspre e dure a cui il genitore deve soggiacere, a volte patendo umiliazioni nella sua dignità pur di mantenere il suo posto di lavoro: Il coro di Tokyo (1931), Sono nato, ma… (1932). In alcune opere di questo periodo il padre è un perdente dal punto di vista sociale (disoccupato, attore ambulante fallito, perdigiorno alcolizzato…) ma conserva comunque un candore particolare che si rivela per lo più quando entrano in gioco i suoi sentimenti paterni.

Il padre del periodo bellico è una figura che spicca per la sua caratura morale da cui promana una certa gravità e austerità che però non annullano il suo lato umano e affettivo. Egli segnala i valori a cui riferirsi e che ritrova nella tradizione degli antichi. Il contesto culturale è segnato profondamente dal confucianesimo di cui uno dei principi cardine è la pietà filiale. Il padre va onorato e occorre riconoscere il debito che nascendo si contrae nei suoi confronti. D’altra parte il padre – ma anche la madre: Figlio unico (1936) – si sacrifica per il figlio, esercita un lavoro ingrato con poche soddisfazioni, costretto a vivere a una grande distanza da lui, per permettergli di studiare. Egli si rivela come un autentico eroe del quotidiano, assolvendo con dignità e umiltà il suo compito di ogni giorno solo per poter vedere un giorno il figlio felice di aver trovato a sua volta la sua strada. La gioia del padre si alimenta e si riflette in quella futura del figlio. Illuminanti a tale proposito sono le parole del protagonista di C’era un padre (1942), Horikawa,che prima di morire dice al figlio Ryohei: «Fai sempre del tuo meglio, come tuo padre, che ha fatto tutto quello che ha potuto… Sono felice! Ho tanto sonno…».

 Il padre del dopoguerra è invece una figura più complessa che si incarica di fare da ponte e da mediatore tra ciò che è del passato e merita di rimanere e ciò che sembra essere il futuro nel bene e nel male, come promessa o come incombenza. Il Giappone è un paese che esce sconfitto e umiliato dal conflitto bellico, occupato militarmente da una potenza straniera che impone anche i suoi modelli culturali. Modelli che progressivamente vengono adottati dalla popolazione e soprattutto dalle giovani generazioni. Di ciò risente e patisce in primis l’istituzione familiare tradizionale. La grande famiglia (ie) si sfalda e sul modello occidentale diventa famiglia nucleare. L’azienda e i rapporti con i colleghi prendono, in una certa misura, il posto della famiglia stessa, parassitandone l’offerta di un’appartenenza a un corpo sociale, istanza a cui l’uomo giapponese è molto sensibile. La conseguenza è che i padri rimangono la maggior parte del tempo lontani da casa e dai figli.

 Il padre dei primi film di Ozu del dopoguerra è una presenza equilibrata e rassicurante, è sempre un uomo dedito al suo lavoro e custode dei valori della tradizione che però non può esimersi dal confrontarsi con un cambiamento che si fa ineluttabile. Cambiamento dovuto ai tempi, certo, ma anche al trascorrere della vita stessa, delle scelte che devono essere fatte, che i figli devono fare per trovare il loro posto nel mondo. Si tratta – prima ancora di un cambiamento culturale e sociale che tuttavia fa da sfondo, e che in certi film pare prevalere – di un cambiamento insito nelle leggi universali che reggono la natura, la vita degli esseri viventi. I figli (e le figlie) un giorno quando saranno cresciuti prenderanno la loro strada, si sposeranno, si allontaneranno dal nido familiare, è inevitabile… Una sensazione di perdita e di solitudine si fa presente. Non è così solo per l’allontanamento dei figli ma anche per quel processo inesorabile che accompagna l’esistenza di ogni realtà creata che ha necessariamente un inizio, un fiorire, una maturazione e una fine.

 Il sentimento estetico e spirituale che l’uomo giapponese prova dinanzi alla provvisorietà (mu-jo) anche delle cose più belle e sublimi, e che unisce l’accettazione serena e una dolce tristezza, è quell’atteggiamento contemplativo che la tradizione zen chiama mono no aware. I padri di Tarda primavera (1949), di Inizio d’estate (1951) ma anche di Viaggio a Tokyo (1953) vivono ed esprimono questa profonda spiritualità che riflette senz’altro quella del regista che in loro trova degli alter-ego in cui rispecchiarsi. Ma negli ultimi film e in particolare nell’ultimo, Il gusto del sakè (1962) pare di cogliere qualcosa di più di un raffinato atteggiamento estetico: un aspetto tragico in cui si accampa il dolore del padre, una faglia di dolore che non può e non vuole placarsi. Dentro una realtà sociale in radicale cambiamento, in cui la preziosa eredità degli affetti familiari viene minata fin nelle sue fondamenta, vi è una dimensione che si radica su di un piano più metafisico e universale e che riguarda le leggi eterne della vita e della morte, pare dirci Yasujiro Ozu.

