Giuseppe Ungaretti, complice della nostra innocenza

Un poeta italiano enclave fra l’alfa e l’omega della poesia neoellenica del XX secolo

Quando New York non era ancora la big apple che oggi tutti conoscono, un ultra-millenario emblema di cosmopolitismo e integrazione si era già costituito sulle coste del Mediterraneo: Alessandria d’Egitto. L’eterogenia della popolazione aveva portato all’assenza di un sentimento patrio preciso, di una tradizione culturale definita, favorendo altresì una libertà di costume anomala per gli standard europei. L’unico spazio comune all’interno dei confini urbani non era un luogo o un edificio pubblico, ma una lingua, la lingua greca.

Assume i toni della favola pensare che in quella città fuori dal tempo, al tavolo di una latteria del boulevard di Ramleh, ogni sera Constantino Kavafis, impiegato part-time dell’Ufficio irrigazioni e massima voce poetica delle letteratura neoellenica di inizio secolo, sedesse al tavolo con i giovani redattori della rivista Grammata a cui spesso si aggregava un non ancora ventenne Giuseppe Ungaretti.

Costantino Kavafis
Costantino Kavafis

Ungaretti – nato ad Alessandria un quarto di secolo dopo Kavafis -, in tarda età, ricorderà il poeta greco con l’ammirazione di chi sapeva di essersi seduto non sulla spalla, ma accanto alla sedia di un gigante sentenzioso e assorto, ma pur sempre umile e affabile:

«non voleva che lo considerassimo più d’un compagno, sebbene ci fosse maggiore d’età e già dagli intenditori fosse salutato vero poeta. A volte, nella conversazione lasciava cadere un suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata, allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere».

Giuseppe Ungaretti
Giuseppe Ungaretti

La memoria si fa versi nella prima produzione dell’autore de Il porto sepolto e le lezioni desunte dal Canone Kavafis si delineano con saggezza sotto diversi aspetti: innanzitutto viene recuperata l’intenzione di scrivere una sorta di «Iliade rovesciata, in cui gli eroi sono sempre più grandi della loro caduta» (D. Grandmont), esempi fulgidi potrebbero trovarsi nella voci di San Martino del Carso o di Veglia che reagiscono strenuamente all’orrore della guerra, portando alla luce l’élan vital che abita chi sopravvive ad una catastrofe, parallelamente in Kavafis si potrebbero leggere Il dio abbandona Antonio e Troiani; la seconda influenza è presente, invece, nell’accento storicistico ravvisabile non solo nell’argomento trattato, ma soprattutto nella sua inclusione all’interno dell’assetto formale delle poesie, infatti costante della poesia ungarettiana è apporre una data che collochi il testo in una determinata dimensione cronica, proponendo un modo di poetare storico, che si concentri più sui particolari (τὰ καθ’ ἕκαστον) che sull’universale (τὰ καθόλου) – per utilizzare categorie aristoteliche -, eppure tale tipo di operazione talvolta era già stata praticata dallo stesso Kavafis in cui non è difficile rintracciare testi come Il gennaio del 1904 o Giorni del 1909, ’10 e ‘11.

Nel 1912 Giuseppe Ungaretti lascia l’Egitto ma porta con sé quel lampo di luce greca che Alessandria gli aveva donato per illuminare il mondo fra le due guerre, restando fedele alla lirica degli alberi delle nuvole e delle stelle di matrice arcaica. Questo bagliore sembra giungere alle isole dell’Egeo e avere la forza di irraggiare Odisseas Elitis, poeta ellenico e vincitore nel 1979 del premio Nobel per la letteratura, che scriverà un breve saggio sulla poetica di Ungaretti, contenuto in Carte scoperte (Atene, 1974) e pubblicato in Italia nella raccolta di saggi Il metodo del dunque (Roma, 2011, curatela di Paola Maria Minucci).

Odysseas Elytīs
Odysseas Elytīs

Nel suo lavoro critico Elitis si lascia andare all’autobiografia e confessa di accusare un forte senso di malessere ogni volta che si accosta alle mostruosità delle metropoli. Unico esorcismo possibile sembra allora fare o pensare semplici cose (mangiare del pane o pensare ad un’isola) per recuperare quella «sufficiente scorta di luce» che controbilancia il buio nel mondo. In questi casi la poetica ungarettiana sopraggiunge spontaneamente nell’animo del poeta greco per cercare di delimitare, nella complessa realtà che ci circonda, le linee della vita «in un disegno il cui limpido contorno, come il mare intorno a un’isola, ci lascia vedere meglio quale possa veramente essere il mondo degli uomini in tutte le epoche, una volta tolto il peso delle nostre vanità».

Il lettore profila un’immagine di Ungaretti come complice della sua innocenza, qualità che non concede scudi o armi contro ciò che quotidianamente subiamo, ma ci permette di osservare il mistero della vita e della morte con la certezza di essere mondi.

