In occasione della pubblicazione del libro di Davide Bersan Figure del padre in Ozu (Polimnia Digital Editions, Sacile 2020, ISBN: 978-88-99193-79-9)[1], riportiamo un’ampia presentazione scritta espressamente dall’Autore.
Il libro è un itinerario dentro il cinema di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato nel 1903 a Fukagawa, sobborgo popolare di Tokyo e morto nel 1963, lo stesso giorno del suo compleanno, il 12 dicembre. Il suo primo film è del 1927, l’ultimo del 1962: Il gusto del saké.
Ozu è considerato un maestro del cinema per il suo modo peculiare e geniale di saper utilizzare la macchina da presa. Il suo stile passa progressivamente da un cinema di imitazione – i film americani appassionavano il giovane Yasujiro che ne traeva ispirazione particolarmente per i suoi lavori dei primi anni Trenta, che esploravano i generi slapstick, noir, gangster, storie di studenti, ecc. – a uno più personale e originale. Si tratta di uno stile sempre più sfrondato dai numerosi espedienti tecnici appresi e sempre più ispirato a un rigore formale ed espressivo basato su criteri di sobrietà ed essenzialità, basti citare la fissità della mdp e la scelta di mantenerla all’altezza di una persona seduta sui tatami o a quella di un bambino. Ma non si trattava solo di decisioni che riguardavano alcuni procedimenti tecnici. Esse esprimevano una propria personale visione del mondo ispirata alla tradizione filosofica e spirituale del buddismo zen in cui concetti come mu (vacuità, assenza) e mu-jo (impermanenza) costituivano dei principi cardine. I film di Ozu hanno costituito e rappresentato questa sua visione del mondo.
A partire dai primi anni trenta – penso a Il coro di Tokyo (1931) – Ozu fa propria la cifra di una delicata e toccante umanità, descrivendo le storie della gente comune (Shomingeki). È un genere che certamente Ozu non inventa e trova già frequentato da altri, ma che a suo modo reinterpreta e traduce attraverso la sua levità particolare, il suo sguardo distaccato, obiettivo, che lascia emergere la realtà così come essa si presenta.
Dallo Shomingeki Ozu non si è mai allontanato, descrivendo le classi sociali più umili nei film degli anni Venti e Trenta per passare alla classe media nei film degli anni Quaranta e del dopoguerra. All’interno di questo genere di cinema contemporaneo l’obiettivo del regista si focalizza fin quasi da subito sulla famiglia giapponese che viene seguita nel corso di più di tre decenni nelle sue mutazioni a volte più lente e a volte improvvise e travolgenti.
La figura del padre è indubbiamente in primo piano e risalta in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni attraverso le opere dell’autore a partire dai film più vecchi fino agli ultimi. Come spiego nell’introduzione al libro, nel corso degli ultimi anni ho curato vari incontri pubblici in cui i film di Ozu sono stati visti e discussi presso la biblioteca comunale della mia città. Di tale lavoro di analisi filmica condivisa ho mantenuto ed elaborato alcune riflessioni che considero interessanti e che riguardano la figura paterna prendendo spunto anche dagli studi di alcuni autori di psicanalisi. Tra questi in particolare non posso non ricordare l’amico Giancarlo Ricci, recentemente scomparso, che ha partecipato a molti di questi eventi dando sempre con la sua consueta umiltà, nelle vesti di un anonimo partecipante, il suo contributo profondo e prezioso. Da questo punto di vista il libro è anche un tentativo di approfondimento sul tema del padre che raggiunge la contemporaneità e il nostro contesto culturale attraverso lo specchio di una civiltà “altra” e lontana, oltre che di una fase storica che ci ha preceduti.
Il primo capitolo è dedicato agli anni del muto e il padre si caratterizza per la sua lotta quotidiana volta a garantire la sussistenza materiale della propria famiglia. È un padre limitato e difettoso ma anche sensibile e umano. Egli subisce le recriminazioni e a volte i rimproveri dei figli che non si rendono ancora conto di quanto il discorso sociale imponga le sue leggi aspre e dure a cui il genitore deve soggiacere, a volte patendo umiliazioni nella sua dignità pur di mantenere il suo posto di lavoro: Il coro di Tokyo (1931), Sono nato, ma… (1932). In alcune opere di questo periodo il padre è un perdente dal punto di vista sociale (disoccupato, attore ambulante fallito, perdigiorno alcolizzato…) ma conserva comunque un candore particolare che si rivela per lo più quando entrano in gioco i suoi sentimenti paterni.
Il padre del periodo bellico è una figura che spicca per la sua caratura morale da cui promana una certa gravità e austerità che però non annullano il suo lato umano e affettivo. Egli segnala i valori a cui riferirsi e che ritrova nella tradizione degli antichi. Il contesto culturale è segnato profondamente dal confucianesimo di cui uno dei principi cardine è la pietà filiale. Il padre va onorato e occorre riconoscere il debito che nascendo si contrae nei suoi confronti. D’altra parte il padre – ma anche la madre: Figlio unico (1936) – si sacrifica per il figlio, esercita un lavoro ingrato con poche soddisfazioni, costretto a vivere a una grande distanza da lui, per permettergli di studiare. Egli si rivela come un autentico eroe del quotidiano, assolvendo con dignità e umiltà il suo compito di ogni giorno solo per poter vedere un giorno il figlio felice di aver trovato a sua volta la sua strada. La gioia del padre si alimenta e si riflette in quella futura del figlio. Illuminanti a tale proposito sono le parole del protagonista di C’era un padre (1942), Horikawa,che prima di morire dice al figlio Ryohei: «Fai sempre del tuo meglio, come tuo padre, che ha fatto tutto quello che ha potuto… Sono felice! Ho tanto sonno…».