Non sono solo le potenti trasformazioni della società giapponese a porre il padre dentro un’esperienza continua di perdita e di lutto, è qualcosa di più profondo. Non è nemmeno il venir meno dei legami più intimi, dell’allontanarsi delle persone a cui si è più affezionati, come era avvenuto per l’anziano padre Somiya dopo il matrimonio tardivo della figlia Noriko in Tarda primavera. Qui si coglie qualcosa che riguarda il senso della trascendenza. Il padre ne è il silenzioso testimone, e non può non esserlo, dato che è proprio questo il suo compito. Dal suo silenzio, il padre si fa indicatore di un Oltre. Un compito altamente nobile e spirituale che lo pone sulla breccia. Un mondo sta morendo, forse un altro sta per nascere e lui è solo, sulla breccia. Non è un eroe, neppure un eroe del quotidiano come Horikawa, non lo è più. Se il suo avanzare tra i corridoi è fiaccato e reso instabile dal troppo sakè, il suo sguardo è lucido: egli guarda in faccia la fine e il dopo, la morte e l’Altrove, è una sentinella che non si stanca di fissare l’orizzonte e di scrutare il sentiero dove sono impresse le tracce dell’Assente.

Milano, 11 giugno 2020


[1] Il libro è disponibile nei principali store in formato PDF, epub e mobi-Kindle, e in edizione cartacea richiedendolo all’editore.

Nelle mani di ciarlatani e della sorte: uno sguardo a La Mort de Louis XIV

Trasportato sopra una rudimentale e scricchiolante sedia a rotelle, Luigi XIV fissa lo sguardo verso un imprecisato orizzonte che si staglia di fronte alla sua villa. L’unico momento di respiro in tutto il film, segue la clausura imposta dalla corte dei non miracoli e composta da medici e ciarlatani. Due ore. Poi la morte preannunciata nel titolo. Fin.

Luigi XIV non riesce più a muoversi, un problema ad una gamba gli impedisce di camminare e passa le sue giornate a letto, mangiando pochissimo, bevendo brodini da cucchiai d’oro, ricevendo cortigiani con cui non dialoga neanche, accarezzando i suoi amati cani, cambiando più parrucche di Phil Spector, provando collezioni di occhi di vetro, subendo salassi, osservando la propria gamba andare in cancrena, ascoltando inutili rassicurazioni sul suo impossibile ricovero e contemplando il tempo che muore insieme a lui prima di spirare.

La mort de Louis XIV
La mort de Louis XIV

E dire che Luigi XIV vorrebbe che gli amputassero quella gamba, ma niente da fare, i suoi medici non sono d’accordo. Vogliono farlo guarire o farlo morire? Bende, unguenti, persino una pozione a base di sperma, sangue di toro e grasso di rana. Nulla di quello che fanno può impedire la necrosi, ma forse il loro intento è proprio quello di provocare la morte del Re.

Quando non c’è più nulla da fare, piangono e chiedono perdono per non aver sconfitto la malattia. La battuta con cui La Mort de Louis XIV si chiude è perfetta: “Faremo meglio la prossima volta”. Ecco chiarificato il duplice senso del film di Albert Serra, non solo un’osservazione della morte come di vita che appassisce (vedi il suo precedente lungometraggio Historia de la Meva Mort), ma anche uno sguardo e un’indagine su cosa fosse la Medicina dell’epoca.

