Trame – I mille fili dell’arte tessile

«Il mio cucire ha più merito degli scarabocchi di entrambi voi» sorride canzonandoli Fanny Brawne, musa ispiratrice del poeta inglese Keaton, rivolgendosi all’amato che la dileggia per le sue “opre femminili”. La scena appare nel film di Jane Campion Bright star dedicato alla tragica esistenza del poeta romantico inglese ed è un vero saggio (fra comunanza e forza metaforica) di ricamo e parola poetica

Non a caso la pellicola si apre con il primissimo piano di un ago che esce ed entra in una stoffa bianca e finisce con un’immagine speculare, un altro ago che penetra una stoffa nera. Fra i due aghi passano gli anni e irrompe la morte, perché John Keats muore a Roma, a soli 26 anni, il 23 febbraio del 1821. La ricerca della parola poetica di Keats crea la trama su cui Fanny ricama ossessivamente mentre lei si tramuta in anima e musa del poeta, spesso immersa in un brulichio poetico di farfalle, la rappresentazione grecadella psiche.

A Giulia Niccolai, cofondatrice della rivista Tam Tam assieme ad Adriano Spatola nel 1972, legatasi successivamente alla poesia concreta e visiva, sono bastati cinque rocchetti di filo rimbaudiano, uno rosso, gli altri blu, verde, giallo e nero tratteggiati a pastello su un foglio da disegn,, ma dalle cui spolette disegnate escono fili veri , per intrecciare la parola poema. È un’opera del 1974 e il filo si lega nuovamente alla parola poetica, certo con lo scarto semantico di finti fusi di filato solo dipinto, ma queste pure forme, con la presenza vivida di legami, rimandano alla traccia antica del filato e delle storie che si dipanano o ci confondono.

Forse che Ulisse si sia fermato a Ulassai in Sardegna? Maria Lai (1919-2013) è un’artista sarda, asciutta, caparbia, carismatica, senza veli. Proprio lei, che riprende a tessere e sprigiona nella gentilezza della forma delle sue opere una forza mitica e sorgiva, deve aver sentito voci di sirene e le ha trascritte nei suoi Libri cuciti, pagine nate fra gli anni ‘70 e riprese nei ‘90, tutte impunturate di fili che trasbordano come onde, code fuori dai margini, grovigli di storie che scivolano via.  Nei suoi Percorsi di invenzione Maria Corti narra come Ulisse si sarebbe rimesso in mare dopo aver domato i Proci a Itaca, come gli aveva profetizzato l’Indovino Tiresia nell’XI libro dell’Odissea:

«quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,/o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,/allora parti, prendendo il maneggevole remo ». Ed ecco che le nuove strade di Odisseo sulle tracce dell’antica via Herakleia portano anche in Sardegna, in un percorso tramato di invenzione che Maria Lai ha trascritto nella lingua dei fili magari, quelli delle barbe di bisso che solo in Sardegna ancora si filano, lunghi filamenti di grandi valve immerse nel mare.

Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi
Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi

Se Pontiggia nei Contemporanei del futuro afferma che i classici non sono alle nostre spalle, ma davanti a noi, che li si deve ancora raggiungere, anche la ricerca di Maria Lai ha avuto il passato come futuro: dai Ready-made del telaio, dal pane carasau, alle arti di ricamo e tessuti del passato arcaico sardo, dall’antico gesto della tessitura agli interventi ambientali. Tutti modi di «fare i conti con le madri » scrive Vanna Romualdi in Off Loom, un testo dedicato alle mostre della Fiber Art in Itali. E prosegue: «Aspetti che passano attraverso un sistema di cura e attenzione e pongono il fare al centro di relazioni essenziali con la memoria, la natura il tempo». Implacabile destino questo del tessere: all’inizio doveva ottemperare a requisiti di robustezza e leggerezza creato dall’arma femminile delle maglie, del colpo di spola che unisce madri e progenie come un cordone ombelicale, una tradizione che si annoda e si snoda nel tempo. Poi nel 900 tutte queste trame sviluppano lentamente una dimensione estetica.

Fili, intrecci, reti e nodi, ricami e uncinetti, tessuti e fibre, storie antiche del filare e la Berta che sempre filava, diventano materia e soggetto d’arte.