Il padre del dopoguerra è invece una figura più complessa che si incarica di fare da ponte e da mediatore tra ciò che è del passato e merita di rimanere e ciò che sembra essere il futuro nel bene e nel male, come promessa o come incombenza. Il Giappone è un paese che esce sconfitto e umiliato dal conflitto bellico, occupato militarmente da una potenza straniera che impone anche i suoi modelli culturali. Modelli che progressivamente vengono adottati dalla popolazione e soprattutto dalle giovani generazioni. Di ciò risente e patisce in primis l’istituzione familiare tradizionale. La grande famiglia (ie) si sfalda e sul modello occidentale diventa famiglia nucleare. L’azienda e i rapporti con i colleghi prendono, in una certa misura, il posto della famiglia stessa, parassitandone l’offerta di un’appartenenza a un corpo sociale, istanza a cui l’uomo giapponese è molto sensibile. La conseguenza è che i padri rimangono la maggior parte del tempo lontani da casa e dai figli.
Il padre dei primi film di Ozu del dopoguerra è una presenza equilibrata e rassicurante, è sempre un uomo dedito al suo lavoro e custode dei valori della tradizione che però non può esimersi dal confrontarsi con un cambiamento che si fa ineluttabile. Cambiamento dovuto ai tempi, certo, ma anche al trascorrere della vita stessa, delle scelte che devono essere fatte, che i figli devono fare per trovare il loro posto nel mondo. Si tratta – prima ancora di un cambiamento culturale e sociale che tuttavia fa da sfondo, e che in certi film pare prevalere – di un cambiamento insito nelle leggi universali che reggono la natura, la vita degli esseri viventi. I figli (e le figlie) un giorno quando saranno cresciuti prenderanno la loro strada, si sposeranno, si allontaneranno dal nido familiare, è inevitabile… Una sensazione di perdita e di solitudine si fa presente. Non è così solo per l’allontanamento dei figli ma anche per quel processo inesorabile che accompagna l’esistenza di ogni realtà creata che ha necessariamente un inizio, un fiorire, una maturazione e una fine.
Il sentimento estetico e spirituale che l’uomo giapponese prova dinanzi alla provvisorietà (mu-jo) anche delle cose più belle e sublimi, e che unisce l’accettazione serena e una dolce tristezza, è quell’atteggiamento contemplativo che la tradizione zen chiama mono no aware. I padri di Tarda primavera (1949), di Inizio d’estate (1951) ma anche di Viaggio a Tokyo (1953) vivono ed esprimono questa profonda spiritualità che riflette senz’altro quella del regista che in loro trova degli alter-ego in cui rispecchiarsi. Ma negli ultimi film e in particolare nell’ultimo, Il gusto del sakè (1962) pare di cogliere qualcosa di più di un raffinato atteggiamento estetico: un aspetto tragico in cui si accampa il dolore del padre, una faglia di dolore che non può e non vuole placarsi. Dentro una realtà sociale in radicale cambiamento, in cui la preziosa eredità degli affetti familiari viene minata fin nelle sue fondamenta, vi è una dimensione che si radica su di un piano più metafisico e universale e che riguarda le leggi eterne della vita e della morte, pare dirci Yasujiro Ozu.
Non sono solo le potenti trasformazioni della società giapponese a porre il padre dentro un’esperienza continua di perdita e di lutto, è qualcosa di più profondo. Non è nemmeno il venir meno dei legami più intimi, dell’allontanarsi delle persone a cui si è più affezionati, come era avvenuto per l’anziano padre Somiya dopo il matrimonio tardivo della figlia Noriko in Tarda primavera. Qui si coglie qualcosa che riguarda il senso della trascendenza. Il padre ne è il silenzioso testimone, e non può non esserlo, dato che è proprio questo il suo compito. Dal suo silenzio, il padre si fa indicatore di un Oltre. Un compito altamente nobile e spirituale che lo pone sulla breccia. Un mondo sta morendo, forse un altro sta per nascere e lui è solo, sulla breccia. Non è un eroe, neppure un eroe del quotidiano come Horikawa, non lo è più. Se il suo avanzare tra i corridoi è fiaccato e reso instabile dal troppo sakè, il suo sguardo è lucido: egli guarda in faccia la fine e il dopo, la morte e l’Altrove, è una sentinella che non si stanca di fissare l’orizzonte e di scrutare il sentiero dove sono impresse le tracce dell’Assente.
Milano, 11 giugno 2020
[1] Il libro è disponibile nei principali store in formato PDF, epub e mobi-Kindle, e in edizione cartacea richiedendolo all’editore.