La morte ci rende tutti uguali e il caso di Luigi XIV, al di là delle mille e più cure (tra l’altro rivelatesi non solo inutili, ma dannose), serve per farsi un’idea di cosa sia stato il progresso scientifico che ha portato i benefici conosciuti nell’ultimo arco di secolo. Nessuna profezia o virtù divinatorie, la sopravvivenza del futuro si basa sui morti del passato. Per evocare ancora una volta il finale del film: le volte successive, i medici hanno fatto meglio. Tra l’altro, non direttamente collegato ad una possibile soluzione momentanea per ritardare il destino di morte, un dialogo tra aiutanti del Re riguardante la conservazione degli alimenti sotto ghiaccio per impedirne il deterioramento suona quasi come un’ipotesi di proto-criogenesi. D’altronde, negli ultimi cinquant’anni, non è quello che hanno fatto molti ricconi? Farsi mettere in sarcofagi d’acciaio a temperature sotto zero per essere risvegliati secoli dopo, una volta trovate le cure per i loro mali ad oggi ancora incurabili? Zero K, il più recente romanzo di Don DeLillo, è un viaggio negli orrori di questa pratica in-umana.

I ricchi possono curarsi meglio e i poveri devono sperare di non ammalarsi, ma alla luce del film di Serra è lampante il messaggio universale che nel momento del bisogno si è sempre nelle mani di qualcun altro e della sorte, funesta o benevola o fortunata che sia.

Proiettato fuori concorso alla 69ma edizione del festival di Cannes, La Mort de Louis XIV ha entusiasmato la critica internazionale, che l’ha eletto uno dei migliori film dell’anno scorso, ed è ancora in attesa di una improbabile distribuzione italiana. Da applausi l’interpretazione sommessa e sofferente di Jean-Pierre Léaud. Sì, proprio lui, il ragazzino de I 400 colpi (F. Truffaut, 1959). Se c’è un’affermazione che della vita può essere fatta è che il tempo passa e passa per tutti.

Mildred Pierce, un antidoto contro la Depressione Americana

L’inferno, in fondo, è un posto dove si lotta per emergere. E per emergere Mildred Pierce usa le cose che ha: delle splendide gambe e l’arte di cucinare benissimo, da buona donna di casa americana. Ora, divorziata da un marito ex benestante e con due figlie, è solo una donna bianca fra le tante, negli Stati Uniti del 1931. Ma Mildred vuole farcela e non guarda in faccia nessuno. Ferocemente attiva, da cameriera riesce ad aprire un ristorante, poi a costruire un piccolo impero. Purtroppo Mildred ha due difetti: una passione per gli uomini inconcludenti e spendaccioni e un attaccamento morboso per la figlia più bella, un piccolo demone opportunista su cui Mildred proietta le sue fantasie di riscatto.
(Introduzione a Mildred Pierce di James M. Cain, Ed. Einaudi)

Il film: una sinergia di forze opposte

Se davvero esiste un romanzo che è stato trasposto alla perfezione sul grande schermo, questo non è Mildred Pierce. Volendo evitare già ora di creare confusione tra la trama del libro e quella del film, si procederà a tratteggiare gli elementi condivisi dai due: con un marito incapace di provvedere a lei, Mildred (Joan Crawford) è una casalinga che si trova costretta a cercare un lavoro per provvedere alla sua sussistenza e a quelle delle sue due figlie, la cui prediletta è la viziatissima Veda (Ann Blyth). Dotata di grandi capacità, d’intraprendenza e di dedizione, Mildred crea in pochi anni un impero di ristoranti di successo, ma questo status di benessere, faticosamente raggiunto, non è destinato a durare a lungo.

Joan Crawford in un frame di Mildred Pierce
Joan Crawford in un frame di Mildred Pierce

Al di fuori della cornice del film, entrato nell’immaginario collettivo della cinematografia americana del dopoguerra, la catena di eventi che hanno portato alla realizzazione di questa pellicola paiono essere interessanti quasi tanto quanto lo stesso Mildred Pierce. Una parentesi obbligatoria: è vero che ora si tende ad identificare Joan Crawford come una delle star del firmamento del cinema classico, ma all’epoca l’attrice è reduce da una serie di flop alla MGM e, sbarcata alla Warner Bros., temporeggia in attesa che le venga proposto d’interpretare un grande film. Pertanto, Mildred Pierce va inquadrato anche come film chiave della sua carriera, che sarebbe proseguita quasi sempre ad alti livelli per i successivi quindici-venti anni con punte altissime quali Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954) o Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich, 1962).