Il poeta di Mattina (M’illumino / d’immenso) e l’autore del Dignum est (ΣΤΗΝ ΑΡΧΗ τὸ φῶς, “In principio c’era la luce”) sono due uomini che hanno vissuto distintamente le loro esistenze, cercando di tracciare con i loro versi le traiettorie comuni dei raggi del sole mediterraneo: un sole onnipresente e intramontabile anche quando si è giunti al confine con l’abisso.

Giorgio de Chirico, L’archeologo (1927)

Pochi mesi prima di morire Ungaretti inseguirà ancora quella luminosa stella nella speranza estrema che una poesia possa fare deflagrare le tirannidi che ci attanagliano:


       Grecia 1970
       Roma, il 12 dicembre 1969

       Atene, Grecia, segreto, vertice di favola incastonata
    dentro il topazio che l’inanella
          Sul proprio azzurro insorta in minimi limiti, per esse-
    re misura, libertà della misura, libertà di legge che a sé
    liberi legge.
         Sino dal mare, dal cielo al mare, liberi l’umano verti-
    ce, la legge di libertà, dal mare al cielo.
        Non saresti più, Atene, Grecia, che tana di dissennati?
    Che tana della dismisura, Atene mia, Atene occhi aperti 
    che a chi aspirava all’umana dignità, apriva gli occhi.
          Ora, mostruosa, accecheresti?
          Chi ti ha ridotto a tale, quali mostri?

Culiano, la gnosi come thrilling

Per raccontare questo thrilling filosofico conviene partire di lontano, dalla fine degli anni venti, quando Mircea Eliade, all’epoca giovane studente rumeno, in futuro scrittore fantastico e storico delle religioni, conosce a Firenze Giovanni Papini e due storici delle religioni, il sacerdote Ernesto Buonaiuti e il professor Vittorio Macchioro, entrambi ai ferri corti con la Chiesa e col fascismo. In Italia raccoglie la documentazione per la sua tesi di laurea sulla Filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno e legge A history of indian philosophy di Surendranath Dasgupta. È la lettura di questo libro a suggerirgli una di quelle idee che decidono il corso d’una vita. Poiché la sua famiglia non può permettersi di pagargli gli studi in India, dove vuole trasferirsi dopo aver letto Dasgupta, Eliade scrive al maharaja Manindra Chandra Nandy di Kassimbazar chiedendogli una borsa di studio. Questi gliene offre una a stretto giro di posta. Poche settimane più tardi Eliade è a Calcutta e studia con Dasgupta. Impara rapidamente il sanscrito, scrive novelle, tiene un diario, studia lo yoga e la storia della filosofia indiana.

Passano 45 anni e un giovanissimo studente dell’est, Ioan P. Culianu, scrive a Eliade una bella lettera dagli abissi della Romania di Ceasescu. A Bucarest, gli dice, non potrò mai studiare, come vorrei, storia delle religioni. Eliade, il suo modello, un compatriota, non potrebbe procurargli una borsa di studio americana? È praticamente la stessa lettera che Eliade, nel 1927, aveva scritto al maharaja di Kassimbazar. Come ci sono offerte che non si possono rifiutare, ci sono favori che non si possono negare: Eliade si prende a cuore il caso. Riesce a procurare al giovane rumeno (il solo rumeno che sotto Ceausescu osi manifestare interesse per una materia antisocialista come la storia delle religioni e per un nemico del popolo come il fascistissimo Eliade) una borsa di studio italiana; il Dipartimento di Stato americano, temendo un’infiltrazione dei servizi segreti rumeni, risponde infatti picche alla richiesta di Culianu, che in Italia pubblica alcuni libri fondamentali sul dualismo, sull’identità tra religione e politica, sulla filosofia rinascimentale, e in particolare su Giordano Bruno e sulle tecniche della propaganda. Soltanto all’inizio degli anni ottanta Culiano ottiene un visto per l’America. È assistente e professore supplente d’Eliade all’Università di Chicago, dove lo storico delle religioni insegna storia del cristianesimo; alla sua morte, nel 1986, gli succede sulla cattedra. Tre anni più tardi, quando Nicolae Ceausescu e signora sono finalmente sbalzati dal trono, Culianu non s’unisce al coro dei rumeni esultanti, ma sente subito odore d’imbroglio. Soprattutto quando a Timisoara comincia la macabra saga dei cadaveri: centinaia d’oppositori assassinati e sotterrati in un campo, che la polizia politica rumena, passata agl’insorti, disseppellisce uno dopo l’altro (puro Bram Stoker) in diretta televisiva, all’ora dei telegiornali americani.