Certo sdoganare il manufatto per connotarlo come creazione artistica è stato un percorso difficile, soprattutto in Italia, per il pregio del suo tessile come arte applicata.

Dove finisce l’artigianato e dove comincia l’arte? È la domanda quasi ossessiva che si ripresenta fra gli studiosi della Fiber art o Textile art, Soft sculpture, Art fabric: «tutti nomi inglesi che non hanno ancora trovato una soddisfacente traduzione nella lingua italiana» , come scrive Lydia Predominato , artista che combatte il pregiudizio contro la manualità della Fiber art . L’artista è anche una delle promotrici con Bianca Cimotti Lami della prima mostra italiana di Off Loom, Fuori dal telaio nel 2000 e poi delle Biennali della Fiber Art di Ameglia.

Rompere resistenze culturali. Già la strada veniva dissodata nella «seconda metà dell’800 con il movimento inglese Arts and Crafts, proseguito con l’Art Noveau e, soprattutto, con le avanguardie del ‘900, Futurismo e Bauhaus in primis, Espressionismo astratto americano». I tessuti di Depero, il suo Arazzo festa 25, ritagli di pannolenci cuciti secondo un disegno dell’artista, narrazione quasi ludica di episodi bellici e il vestito antineutrale di Giacomo Balla. L’Arazzo dei leoni di Cambellotti, i tessuti di Mariano Fortuny e Gio Ponti che interviene nel sostenere il tessile come arte.

E poi i Sacchi di Alberto Burri, le tele tagliate di Lucio Fontana e i feltri di Joseph Beuys: l’artista –sciamano racconta che il feltro è per lui il tessuto dal potere salvifico che lo ha restituito alla vita. Ferito gravemente durante la seconda guerra mondiale, viene salvato da una tribù di Tartari che lo raccolgono morente e lo avvoltolano in un panno di feltro, spalmato di grasso. Feltro e grasso ricompaiono in decine di sue performance.

Nel 1958 al Moma di New York si allestisce la mostra Textile Usa. Per la nuova progettazione tessile.

La storia italiana nella genesi del movimento della Fiber Art procede a punti lenti e ha un momento nodale nella Biennale Internationale de la Tapisserie Ancienne et Moderne di Losanna, progettata dall’ artista-arazziere Jean Lurçat con Pierre Pauli. Nascono opere tessili, Trame d’artista, riprendendo il titolo di un libro critico informatissimo di Marina Giordano sul tessuto nell’arte contemporanea. Si va alla ricerca di quello scarto emblematico che rende unico l’operato tessile dell’artista rispetto alla creazione dell’utile. Ma anche in questo tentativo di trovare i profili di opera d’ arte diversi dal prodotto di artigianato la pezza della fiber art si trova imbastita con la grande corrente del design.

Marisa Merz – Senza titolo - s.d.
Marisa Merz – Senza titolo – s.d.

La diffusione del tessile si capillarizza nella seconda metà del Novecento, rinverdisce linguaggi anche sulla spinta italiana dell’Arte Povera che rivaluta i materiali e  gesti artigianali poveri come il fare la maglia, ma con quale nuovo empito: Marisa Merz sferruzza,  filo certo, ma di rame: dalle sue mani nascono reti modulate in tasselli geometrici , trapezoidali o triangolari disposti ad esempio in forma crescente l’uno dentro nell’altro secondo rapporti matematici,  in una progressione essenziale, primordiale. O utilizza matasse di canapa che pendono come lunghi capelli su una rete metallica, sorta di scalpi galleggianti, elementi naturali e astratti, richiamo ad un troppo umano e al suo esser perduto.

Marisa Merz - Untitled, 1966 - Wire mesh and hemp
Marisa Merz – Untitled, 1966 – Wire mesh and hemp

Il medium tessile con gli anni 70/80 è sdoganato e si possono individuare alcune linee cruciali del rapporto tra le pratiche contemporanee e le tecniche del filo. Permane la memoria del tessere e ricamare, quella della tradizione lenta e rigorosa associate a Penelope o Creusa, tutte fuso e focolare domestico. Ma questo filare e cucire è sottoposto a un fitto interrogarsi sull’ “art and craft” :  ecco  il  ricamo maniacale di Francesco Vezzoli , “l’artista delle lacrime” . Si è divertito, con un certo sadismo, a far piangere le sue dive, lacrime sincere nel deserto dell’apparire, ricamate in colori pastello su foto in mortuario bianco e nero. Vezzoli ricama con perizia artigianale, per chi ha visto nel taglio e cucito un riscatto per quelle pratiche basse, di femminea quotidianità, un riscatto nei confronti di un’arte maschile troppo sicura di sé.