La sceneggiatura del film passa per decine di mani prima di trovare la sua forma definitiva, quella giudicata giusta per essere trasposta sullo schermo. Tra i vari sceneggiatori ingaggiati e sbolognati in fretta senza troppi complimenti secondo la prassi hollywoodiana, c’è anche William Faulkner, premio Nobel per la Letteratura qualche anno più tardi. Si racconta che la sua versione contenga un voice-over e che il vero protagonista sia il ristorante di Mildred, diventato uno squallido luogo popolato da feccia che compie loschi affari sottobanco, e che Veda sia ancora più cinica e calcolatrice di come è stata poi resa nel film (e non dev’essere stata semplice delineare una figura ancora più insopportabile di quella).

Mildred Pierce subisce riscritture su riscritture fino ad assumere una fisionomia narrativa decisamente diversa rispetto a quella del romanzo di Cain. Modificare dettagli e particolari della trama non è mai stata una novità, ma qui viene completamente stravolta la struttura del materiale originale (il film inizia da una specie di anticipazione del finale per poi proseguire con una serie di flashback in fase d’interrogatorio) e ad essere trasformata pressoché in toto è la conclusione della storia attraverso colpi di scena inventati di sana pianta.

Ci si trova di fronte ad un bivio: lo si può considerare un grande film hollywoodiano anche se una serie di elementi snaturano la natura del romanzo? Si può e si deve. Se osservato come prodotto d’intrattenimento e parallelamente come strumento per veicolare una patinata morale di giustizia e di perseguimento del sogno americano, Mildred Pierce è un film perfetto nel suo avvicendare figure positive (Mildred) e negative (sua figlia Veda e il suo amante Monty Beragon) che si avvicinano e si scontrano sullo sfondo di un’America dove la caratura delle persone si soppesa sulla base del loro successo.

Tornando al finale, è qui è stata operata la modificazione più incisiva: nel film, Veda spara e uccide Monty mentre nel romanzo i due fuggono via insieme, lasciando Mildred, rispettivamente madre e moglie, alla deriva di sé e coperta di debiti. La scelta di virare Mildred Pierce al noir costruito in flashback fu dovuta al tentativo (riuscito) di replicare il successo di Double Indemnity (Billy Wilder, 1944), altro adattamento da un libro di Cain, ma ad interessare di più sembra essere la scelta di pulire i peccati dei protagonisti del romanzo dai comportamenti ritenuti riprovevoli dal Codice Hays come Mildred che va ripetutamente a letto con Wally, ex socio d’affari del marito e ora suo business partner, oppure Veda, la cui condotta va ben più in là dell’essere una smorfiosa viziata ed egocentrica.

È nel rapporto tra madre e figlia che si realizza, narrativamente parlando, il trionfo di Mildred Pierce: nel film si sottolinea un concetto fondamentale, quello di crescere i propri figli meglio che si può (e anche di più). Metabolizzando in tempi record ogni umiliazione, insulto, sbeffeggiamento e capriccio, Mildred cresce Veda come se fosse una principessina, viziandola all’inverosimile. In quello che è un ribaltamento del naturale ordine delle cose, questa è la storia di una madre che vuole costantemente e letteralmente a qualsiasi costo compiacere la figlia e non viceversa.

Quello che però preme più i produttori è mostrare una storia americana di successo all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mildred Pierce esce negli Stati Uniti nell’autunno del 1945 (in Italia, invece, viene distribuito solo due anni più tardi, nel dicembre del 1947 con il paradossale titolo de Il romanzo di Mildred) e le ostilità, con lo sgancio “democratico” delle due bombe atomiche in Giappone, sono definitivamente cessate qualche settimana prima. Il film però è pronto da ben prima di quella data, ma la sua uscita nelle sale americane viene posticipata fino a quel momento nella speranza che il clima post-bellico possa essere più adatto per il successo di una pellicola come quella.

Alla luce di ciò, oggi può far strano pensare che ai tempi James M. Cain dedichi una prima edizione di Mildred Pierce a Joan Crawford, ringraziandola per aver dato vita al personaggio da lui scritto esattamente nella maniera in cui se l’era immaginato, ma se ci si scomoda a dire che le trasposizioni cinematografiche degli ultimi due o tre decenni a volte si sono discostate dai libri per dettagli tipo il colore dei capelli di uno dei protagonisti, bisognerebbe guardare indietro agli anni ’40 o ’50 per scoprire che, in certi casi, del romanzo d’origine è stato lasciato intatto solo il titolo.