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L’inquirente dimezzato (Joan Petru Culiano)

Il 21 agosto 1989, su invito degli organizzatori del Meeting di Comunione e Liberazione che si tiene ogni anno a Rimini, Joan Petru Culianu partecipò assieme a Roberto Barbolini e al moderatore Pier Alberto Bertazzi a una tavola rotonda sul tema “L’inquirente nella letteratura, cioè il protagonista dell’indagine”. Dall’archivio di Riminimeeting (www.meetingrimini.org) riprendiamo la la trascrizione del suo intervento, con qualche taglio e il titolo redazionale L’inquirente dimezzato. Per la figura e l’opera di Culianu, ucciso all’Università di Chicago in circostanze misteriose (probabilmente legate alla politica rumena del dopo-Ceausescu) ad appena quarantuno anni, si rimanda al mirabolante saggio di Diego Gabutti Culianu, la gnosi come thriller che TheLivingStone è lieto di pubblicare.

L’INQUIRENTE DIMEZZATO

Sulla narrativa fantastica di Mircea Eliade

di Joan Petru Culianu

C’è una questione posta a tema anche in altri incontri di questo Meeting, come “Uomo animale paradossale e curioso”. Un’opinione diffusa tra i socio-biologi, è che quel che costituisce l’unicità della specie umana siano due tendenze in stretto rapporto tra di loro: la neofilia e la neotenia, due parole che appartengono al gergo dei biologi. Neofilia viene dal greco neos-nuovo e filia-amore, quindi amore del nuovo, curiosità, se si vuole; e neotenia dalla parola neotes, in greco infante. L’essere umano è tale perché è inquirente, perché è curioso del nuovo e della scoperta, ed è così perché è incline a restare giovane. Tra l’altro, i socio-biologi non esitano a mettere in relazione neotenia, cioè infantilismo, e perdita del pelo, allo scopo di continuare ad avere la pelle liscia come i bambini. E, se i maschi si radono la barba, è per conservare gli attributi degli infanti. Quindi l’essere inquirente va di pari passo con l’essere umano, e l’essere giovane, al punto che si può dire che è l’inchiesta a creare l’uomo e non l’uomo a creare l’inchiesta. La storia umana stessa appare come una lotta tra neofilia e neofobia, tra inchiesta al fine di scoprire e inquisizione al fine di arrestare la scoperta; tra indagine, esperimento nel campo del sapere e inchiesta poliziesca, per scoprire i desiderosi di cambiamento e mettere fine alla loro opera. Non mi stupirei se qualcuno vedesse in questa contrapposizione tra ricercatore e inquisitore anche una contrapposizione di sistemi politici. In questo Meeting si parlerà della Cina e della Romania, come rappresentanti di sistemi politici neofobi. Ma quel che c’è da ritenere da tutto ciò è che, quantunque di indagine si tratti in ambedue i casi, e quindi di soddisfazione dell’istinto neofilico umano, in un caso abbiamo a che fare con un’indagine per affermare la propria libertà, e nell’altro con un’inquisizione che mira ad arginare o sopprimere l’affermazione della libertà. In questo secondo caso, pur conservando l’aspetto dell’indagine, l’inchiesta è rivolta contro le sue stesse premesse neofiliche e finisce nella sclerosi totalitaria. Un teologo, chissà, potrebbe definire questa situazione inquisitoriale come male, o come demonismo (…).

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Trame – I mille fili dell’arte tessile

«Il mio cucire ha più merito degli scarabocchi di entrambi voi» sorride canzonandoli Fanny Brawne, musa ispiratrice del poeta inglese Keaton, rivolgendosi all’amato che la dileggia per le sue “opre femminili”. La scena appare nel film di Jane Campion Bright star dedicato alla tragica esistenza del poeta romantico inglese ed è un vero saggio (fra comunanza e forza metaforica) di ricamo e parola poetica

Non a caso la pellicola si apre con il primissimo piano di un ago che esce ed entra in una stoffa bianca e finisce con un’immagine speculare, un altro ago che penetra una stoffa nera. Fra i due aghi passano gli anni e irrompe la morte, perché John Keats muore a Roma, a soli 26 anni, il 23 febbraio del 1821. La ricerca della parola poetica di Keats crea la trama su cui Fanny ricama ossessivamente mentre lei si tramuta in anima e musa del poeta, spesso immersa in un brulichio poetico di farfalle, la rappresentazione grecadella psiche.

A Giulia Niccolai, cofondatrice della rivista Tam Tam assieme ad Adriano Spatola nel 1972, legatasi successivamente alla poesia concreta e visiva, sono bastati cinque rocchetti di filo rimbaudiano, uno rosso, gli altri blu, verde, giallo e nero tratteggiati a pastello su un foglio da disegn,, ma dalle cui spolette disegnate escono fili veri , per intrecciare la parola poema. È un’opera del 1974 e il filo si lega nuovamente alla parola poetica, certo con lo scarto semantico di finti fusi di filato solo dipinto, ma queste pure forme, con la presenza vivida di legami, rimandano alla traccia antica del filato e delle storie che si dipanano o ci confondono.