Ma c’è chi ha fatto del ricamo tradizionale con macchina da cucire un percorso sapiente per dare ascolto ai tessuti, alla loro anima tattile. Nessun richiamo alla pittura in Marialuisa Sponga, anima della Fiber Art italiana, da poco scomparsa. Forte controllo formale e la macchina che ricama assemblando non solo materie, stoffe della tradizione, ma si espande al polietilene, al cellophane, a metalli, reti, assemblaggi con punti antichi, affermando una nuova estetica tattile e visiva.

Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003
Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003

Altri artisti hanno prediletto l’uso della forma purissima delle fibre. In un lavoro che sfida la percezione Gabriel Dawe, artista messicano, crea spiazzanti arcobaleni indoor, spettri nati da un’apparente visione prismatica di un raggio di sole, confinato entro le quattro mura di uno spazio della galleria. Da vicino, i trucchi dell’artista si rivelano. L’opera d’arte è fatta di ordinari fili da ricamo agganciato dal pavimento al soffitto in sovrapposizioni replicazioni e variazioni cromatiche. Una perizia artigianale altissima quella di Dawe che crea, come in un miraggio, un’illusione ottica che incanta i sensi, distorcendo le percezioni; è quasi come se l’artista ricamasse l’aria.

Gabriel Dawe
Gabriel Dawe

E ancora fili che diventano ossessivi, intricati, spesso rossi di un magenta da vasi sanguigni o all’opposto così inchiostrati come quelle ragnatele pendule dei bui sottopassi sono quelli di Chiharu Shiota, giapponese trapiantata a Berlino. Certo i suoi sono fili di ragno e rappresentano un risorgente mito di Aracne, la giovane fanciulla che sfidata a duello la dea Atena per la creazione di una tela perfetta, ne viene punita e trasformata in grosso ragno. L’impressione a Venezia, all’ultima Biennale, visitando nel padiglione giapponese l’installazione di Chiharu Shiota, era quella di immergersi nel rosso viscoso dei fili penduli e molli, dai quali sgocciolavano chiavi che l’artista si è fatta spedire da tutto il mondo. Sotto, due imbarcazioni derelitte, carcasse che mai avrebbero riportato i proprietari di quelle chiavi ad un loro porto o posto sicuro. Patria ricordi sentimenti vita e anime si sarebbero imbozzolate e perdute.

Chiharu Shiota - The Key in the Hand - Biennale di Venezia 2015
Chiharu Shiota – The Key in the Hand – Biennale di Venezia 2015

Ci possono essere ragnatele salvifiche? Secondo alcuni aracnologi, i ragni usano riferimenti astronomici come coordinate per tessere le tele, come la posizione della Luna o la polarizzazione della luce nel cielo. Gli astrofisici hanno individuato un collegamento tra le ragnatele e l’origine dell’universo e Tomas Saraceno, artista argentino che crea architetture utopiche, vagabondando tra le teorie sulla genesi delle galassie e la logica di crescita delle ragnatele, ha ideato un’installazione dal titolo 14 Billlions (2010) dove ha digitalizzato, ricostruito e rielaborato una ragnatala tridimensionale in una tessitura spaziale fatta di fili neri di nylon, immersa in un flou visivo e bioacustico. La costruzione ragnesca nasce da un’ibridazione fra la logica costruttiva di una vedova nera e quella di una tegenaria, sovrapposte e ribaltate in una specie d’intersezione galattica. Il tutto immerso in una stanza lattiginosa, che dilata lo spazio. La ragnatela sembra essere tanto scolpita quanto disegnata nell’aria e gli spettatori possono entrare dentro, strisciando sotto i fili, a … rivedere le stelle.

Photo credits: catalogo della mostra 14 Billions (Working Title), Skira, Milano 2011

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