Agli Oscar del 1946, Mildred Pierce viene candidato a sei premi Oscar tra cui quello per il Miglior Film e la Migliore Sceneggiatura e finisce col portare a casa quello per la Migliore Attrice Protagonista, Joan Crawford, che in vista della cerimonia si è data malata per paura di perdere, dopo tutti gli sforzi fatti per realizzare quel film e dopo vent’anni spesi a Hollywood senza mai raggiungere le vette di sue colleghe come Bette Davis. Dice di avere l’influenza e rimane nella sua abitazione, ma non è vero, sta benissimo. La figlia adottiva racconta che, dopo esserle stato comunicato di aver vinto l’ambita statuetta, la Crawford si getta giù dal letto per truccarsi in vista dell’arrivo dei giornalisti, dei reporter e del regista Michael Curtiz, che le sta portando l’Oscar.

Come nel caso di altri grandi e importanti film hollywoodiani, anche Mildred Pierce vede la luce in seguito a turbolenze produttive e diatribe interne, in questo caso tutte polarizzate dalla Crawford e da Curtiz. Gli aneddoti dal set parlano chiaro di quanta poca simpatia scorra tra i due e gli scontri più frequenti riguardano proprio la modellazione di Mildred: la Crawford viene accusata dal regista di far modificare a suo piacimento gli abiti e il trucco del personaggio e lei implora la Warner Bros. di licenziare Curtiz per gli insulti di cui non fa sconti durante le riprese. Si giunge ad un compromesso: al regista viene concesso d’imprecare solo in ungherese (sua lingua d’origine) e alla Crawford viene impedito di operare eccessivi cambiamenti al look di Mildred. Alla consegna dell’Oscar a casa della Crawford, i due sfoderano i sorrisi più falsi e convincenti di cui dispongono. Ormai è tutto finito e Mildred Pierce è un successo.

Il contributo di Michael Curtiz alla riuscita del film è fondamentale e sarebbe impossibile pensare ad un’altra versione di Mildred Pierce se non la sua. Di fatto, come si è visto, la pellicola vive un’esistenza slegata da quella del romanzo e le stesse atmosfere che evoca sono differenti. Alle villette spagnoleggianti immerse nelle colline californiane, in pieno stile realista di Cain, si contrappongono le ambientazioni proposte da Curtiz, maggiormente legate ad un gusto post-espressionista: anche le case più modeste diventano luoghi giganteschi nei quali le ombre dei protagonisti si perdono tra le stanze, tutto è lugubre e il senso di minaccia e ansia pervade ogni inquadratura. Tra le altre cose, Curtiz è anche il regista del film classico per antonomasia, Casablanca (1942), di cui rievoca esplicitamente il bar di Rick quando mostra il locale di Wally Burgen.

Michael Curtiz on the set of Casablanca
Michael Curtiz on the set of Casablanca

Dopo il premio Oscar a Joan Crawford, sono molti gli esercenti delle sale americane a chiedere una seconda distribuzione di Mildred Pierce per sfruttare l’onda lunga seguita alla vittoria agli Academy Awards, ma la Warner Bros. non si dimostra per niente intenzionata ad un’operazione di questo genere. Il film è andato molto bene al botteghino (si parla di 4 milioni dollari nei primi mesi di programmazione, una cifra non indifferente nell’America post-WWII) e creare attesa in vista di una re-issue uno o due anni dopo può solo fare bene. Più a lungo si attende qualcosa, più interesse si crea. Ovviamente senza arrivare al punto da far dimenticare quel che si sta aspettando perché sta passando troppo tempo. Inoltre, c’è un nuovo titolo con la Crawford protagonista che sta per uscire nelle sale: Humoresque (1946), nel quale l’attrice interpreta il ruolo di una ricca e annoiata donna sposata che inizia una torbida relazione amorosa con un violinista di successo. Il film è un gemello eterozigote di Mildred Pierce in termini di messinscena, atteggiamento della protagonista, titoli di testa, fotografia, regia (dietro alla macchina da presa c’è questa volta Jean Negulesco) e cupio dissolvi generale. Vedere per credere.