Forse che Ulisse si sia fermato a Ulassai in Sardegna? Maria Lai (1919-2013) è un’artista sarda, asciutta, caparbia, carismatica, senza veli. Proprio lei, che riprende a tessere e sprigiona nella gentilezza della forma delle sue opere una forza mitica e sorgiva, deve aver sentito voci di sirene e le ha trascritte nei suoi Libri cuciti, pagine nate fra gli anni ‘70 e riprese nei ‘90, tutte impunturate di fili che trasbordano come onde, code fuori dai margini, grovigli di storie che scivolano via.  Nei suoi Percorsi di invenzione Maria Corti narra come Ulisse si sarebbe rimesso in mare dopo aver domato i Proci a Itaca, come gli aveva profetizzato l’Indovino Tiresia nell’XI libro dell’Odissea:

«quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,/o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,/allora parti, prendendo il maneggevole remo ». Ed ecco che le nuove strade di Odisseo sulle tracce dell’antica via Herakleia portano anche in Sardegna, in un percorso tramato di invenzione che Maria Lai ha trascritto nella lingua dei fili magari, quelli delle barbe di bisso che solo in Sardegna ancora si filano, lunghi filamenti di grandi valve immerse nel mare.

Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi
Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi

Se Pontiggia nei Contemporanei del futuro afferma che i classici non sono alle nostre spalle, ma davanti a noi, che li si deve ancora raggiungere, anche la ricerca di Maria Lai ha avuto il passato come futuro: dai Ready-made del telaio, dal pane carasau, alle arti di ricamo e tessuti del passato arcaico sardo, dall’antico gesto della tessitura agli interventi ambientali. Tutti modi di «fare i conti con le madri » scrive Vanna Romualdi in Off Loom, un testo dedicato alle mostre della Fiber Art in Itali. E prosegue: «Aspetti che passano attraverso un sistema di cura e attenzione e pongono il fare al centro di relazioni essenziali con la memoria, la natura il tempo». Implacabile destino questo del tessere: all’inizio doveva ottemperare a requisiti di robustezza e leggerezza creato dall’arma femminile delle maglie, del colpo di spola che unisce madri e progenie come un cordone ombelicale, una tradizione che si annoda e si snoda nel tempo. Poi nel 900 tutte queste trame sviluppano lentamente una dimensione estetica.

Fili, intrecci, reti e nodi, ricami e uncinetti, tessuti e fibre, storie antiche del filare e la Berta che sempre filava, diventano materia e soggetto d’arte.

Certo sdoganare il manufatto per connotarlo come creazione artistica è stato un percorso difficile, soprattutto in Italia, per il pregio del suo tessile come arte applicata.

Dove finisce l’artigianato e dove comincia l’arte? È la domanda quasi ossessiva che si ripresenta fra gli studiosi della Fiber art o Textile art, Soft sculpture, Art fabric: «tutti nomi inglesi che non hanno ancora trovato una soddisfacente traduzione nella lingua italiana» , come scrive Lydia Predominato , artista che combatte il pregiudizio contro la manualità della Fiber art . L’artista è anche una delle promotrici con Bianca Cimotti Lami della prima mostra italiana di Off Loom, Fuori dal telaio nel 2000 e poi delle Biennali della Fiber Art di Ameglia.

Rompere resistenze culturali. Già la strada veniva dissodata nella «seconda metà dell’800 con il movimento inglese Arts and Crafts, proseguito con l’Art Noveau e, soprattutto, con le avanguardie del ‘900, Futurismo e Bauhaus in primis, Espressionismo astratto americano». I tessuti di Depero, il suo Arazzo festa 25, ritagli di pannolenci cuciti secondo un disegno dell’artista, narrazione quasi ludica di episodi bellici e il vestito antineutrale di Giacomo Balla. L’Arazzo dei leoni di Cambellotti, i tessuti di Mariano Fortuny e Gio Ponti che interviene nel sostenere il tessile come arte.

E poi i Sacchi di Alberto Burri, le tele tagliate di Lucio Fontana e i feltri di Joseph Beuys: l’artista –sciamano racconta che il feltro è per lui il tessuto dal potere salvifico che lo ha restituito alla vita. Ferito gravemente durante la seconda guerra mondiale, viene salvato da una tribù di Tartari che lo raccolgono morente e lo avvoltolano in un panno di feltro, spalmato di grasso. Feltro e grasso ricompaiono in decine di sue performance.

Nel 1958 al Moma di New York si allestisce la mostra Textile Usa. Per la nuova progettazione tessile.

La storia italiana nella genesi del movimento della Fiber Art procede a punti lenti e ha un momento nodale nella Biennale Internationale de la Tapisserie Ancienne et Moderne di Losanna, progettata dall’ artista-arazziere Jean Lurçat con Pierre Pauli. Nascono opere tessili, Trame d’artista, riprendendo il titolo di un libro critico informatissimo di Marina Giordano sul tessuto nell’arte contemporanea. Si va alla ricerca di quello scarto emblematico che rende unico l’operato tessile dell’artista rispetto alla creazione dell’utile. Ma anche in questo tentativo di trovare i profili di opera d’ arte diversi dal prodotto di artigianato la pezza della fiber art si trova imbastita con la grande corrente del design.

