Di male in peggio

Scrittore supremamente eccentrico, persino nel conto degli eccentrici”, come l’ha definito recentemente Massimo Onofri recensendo su “Avvenire” il suo “Viaggio di nozze- e sedazione ” edito da Archinto, a 91 anni Vittorio Orsenigo rimane una delle sicure  promesse della letteratura italiana. Un eterno “puer” con un grande avvenire dietro le spalle? Certamente, ma a patto d’intendersi: è infatti alle nostre spalle, schivando le secche delle mode imperanti, che la prosa di Orsenigo tesse i suoi complotti con il futuro. Lo dimostra questa scelta di prose brevi che fanno parte della raccolta inedita “Di male in peggio”. (R.B.)

 

Lacrime ospedaliere

 1

Delle lacrime ospedaliere importa poco a nessuno. Interessati alla spiacevole questione i cosiddetti pazienti che di pazienza, lo sanno bene medici e infermiere –  ne hanno poca. Del resto, se i medici si lascassero prima impressionare e poi sviare dalle corruttive lacrime di chi giace nei letti di corsia o in quello delle camere singole pagate a caro prezzo dal paziente facoltoso o nemico della compagnia, a fronte delle ineludibili regole del mercato, il loro contributo alla sanità dei corpi e delle menti sarebbe compromesso in forme temibili e nemiche della Società.  Figuriamoci dell’etica.

2

Scuole, abitudini, frequentazioni: i ragazzi che lavorano nella bottega di Giotto o in quella di Cimabue, imparano: a volte Giotto e Cimabue concedono loro di dare gli ultimi tocchi allo sfondo.

Controvoglia si frequenta la scuola, dell’Ospedale s’incorporano nel corpo del paziente riluttante abitudini, odori, orari e tutto il resto. S’impara a decifrare il linguaggio dei medici e quello delle infermiere, diversissimi fra loro come il dialetto siracusano e quello di Padova: il neo-Archimede e il neo Sant’Antonio.

Le infermiere di notte sono bravissime nei sussurri di conforto: se il paziente è sordo o sordastro non capisce tutto ma è bravissimo a percepirne l’attenzione affettuosa. Così, per riconoscenza, finge di non aver perso una sillaba di quel che gli hanno detto infilandogli o sfilandogli l’ago della flebo.

Ieri notte la nuova infermiera di notte si è chinata sul paziente ed ha sussurrato sul gutturale. Il paziente che da sempre vede sempre nero nelle faccende del mondo immagina subito la sua storia: tumore alla laringe, corde vocali semi distrutte: quel tono di voce, –ormai, è quanto resta alla poverina per comunicare.  Non essendo benestante, per sopravvivere accetta i turni di notte.

Stacca alle sei e trenta del mattino quando albeggia e l’Ospedale è già colmo di suoni: entra, mi saluta con la voce di chi doppia la donna fatale della commedia americana. Chiede come va, sorride, dice che la giornata è calda ma bellissima.

La notte sussurra sul gutturale per non disturbare i dormienti

Vittorio Orsenigo
Vittorio Orsenigo

 

Tordo balordo

La divulgazione scientifica qualche volta sembra un mostro incretinito e pretenzioso che, ad uso del perfetto cretino, ti riempie la testa di cose mezzo vere, mezzo false e, quasi sempre esagerate, sempre lì per involarsi, abbandonare la sfera terrestre con la sua beata atmosfera (sennò come respiri?) e andare in giro nello spazio con sosta d’obbligo, nostro satellite. La luna dei poeti e dei divulgatori scientifici –  spiace dirlo –  fanno a pugni ma poi, dopo essersi spaccato reciprocamente qualche dente e reciprocamente rotto il setto nasale come messo in evidenza dagli sceneggiatori del West perduto e bramosamente cercato, si abbracciano virilmente e tornano ad essere amici.

Nel lavoro di ogni divulgatore scientifico spararle grosse fingendo di raccontare la verità nuda e cruda è assolutamente normale, anzi, assolutamente necessario. Ogni clan ha le sue regole, la sua cultura, i suoi fuochi tribali, eccetera.

Quel che manca, in ogni caso, è la testimonianza diretta. Purtroppo, la realtà fa questo ed altro per rendere amaro anche il dolce più dolce e squisito nella sua squisitezza: con le sue verità vergognosamente esibite tarpa le ali e, quando ci riesce, pratica la castrazione.

Premessa lunga, lo so, ora torno al “Tordo balordo”. Era per me quel che – per voluta mancanza di precisione –  chiamiamo una figura retorica dietro cui si nascondevano troppe cose. A me e a mio fratello piaceva associare l’immagine dell’uccello tordo ambito dai gestori dei paretai e dai loro concorrenti cacciatori autorizzati o di frodo (alla fine tutto finiva nel carnaio) a quella di un idiota patentato da temere oppure odiare. La vita e le circostanze ne combinano di guai, formalizzarsi è ridicolo.

Sto scrivendo del “Tordo balordo” e della testimonianza oculare perché ieri, qualcosa ha urtato dall’esterno il vetro della mia finestra. Sul momento non ci ho fatto caso, avevo ancora sonno ma, in tarda ora canonica sono andato a vedere scoprendo che si trattava per l’appunto di un Tordo insolito e, per l’appunto, balordo volatore notturno. Balordo o, a dir poco incauto.  Il tordo non è un uccello notturno come il pipistrello portatore di radar che della luce non ha affatto bisogno.