Nel 1953 alcuni diritti sull’uso del romanzo vengono restituiti all’autore James M. Cain e inizia a circolare l’insistente voce dell’imminente realizzazione di un serial televisivo ispirato a Mildred Pierce con un’apparizione speciale di Joan Crawford, ma non nel ruolo della protagonista perché troppo impegnata a fare cinema (come si è già detto, in quegli anni l’attrice è all’apice della sua carriera). Le chiacchiere e le trattative circa una versione televisiva in più puntate continuano per gli anni a seguire e nel 1957 la CBS sembra essere lì lì per realizzarla, ma quando tutto sembra stare per concretizzarsi ecco spuntare come funghi avvocati pronti a bloccare questa iniziativa. C’è chi sta pensando di fare un remake del film, a distanza di poco più di un decennio, e quindi un prodotto televisivo non farebbe altro che smorzare l’interesse del pubblico verso un altro (e a colori) rifacimento cinematografico. Com’è e come non è, tutto si ferma. Dovranno passare più di cinquant’anni prima che si parli ancora di Mildred Pierce. Sarà Todd Haynes, regista dell’incantevole Far from Heaven (2002), a trovare un nuovo volto per Mildred e a rendere giustizia per la prima volta al microuniverso narrato da Cain, rimanendo quanto più possibile fedele alle pagine scritte dal romanziere.

Quando Freud disse no a Hollywood

Il 14 agosto 1925, mentre Hollywood sta vivendo una delle sue più incredibili stagioni cinematografiche, Sigmund Freud scrive a Sándor Ferenczi, suo amico e collega, a proposito della pratica, che stava sempre più prendendo piede tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, di far prolificare la contaminazione tra psicanalisi e cinema:

La riduzione cinematografica sembra inevitabile (…) e, personalmente, non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere.

Samuel Goldwyn Studios

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Ben-Hur, un’avventura italiana

PRELUDIO

Riecheggiano nel web le urla feroci di chi non ha visto neanche il film con Charlton Heston, ma ha già piantato unghie e denti sul nuovo Ben-Hur, dilaniandolo in mille pezzi ancor prima che sia stato proiettato nelle sale. Questo remake non s’aveva da fare, non si può distruggere così la memoria del suo illustre precedente girato in Italia negli anni ’50, uscito ai tempi del glorioso Technicolor e dell’eccezionale e costosissimo Ultra Panavision. Quello che però sfugge ai fanboys – nell’Era di Facebook e del sempiterno revival del 3D – è che la celeberrima versione del 1959 era già un remake di un remake.

Prima della dentatura da squalo di Charlton Heston vi è stata la grazia messicana del Ramon Novarro (uno dei primissimi attori a fare coming out in un’epoca in cui questo significava la certezza quasi matematica di perdere ogni privilegio a Hollywood) nel Ben-Hur del 1925, quello veramente avanguardistico e straordinario, che a sua volta era un remake gonfiato e ampliato della versione del 1907 con William S. Hart, il quale sarebbe diventato negli anni ’10 icona western del periodo muto americano. Quest’ultima piccola produzione era uno sperimentale adattamento cinematografico della trionfale trasposizione teatrale del romanzo del Generale Lew Wallace.

Ben-Hur (1959)
Ben-Hur (1959)

Una parentesi che più di Ben-Hur meriterebbe un film: Wallace è stato il Governatore del New Mexico che nel 1879 spinse Billy the Kid a fare da informatore indicando i colpevoli dell’omicidio Chapman in cambio del “perdono per ogni crimine commesso”; il pistolero testimoniò, ma il procuratore distrettuale locale si rifiutò di onorare la promessa fatta da Wallace. Billy the Kid allora fuggì dal carcere, il resto è leggenda.

Quarant’anni dopo la morte del Kid, nel 1925, il romanzo di Wallace approdò per la seconda volta a Hollywood, e per la prima volta in Italia.

 

VIAGGIO IN ITALIA

Dopo dispute tra le major hollywoodiane, i diritti per la realizzazione sul grande schermo di Ben-Hur vengono acquisiti dalla MGM, che nel 1922 decide di fare il più grande film di tutti i tempi. L’Italia viene scelta come terra di conquista, soprattutto per approfittare dei bassissimi costi locali del lavoro.