Marisa Merz – Senza titolo - s.d.
Marisa Merz – Senza titolo – s.d.

La diffusione del tessile si capillarizza nella seconda metà del Novecento, rinverdisce linguaggi anche sulla spinta italiana dell’Arte Povera che rivaluta i materiali e  gesti artigianali poveri come il fare la maglia, ma con quale nuovo empito: Marisa Merz sferruzza,  filo certo, ma di rame: dalle sue mani nascono reti modulate in tasselli geometrici , trapezoidali o triangolari disposti ad esempio in forma crescente l’uno dentro nell’altro secondo rapporti matematici,  in una progressione essenziale, primordiale. O utilizza matasse di canapa che pendono come lunghi capelli su una rete metallica, sorta di scalpi galleggianti, elementi naturali e astratti, richiamo ad un troppo umano e al suo esser perduto.

Marisa Merz - Untitled, 1966 - Wire mesh and hemp
Marisa Merz – Untitled, 1966 – Wire mesh and hemp

Il medium tessile con gli anni 70/80 è sdoganato e si possono individuare alcune linee cruciali del rapporto tra le pratiche contemporanee e le tecniche del filo. Permane la memoria del tessere e ricamare, quella della tradizione lenta e rigorosa associate a Penelope o Creusa, tutte fuso e focolare domestico. Ma questo filare e cucire è sottoposto a un fitto interrogarsi sull’ “art and craft” :  ecco  il  ricamo maniacale di Francesco Vezzoli , “l’artista delle lacrime” . Si è divertito, con un certo sadismo, a far piangere le sue dive, lacrime sincere nel deserto dell’apparire, ricamate in colori pastello su foto in mortuario bianco e nero. Vezzoli ricama con perizia artigianale, per chi ha visto nel taglio e cucito un riscatto per quelle pratiche basse, di femminea quotidianità, un riscatto nei confronti di un’arte maschile troppo sicura di sé.

Ma c’è chi ha fatto del ricamo tradizionale con macchina da cucire un percorso sapiente per dare ascolto ai tessuti, alla loro anima tattile. Nessun richiamo alla pittura in Marialuisa Sponga, anima della Fiber Art italiana, da poco scomparsa. Forte controllo formale e la macchina che ricama assemblando non solo materie, stoffe della tradizione, ma si espande al polietilene, al cellophane, a metalli, reti, assemblaggi con punti antichi, affermando una nuova estetica tattile e visiva.

Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003
Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003

Altri artisti hanno prediletto l’uso della forma purissima delle fibre. In un lavoro che sfida la percezione Gabriel Dawe, artista messicano, crea spiazzanti arcobaleni indoor, spettri nati da un’apparente visione prismatica di un raggio di sole, confinato entro le quattro mura di uno spazio della galleria. Da vicino, i trucchi dell’artista si rivelano. L’opera d’arte è fatta di ordinari fili da ricamo agganciato dal pavimento al soffitto in sovrapposizioni replicazioni e variazioni cromatiche. Una perizia artigianale altissima quella di Dawe che crea, come in un miraggio, un’illusione ottica che incanta i sensi, distorcendo le percezioni; è quasi come se l’artista ricamasse l’aria.

Gabriel Dawe
Gabriel Dawe

E ancora fili che diventano ossessivi, intricati, spesso rossi di un magenta da vasi sanguigni o all’opposto così inchiostrati come quelle ragnatele pendule dei bui sottopassi sono quelli di Chiharu Shiota, giapponese trapiantata a Berlino. Certo i suoi sono fili di ragno e rappresentano un risorgente mito di Aracne, la giovane fanciulla che sfidata a duello la dea Atena per la creazione di una tela perfetta, ne viene punita e trasformata in grosso ragno. L’impressione a Venezia, all’ultima Biennale, visitando nel padiglione giapponese l’installazione di Chiharu Shiota, era quella di immergersi nel rosso viscoso dei fili penduli e molli, dai quali sgocciolavano chiavi che l’artista si è fatta spedire da tutto il mondo. Sotto, due imbarcazioni derelitte, carcasse che mai avrebbero riportato i proprietari di quelle chiavi ad un loro porto o posto sicuro. Patria ricordi sentimenti vita e anime si sarebbero imbozzolate e perdute.