Il tordo morto era bellissimo. Bellissimo ma, ma come succede a ogni esser privato della vita, rigido e molto sulle sue.

L’ho pianto e compianto. Lo piango e lo compiango anche in questo preciso momento.

  

 

Giovanile inadeguatezza

Inadeguatezza o meglio colpevole ingenuità, scemenza allo stato puro. Nel lontano 1954, dopo tanti morti civili e militari, ricordo di avere offerto a un giornale del Partito Comunista una mia puntigliosa relazione sul tema, sempre urgente, delle Sirene.

Non di quelle che suonavano quando gli aerei alleati carichi di spezzoni incendiari e di bombe   stavano per sganciare il loro carico su Milano ma del genere sessualmente ben dotato e voce intonata capaci d’incantare i marinai e trascinarli con loro negli abissi.

Per amarli, per divorarli, per farne che?

Tema, dal mio non condiviso punto di vista, di stretta attualità.

Senza commenti la mia proposta editoriale è stata rifiutata

La gente è proprio strana.

 

 

Poetesse

Ce n’è una che, svelta come poche delle sue colleghe, d’estate va in campeggio: versi a parte e come fra parentesi, a causa del turismo estivo sempre più inquinante, racconta di aver dedicato buona parte della sua rude vacanza a ripulire l’area intorno alle tende da escrementi d’ogni genere: dai plastici, ai cartacei, agli umani che si distinguono facilmente dagli analoghi imputabili a capre, pecore, cervi e caprioli.

 

 

Anonimo

Anonimo per modo di dire visto che ha un nome e cognome molto precisi e da nessuno, almeno sino ad ora, messi in discussione: il mio.

Sono dunque io a passare brutti giorni e notti ancor più brutte in una camera ospedaliera dotata, lo ammetto, di ogni sconfortante comfort ma non puoi fare un salasso a una pietra o a una rapa e di ciò, sarei troppo stupido se mi lamentassi.

Purtroppo Il sonnifero che mi somministrano alle ore ventuno e trenta augurandomi buonanotte è portatore di sonno come può esserlo un gelato al limone o un blando decotto alla camomilla. Tuttavia il decotto alla camomilla, con il suo buon profumo aveva, un tempo ormai lontano, il merito di ricordarmi l’infanzia, da tanti odiata e da me amatissima, tanto è vero che mi è non poco seccato nel crescere, nello sviluppami, nel diventare adulto, nel dover lavorare e tutto l’abbondante resto esaltato, ai due estremi della fune, tanto dai buoni scrittori e poeti (scrittrici e poetesse) che dai ribaldi sceneggiatori della televisione.

I dolori fisici son quel che sono ma, a volte, forse per riprendere fiato e tornare poi ancor più ferocemente alla carica, si assentano brevemente, probabilmente per fare pipì.

Età, gravità dell’intervento chirurgico e così via fanno di me quel che vogliono: non sarà granché ma è innegabile che ci sappiano fare.

All’una del mattino e in attesa dell’alba che non ha la minima fretta di venire e se la prende comoda, non so bene perché ho pensato ai Cosacchi del Don, al Tamarindo Erba (ormai da pochi o nessuno conosciuto malgrado i suoi notevoli meriti) e al cosiddetto e smunto, Equo Canone.  Un terzetto davvero male assortito.

 

 

Maneggioni

Maneggia una clava da bruto: presto sarà un assassino. Maneggia la penna, è uno scrittore a tutti gli effetti.

Agosto in Val di Non per me gelido ma c’è chi va in giro con i calzoni corti da mare, Bermude o semi ‘Bermude e una camicia leggera aperta sino al quarto bottone. Sporgono peli.

Ieri, alle tre del pomeriggio, il figlio dell’albergatore che vive in un’antica casa del cinquecento con la base a zampa d’elefante si è rotto la testa andando contro il muro di pietre con il suo pacifico scooter ed è morto, dicono, sul colpo

Funerali rapidi.

Il giorno dopo, al riparo da questi curiosi rigori invernali fuori stagione, Gran Coro degli Alpini. Canzoni vecchie, anche di montagna, ma non solo. Ingresso libero.

 

 

Antropofagia virtuale

Così come passeggiando ci s’imbatte talvolta in un antico compagno di banco il cui volto non è del tutto cambiato rispetto a quello che era ben vivo e frizzante nella nostra memoria, per cose da poco ma strettamente connesse all’età giovanile piena zeppa di deliziosi inciampi, leggendo ci s’imbatte sia nei personaggi del libro, sia nelle fedeli parole accucciate ai loro piedi che, nella partita sarebbe sbagliato considerare alla stregua di semplici ‘comprimarie’. Il loro nome in cartellone spicca in forme tali da non poterle facilmente dimenticare.

Una delle tante (incontro casuale, niente graduatorie), è divorava e, a divorare non è una fiera o un affamato umano ma chi, da lettore, non bastandogli quanto in concreto sta facendo, preso da furore, divora, sbrana, dilania.

Chi si trova d’improvviso al cospetto di quella parola ed è nello stesso tempo un fantasista involontario poco disposto alla moderazione, vede distintamente di fronte a sé l’occhio di Robinson Crusoe nascosto dalle frasche dell’isola tropicale intento a spiare tremebondo l’arrivo sulla spiaggia dei cannibali.

Peccato che – salvo poche e meritevoli eccezioni – con l’andare del tempo si attenui nel lettore la spinta a divorare.

Con l’andare del tempo (lo vediamo nelle grotte). la goccia scava la pietra, ma, purtroppo e in altri ambiti, fa di peggio.