Hollywood, che mette in scena le avventure dell’eroe carismatico, non poteva non apprezzare Benito Mussolini, leader carismatico weberiano ed equivalente politico di Douglas Fairbanks. Pugno di ferro e randellate come nei film di cappa e spada e un faccione indimenticabile. Mussolini è in prima linea per offrire agli americani tutto l’aiuto di cui hanno bisogno per la realizzazione di Ben-Hur, salvo poi salire sul cavallo matto quando scopre quanto siano pagate le maestranze hollywoodiane rispetto ai salari erogati da questi alla manovalanza italiana. Vecchio socialista, il Duce si offende a tal punto da orchestrare una serie di contro-movimenti popolari e cavalcare (dopo averlo lui stesso creato) un malumore, tra i carpentieri assunti per la costruzione degli immensi set, che si concretizza in una serie di scioperi che aumentano ancor di più i ritardi sulla tabella di marcia del film. Quando però alcuni operai, che stanno lavorando a Ben-Hur, scioperano per rendere omaggio alla salma di Giacomo Matteotti, assassinato nel giugno del 1924, Mussolini manda un gruppo di camicie nere in modalità spedizione punitiva a spaccar  loro le ossa.

I produttori di Ben-Hur vogliono costruire una copia del Circo Massimo e della Porta di Giaffa poco fuori da Porta San Giovanni a Roma. Vengono assunti in centinaia per completare questi lavori in sette settimane, ma dopo sette mesi le monumentali opere di gesso e cartapesta sono ancora lontane dall’essere completate. Il motivo di questo rallentamento costante è dovuto, come si è già detto, a scioperi. Mussolini prende alla lettera il suo celeberrimo motto “La cinematografia è l’arma più forte” e la ribalta a suo favore, conficcando nel costato della MGM una lama per provocare una lenta emorragia in termini economici. Sostanzialmente, più tempo i lavoratori ci mettono a finire quei set, più a lungo possono lavorare. Così facendo, il Duce si prende gioco dei produttori hollywoodiani, obbligandoli a stare a questo gioco per quasi un anno. Dividendo in “squadre” i carpentieri è possibile far scioperare una settimana l’una, una settimana un’altra e così via. I problemi di disoccupazione si risolvono così anche ai tempi dell’Italia Fascista.

Ben-Hur (2016)
Ben-Hur (2016)

Nel frattempo Charles Brabin, che è ancora (per poco) al timone di Ben-Hur, prova a girare la scena della battaglia navale, ma si rende presto conto che gli  scioperi imperversano anche ad Anzio, nei cantieri navali. Dopo qualche settimana, che il cast tecnico trascorre sulle spiagge in attesa di procedere con le riprese, le imbarcazioni sono finalmente pronte e si può partire, ma sorgono tre problemi: due aggirabili e uno insormontabile. Le navi completate in ogni dettaglio, da prua a poppa sono solo tre e, per dare l’illusione di una flotta, le rimanenti vengono solo abbozzate di profilo e montate su delle zattere. Da lontano nessuno se ne può accorgere. L’altro problema sono le barchette dei pescatori, che incuriositi da tutto quel movimento, continuano ad avvicinarsi, rovinando una ripresa dopo l’altra. Ci sono dei motoscafi della produzione che con costanza intervengono a cacciarli via, ma è come tappare una falla con un dito perché i pescatori continuano a comparire da ogni lato. E questo è nulla in confronto alla mazzata che arriva quando le autorità portuali stabiliscono che le navi del film non sono né sicure né atte alla navigazione. Allora vengono rispedite nei porti d’origine per essere rese a norma, ma ciò non basta perché a quel punto viene concesso loro d’essere utilizzate solo se ancorate. Passino i pescatori che sbucano nell’inquadratura, ma è impossibile filmare una battaglia con delle navi perfettamente immobili. Bisogna ripartire da capo. Altro tempo, altri soldi, altri lidi. Ci si sposta a Livorno.

 

IN FONDO AL MAR

All’interno dell’epica attorno alla lavorazione di Ben-Hur, c’è un episodio che più di tutti assume toni horror. Per le riprese della battaglia navale, girata sulla costa livornese (dopo mesi sprecati sulla costa di Anzio e la sostituzione alla regia di Brabin, rimpiazzato da Fred Niblo), sono necessarie svariate centinaia di comparse e moltissimi italiani si presentano il giorno del “casting” che consiste in una semplice domanda: “Sai nuotare?” e se la risposta è positiva viene fornito loro un abito romano o da pirata, uno spadone e vengono spediti sulle navi. Le indicazioni del regista sono ancora più semplici “Datevele di santa ragione!”, orchestrando rozzamente una delle sequenze più iconiche del film, preludio di una tragedia reale che da lì a poco non si sarebbe soltanto sfiorata. Occorre però fare un passo indietro, alla chiamata sul set di quella gioventù italiana.