Chiharu Shiota - The Key in the Hand - Biennale di Venezia 2015
Chiharu Shiota – The Key in the Hand – Biennale di Venezia 2015

Ci possono essere ragnatele salvifiche? Secondo alcuni aracnologi, i ragni usano riferimenti astronomici come coordinate per tessere le tele, come la posizione della Luna o la polarizzazione della luce nel cielo. Gli astrofisici hanno individuato un collegamento tra le ragnatele e l’origine dell’universo e Tomas Saraceno, artista argentino che crea architetture utopiche, vagabondando tra le teorie sulla genesi delle galassie e la logica di crescita delle ragnatele, ha ideato un’installazione dal titolo 14 Billlions (2010) dove ha digitalizzato, ricostruito e rielaborato una ragnatala tridimensionale in una tessitura spaziale fatta di fili neri di nylon, immersa in un flou visivo e bioacustico. La costruzione ragnesca nasce da un’ibridazione fra la logica costruttiva di una vedova nera e quella di una tegenaria, sovrapposte e ribaltate in una specie d’intersezione galattica. Il tutto immerso in una stanza lattiginosa, che dilata lo spazio. La ragnatela sembra essere tanto scolpita quanto disegnata nell’aria e gli spettatori possono entrare dentro, strisciando sotto i fili, a … rivedere le stelle.

Photo credits: catalogo della mostra 14 Billions (Working Title), Skira, Milano 2011

Ritrovare Europa

L’Europa è legata al Mediterraneo, io credo, nel senso che l’Europa è un luogo del Mediterraneo. Ma il Mediterraneo è un luogo dai confini incerti. Chi lo vuole stretto fra i Dardenelli e le Colonne d’Ercole vive nell’economia organicistica del potere, senza avvertire l’estensione dell’apparato psichico. L’organicismo risponde così alla logica religiosa del discorso, che ha spartito e diviso l’Europa lungo tre punti cardinali: la Croce, il Muro (del pianto) e la Ka‘ba (la pietra nera). Manca il quarto punto, il più importante, relativo al linguaggio e dunque insituabile, incollocabile in una qualsiasi spazializzazione o riduzione del Mediterraneo a una ideologia, a un rituale o a una nazione che sono i tre punti ordinali della religione. La distanza fra la mitologia e la religione è molto breve, ma la loro distanza imposta dalla visione religiosa del mondo invece è infinitamente grande: favola l’una, Verità l’altra, senz’accorgersi della verità della favola.