Il tasso di disoccupazione è talmente alto che migliaia di giovani si presentano per partecipare al film, molti dei quali mentono sul fatto di sapere veramente nuotare. Inoltre, il clima politico che si respira tra i figuranti è pesante, tra fascisti e anti-fascisti pronti a scannarsi a vicenda ad ogni istante. Un giorno Niblo, ispezionando una delle navi, trova una pila di vere spade nascoste sotto delle vele e scopre ben presto che le persone preposte al casting hanno diviso le comparse in fascisti (i romani) e anti-fascisti (i pirati). Se Niblo non se ne fosse accorto, nella baraonda qualcuno ci avrebbe rimesso la pelle sul serio. Terribile presagio.

Nel tumulto indicibile di quella battaglia navale, (e lo si nota quando si guarda il film) un incendio necessario per il film, spinto da un vento non preventivato, si propaga a tutta la trireme romana provocando il panico tra le comparse che o si buttano in mare o s’inginocchiano a pregare i santi delle loro terre. Francis X. Bushman, uno degli attori di punta del film e personaggio chiave dell’intera “Spedizione Ben-Hur” in Italia, dice al regista d’interrompere le riprese perché ci sono persone in acqua che stanno affogando. Niblo, con il fiatone della dirigenza della MGM che ha già perso milioni di dollari per un film ancora in alto mare, risponde che ognuna di quelle barche costa un’enormità e che per nessun motivo girerà ancora una volta quella scena.

La verità su quel che succede quel giorno non viene mai a galla: stando agli uffici del casting, a fine serata solo tre comparse non sono presenti all’appello, ma si fanno vive all’indomani dopo essere state recuperate da un peschereccio livornese, ancora vestite da centurioni romani, a reclamare il compenso e i loro vestiti civili. Circola però anche un’altra storia: uno degli assistenti alla regia sarebbe stato mandato di nascosto sopra una barca a remi, sul far della sera, a legare con catene e pesi gli eventuali vestiti e cadaveri galleggianti dove poche ore prima era stata girata la battaglia navale in modo tale da farli sparire definitivamente, facendoli così affondare e diventare tutt’uno col pavimento marino o cibo per pesci. Se così è stato, l’MGM è riuscita a occultare tutto, complice anche il fatto di essere in una terra straniera.

Torniamo un attimo a Francis X. Bushman, che da co-protagonista diventa investigatore di quello che succede dentro e fuori dal set. La sua importanza prima, durante e dopo le riprese del film è fondamentale per ricostruire il caos della realizzazione di Ben-Hur. A differenza di quasi tutte le altre personalità legate al film, i ricordi di Bushman sono i più crudi, cupi e truculenti e fanno emergere un’altra facciata dell’industria cinematografica dell’epoca.

Aggirandosi nei camerini, un paio di giorni dopo le riprese, Bushman chiede se tutto si sia risolto per il meglio, insomma se dopo la battaglia navale tutti son tornati a reclamare i loro abiti e a riconsegnare quelli usati per il film. L’addetto al guardaroba delle comparse è solenne nella sua risposta: “Ah, mancano molti costumi …”.

 

EPILOGO: MUSSOLINI S’ARRABBIA

Ben-Hur lo conosciamo tutti, una storia di vendetta e perdono, rivincita e sentimento, su cui aleggia la figura di Gesù Cristo che, come un fantasmino, compare e scompare senza mai farsi vedere in volto. Quando Mussolini finalmente vede il film va su tutte le furie, inizia a sbraitare e assieme a lui iniziano ad abbaiare anche i fedelissimi che gli stanno attorno. “È una vergogna! Gli americani c’hanno gabbati!”. Il Duce si è immaginato tutt’altro, si è girato un film nella testa che non corrisponde a quello su pellicola. Lui era convinto che il romano Messala (interpretato da Francis X. Bushman, la nostra guida per questa storia) avrebbe vinto la corsa e sarebbe stato l’eroe. Quando vede che non solo Messala muore miseramente schiacciato sotto il peso dei cavalli e delle bighe, ma che l’eroe e vero protagonista del film è Ben-Hur, un ebreo a cui capita pure di diventare schiavo, Mussolini impazzisce e censura il film. Forse gli bastava soffermarsi sul titolo del film o leggere una sinossi per capire di cosa si trattava. Ad ogni modo, nessun italiano deve vedere un tale scempio, è un’onta che va lavata col sangue. Manganelli agitati in aria e tanto rumore per nulla.