Carta Geografica del Mar Mediterraneo
Carta Geografica del Mar Mediterraneo

Nell’ordine del linguaggio, quell’ordine che la psicanalisi indica in una topologia attraverso cui è possibile tracciare una geografia delle regioni dello psichico, il Mediterraneo si estende, a Oriente, almeno fino a Bagdad. E ci fu un tempo in cui, nella sua estensione sembrava non avere confini.
Nello psichico ritroviamo il tempo in cui nacque un’altra Europa che non era quella cristiana del Sacro Romano Impero e dei suoi confini tracciati dalla Croce: l’Europa delle lingue. Lo si può cogliere immediatamente, una volta che proviamo a tracciare, sia pur velocemente, la geografia del Mediterraneo a partire dalla nascita delle sue lingue attuali. È l’Europa che nasce da una esperienza che ha la sua origine nella Spagna araba. Ed è un’esperienza che si propaga in tutto il Mediterraneo.
Alfonso X di Castiglia, il Savio, nel XIII secolo costituì dei collegi di traduttori dall’arabo, dall’ebraico e dal greco. Vennero tradotte in latino centinaia di opere filosofiche, matematiche, naturalistiche, astronomiche, anatomiche, mediche, alchemiche e tutto quanto concerneva la conoscenza da Platone e Aristotele fino a quel tempo. Quelle traduzioni si diffusero in tutta l’Europa dall’università di Parigi a quella di Colonia, da quella di Oxford a quella di Bologna. E in Spagna si moltiplicarono i «collegi» dei traduttori, da Toledo a Siviglia a Barcellona. Ma già allora non era un’esperienza nuova.
Un secolo prima, in Sicilia, vi fu la più grande fioritura dell’arte e della cultura sotto il regno dell’imperatore Federico II. Poeti e sapienti arabi, ebrei, greci e latini composero, scrissero e tradussero. La grande esperienza della poesia in Sicilia diede la prima forma della lingua italiana. E con la poesia si rinnovò anche il diritto, la matematica e la filosofia. Ma anche qui l’esperienza non è nuova perché Federico II sposò Costanza d’Aragona che dalla Spagna portò l’uso della sua corte, la sua intelligenza e la sua gaiezza e anche i poeti provenzali. Così, sempre a ritroso, troviamo la Scuola medica di Salerno che qualcuno vuole fondata già nel IX secolo e che una leggenda racconta essere stata istituita da quattro medici: l’arabo Adela, l’ebreo Helinus, il greco Pontus e il latino Salernus; anche presso la scuola salernitana la grande attività fu la traduzione da una lingua all’altra delle opere mediche contemporanee e dell’antichità. Queste traduzione raggiunsero Montpellier e Parigi dove si fondarono le importanti e celebri scuole mediche di Francia. Ma prima ancora troviamo l’importante centro di traduzioni del califfato di Cordova dove lavoravano a tempo pieno 200 traduttori. E durante l’espansione araba a Nord della Spagna, per quel poco che ci restarono, nell’VIII secolo, nascono e si sviluppano i poeti provenzali sotto l’influsso di quelli arabi di Andalusia, quegli stessi provenzali (i trobadores) che Costanza d’Aragona portò poi in Sicilia.
Tutto questo movimento intellettuale durò alcuni secoli fra l’VIII e il XIII, fino a quando la chiesa cattolica soffocò tutto sotto il suo potere, nel bagno di sangue della Provenza e nel soffocamento del movimento di Francesco in Umbria il quale, se non fu cruento, non fu meno drammatico per la storia della cultura e della spiritualità europee. Quel vivere secundum formam sancti evangelii operato dal movimento di Francesco riproponeva altrimenti i valori della spiritualità catara. Ma da allora non fu più possibile nessuna spiritualità al di fuori dell’ortodossia ecclesiastica, e la ragione di stato, ovvero la ragione della forza, fu la sola ragione ammessa come tale nella relazione fra gli uomini: secundum formam ecclesia.
È una veloce incursione nella storia, me ne rendo conto. Ma qui serve solo a sottolineare quel quarto punto d’orientamento che abbiamo detto essere insituabile perché esiste nel linguaggio e che orienta il Mediterraneo nella lingua. Il Mediterraneo non è cristiano. E l’Europa non è la cristianità, come hanno voluto, e ancora si vuole. O almeno, sono cristiani quel Mediterraneo e quell’Europa che si sono chiusi in difesa dietro le resistenze del potere. È l’Europa germanica e romana del Sacro Romano Impero. Ma nella lingua l’Europa e il Mediterraneo sono greco, ebraico, arabo e latino. È l’Europa nata in Andalusia, nella Spagna araba, e in Sicilia.
La nostra Europa nata dalla traduzione.
La traduzione ha comportato la fine dell’uso della lingua latina. Quei traduttori che traducevano l’arabo, il greco, l’ebraico e il latino hanno di fatto creato le prime lingue che costituiranno l’Europa, il castigliano e il catalano, il provenzale e il siciliano. Perché il latino, diventato troppo rigido, non era più in grado di soddisfare le esigenze di rappresentazione del linguaggio e cioè quella nuova organizzazione dell’immaginario che veniva formandosi, soprattutto a opera della poesia e della matematica, nell’incontro delle lingue e dei linguaggi. Così come la “latinità” nasceva dalla traduzione in latino dell’Iliade, l’Europa nasceva dalle traduzioni di quattro lingue e di quattro alfabeti differenti. Le nuove lingue aprivano un’altra via della sessualità: la «nuova fissazione» di una trascrizione, che si apriva sulla rappresentazione angelica della donna, di matrice araba e musulmana che i trovatori cristiani di Provenza prima e i siciliani poi cantarono nella loro poesia, avviava la dissoluzione del Sacro Romano Impero e del potere totalitario della religione sulle coscienze.
Con pari impegno, e con la stessa giocosità, occorrerebbe oggi, e forse ancora più d’allora, tanto coraggio e tanta intelligenza. Occorre di nuovo rompere con la supremazia dei discorsi religiosi e restituire all’Europa la sua vitalità che è data dal Mediterraneo e dall’incontro delle lingue e degli alfabeti. E questo oggi è possibile solo pensando a un’estensione dell’Europa stessa, in grado di accogliere i popoli e di rimarginare la frattura fra Europa e Asia. E dunque riconoscere che la Turchia, ma anche il Libano, Israele e la Palestina sono parte dell’Europa. Lo sono perché rappresentano uno sviluppo dell’Europa per gl’intrecci che a vario titolo hanno legato questi luoghi del Mediterraneo fra di loro nel corso di questi nostri tremila anni di storia. Ritrovare così il grande disegno dei nostri padri antichi, da Omero e Virgilio, da Federico II a Dante Alighieri e infine ai rinascimentali. Restituire vita, poesia e sorriso a quest’Europa, aggredita dalla follia e dalla stupidità delle religioni, intristita e affaticata dal peso dei paramenti ecclesiastici, colpita a morte dall’ignoranza, dall’avidità e dalla superbia.

Ibn al-Hayṯam (Alhazen) e l’invenzione della prospettiva

Un recente e affascinante saggio dello storico dell’arte tedesco Hans Belting (Florenz und Bagdad. Eine westöstilche Geschichte des Blicks, 2008; pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2010 col titolo I canoni dello sguardo) ha rilanciato un’ipotesi che una nutrita schiera di studiosi di area anglosassone – David Lindberg, Jack Greenstein, Mark Smith, David Hockney, Charles M. Falco – aveva già formulato a partire dai primi anni 80 del secolo scorso: l’invenzione della prospettiva nelle arti visive fu solo un frutto miracoloso del genio rinascimentale italiano, o non fu piuttosto il punto d’arrivo di un lungo cammino teorico iniziato poco dopo l’anno Mille grazie al grande fisico e matematico arabo Ibn al-Hayṯam, ossia quell’Alhazen che fu autore del più importante trattato di ottica del Medioevo?

Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)
Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)

Prima di esaminare in breve la questione, vorrei dire subito quello che in sostanza ne penso: l’indagine di Belting è giusta nei propositi e meticolosa nelle argomentazioni, anche se forse eccede nella certezza delle conclusioni. Chi può infatti assicurarci che sia stata proprio la Perspectiva di Alhazen, filtrata dagli studi fisico-matematici di Biagio Pelacani – che morì nel 1416 – a ispirare direttamente le teorie del Brunelleschi, dell’Alberti, di Piero della Francesca e del Ghiberti? Belting definisce Pelacani come “l’inventore dello spazio matematico”, ed è possibilissimo che i nostri teorici della prospettiva abbiano attinto a piene mani dal suo spazio visivo perfettamente alhazeniano (la geometria piramidale dei “raggi visivi”); ma d’altra parte è sufficiente dare uno sguardo al pavimento disegnato da Ambrogio Lorenzetti nella Annunciazione – che è del 1344 – per renderci conto di quanto il cammino della prospettiva pittorica fosse già progredito in Italia ben prima del Quattrocento.

Chiarito questo punto, andiamo all’origine di questa storia. Perché è qui che, io credo, ci possono attendere le vere sorprese. Come al solito, nonostante le innumerevoli fonti di conoscenza offerte dalla vastità degli studi orientalistici, si tratta di sgretolare un pregiudizio che è frutto di un tenace eurocentrismo: la scienza fiorita nel mondo islamico tra l’ottavo e il tredicesimo secolo non fu un’opera di pura e semplice trasmissione o interpretazione del sapere greco, ellenistico o indiano. Fu una cultura creativa, innovativa e per vari aspetti rivoluzionaria. Fu, come affermato più di trent’anni fa dallo storico della scienza Edward Grant, la vera matrice della rivoluzione scientifica europea del XVII secolo. Studiosi del calibro di Carlo Alfonso Nallino o Miguel Asín Palacios lo avevano già fatto notare ben prima di Grant. E ora anche Belting lo afferma mostrando l’esempio indiscutibile di Ibn al-Hayṯam, che: “con la sua correzione rivoluzionaria dell’ottica antica dimostra ancora una volta che la cultura araba non si lascia ridurre a mera cultura della traduzione”.

Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)
Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)

Nato a Baṣra (Bassora) nel 965, Ibn al-Hayṯam visse la vita tormentata tipica dei geni. Diffusasi per tutta la umma islamica la sua fama di grande fisico e matematico (era riuscito a risolvere un’equazione del quarto grado ricorrendo alle coniche di Apollonio, grazie all’intersezione di una circonferenza con un’iperbole), fu chiamato in Egitto dal califfo fatimida al-Ha̅kim, che lo incaricò di studiare un progetto per imbrigliare le piene del Nilo. Ma il progetto fallì, Ibn al-Hayṯam cadde in disgrazia, e per salvarsi dall’ira del califfo cominciò a fingersi pazzo. Morì nel 1039 al Cairo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita in un tugurio nei pressi della moschea di al-Azhar, guadagnandosi il pane con piccoli lavori di traduzione di testi scientifici.

Fu intorno al 1028 che Ibn al-Hayṯam scrisse il suo capolavoro, quel Kitāb al-manāẓir che, a partire dalla versione latina di Gherardo da Cremona (nota coi vari titoli di Liber de aspectibus, o De crepusculis, o Perspectiva Alhazeni), alla fine del secolo XII pose le basi dell’ottica moderna. Cancellando in un solo colpo le antiche teorie della visione ereditate dai “fluidisti” (Euclide, Ipparco, Tolomeo, Eliodoro di Larissa), dagli “eidolisti” (Epicureo, Lucrezio), e da Aristotele (che aveva tentato una mediazione fra la teoria dei fluidi e quella degli “éidola”), il genio di Baṣra dimostrò – servendosi principalmente della camera oscura, di cui fu l’inventore – che a ogni punto degli oggetti che noi vediamo corrisponde un punto dell’immagine che si forma nei nostri occhi, grazie al “raggio visivo” che li congiunge. E partendo da questa osservazione sviluppò una teoria geometrico-matematica dei raggi.

La fama di Alhazen si diffuse universalmente nell’Europa del XIII secolo, e non solo tra gli studiosi di fisica e matematica. Jean de Meung nel Roman de la Rose esaltò l’importanza del suo trattato. E Chaucer nei Canterbury Tales mise in rilievo il suo nome tra gli autori che avevano studiato le proprietà degli specchi. La civiltà islamica ha dato anche questo all’Europa. Non solo le opere ben più note e celebrate, come il Canone della Medicina di Avicenna, o il Gran Commento aristotelico di Averroè, o il Libro dell’Algebra di al-Khwarazmi. C’è ancora molto da scoprire nelle “radici islamiche” della nostra cultura.