Un libro casto

Definire Il gioco (Mondadori, 2018, pp. 526, euro 20) di Carlo D’Amicis “un libro casto” può sembrare provocatorio, perché il romanzo, vuoi per l’argomento vuoi per il linguaggio, parrebbe situarsi ai limiti del pornografico. L’autore, soprattutto all’inizio, usa una terminologia cruda e brutale per descrivere un contesto fatto essenzialmente di pratiche sessuali borderline. Questa però è soltanto la cornice. In realtà, mentre apre il racconto introducendo il lettore in uno scenario pervaso di visioni torbide e costruito su situazioni “indecenti”, mentre ci parla di sesso, di ossessioni e perversioni, D’Amicis compie il miracolo di creare davanti a noi un mondo parallelo di assoluta purezza, che è quello delle vite vissute dai tre protagonisti, ciascuno con la sua storia unica e irripetibile, ciascuno con la sua dote di fantasmi, paure e desideri. Tutto questo teatro, in fondo, questo apparato liturgico di prestazioni sessuali fuori dalla norma è uno stratagemma per rendere più luminosa la vera scena che si svolge davanti a noi, fatta di personaggi in carne e ossa, con nomi, colori e intrecci, un passato, un presente, e corpi che non rispondono ai canoni immaginari del godimento. E a mano a mano che il racconto prende il volo, staccandosi dal terreno aspro e accidentato del tema di fondo con cui comincia il libro – due uomini e una donna legati da un “gioco” scabroso che si svolge in un club privé dell’Italia centrale tra l’inizio del nuovo millennio e i giorni nostri –, ti addentri nella storia delle vite vissute, che è bellissima e avvincente, e non ti lascia fino all’ultima pagina, quando scopri con tristezza che dovrai separarti dai tre eroi seguiti per oltre 500 pagine.

Carlo D’Amicis – Il gioco

Il gioco si compone di tre lunghe interviste ai tre protagonisti: un bull (Leonardo), una sweet (Eva) e un cuckhold (Giorgio). Come viene chiarito nelle primissime pagine, “il bull è un maschio dominante che sottomette cornuti consenzienti (i cuckhold) scopandosi le loro femmine (sweet)”.

Il primo a raccontarsi è Leonardo, alias Mister Wolf. Il suo esordio è gelido e asettico, disturbante, immette subito il lettore in un contesto narrativo crudo, da teatro anatomico, privo di riferimenti personali. Illustra con dovizia di particolari gli obblighi per chi stipula il particolarissimo contratto, nel quale “è lo stesso confine tra la regola e la sua trasgressione a risultare indistinguibile”. Già dopo poche pagine, però, ci introduce nel racconto vero, quello della sua vita prima del “gioco”. La morte del padre, rigido e taciturno ufficiale dei carabinieri con una passione segreta per Heather Parisi e Giorgio Almirante, vittima di un attentato quando Leonardo era molto giovane; poi le scuole in collegio, dove conosce Pretegrosso, sacerdote addetto alla biblioteca che gli trasmette la passione per i libri, insieme ad altre meno lecite. Per un breve periodo insegna inglese in una scuola media (da cui viene licenziato perché sorpreso a palpeggiare la figlia della sua amante durante la recita di fine anno), e quindi conosce Giacomo, folle e sensibile poeta con il quale inaugura la sua esperienza a “Le Ore”, rivista pornografica degli anni Settanta, su cui comincia a pubblicare dotti racconti erotici. Dopo varie vicende divertenti e tragiche, incontra Giorgio, primario al reparto di oncologia dell’ospedale di Grosseto nonché cuckhold, ed Eva, sua moglie, sweet, con i quali che si lancerà nell’avventura dell’Infinito, club privé destinato a durare, fra alterne vicende, quasi vent’anni.

E qui si innesta il racconto di Eva, protagonista della seconda intervista. Sua madre, incinta di lei, viene spedita a Livorno dalla Sicilia per sfuggire a una vendetta di mafiosi, e qui, cambiata identità, inizia una nuova vita con le suore dell’ospedale dove ha trovato rifugio e un lavoro dopo la nascita della bambina. La piccola cresce insieme alla madre e a Macigno, ex ricoverato dell’ospedale, uno dei molti personaggi straordinari di questo libro. Diventa una ragazzina bellissima, consapevole della propria carica seduttiva, che usa in modo cinico e strumentale, ma anche con generosità e altruismo; comincia a lavorare come cubista in una discoteca della Versilia e qui conosce Giorgio, che poi diventerà suo marito. Anche il terzo protagonista, forse all’inizio il più respingente, quello in cui è più difficile identificarsi (è lui che, in quanto cuckhold, spinge Eva tra le braccia di Leonardo) ci racconta la sua storia, stavolta, curiosamente, partendo dal momento in cui viene informato che Eva e Leonardo si sono “fidanzati”, lo stesso momento in cui egli scopre che quest’ultimo, ovvero il bull, è diventato quasi impotente. La scena, che si svolge nella camera da letto con i tre protagonisti, ha qualcosa di surreale. (Detto di passaggio, i tre protagonisti mostrano tra loro per tutto il libro una delicatezza di sentimenti, uno stile aristocratico, un rispetto d’altri tempi che spiazza e cattura). Alla fine dell’intervista, Giorgio confiderà all’intervistatore che lui, invece, impotente non lo è più, in un ribaltamento dei ruoli che rende ancora più inconsistente, quasi carta velina, l’intero apparato scenico su cui si è retto finora il libro. Del rapporto con Eva riusciamo a capire qualcosa solo quando rievoca la sua infanzia e la sua giovinezza con la madre, soprano affetta da disturbo bipolare, e il padre, primario ginecologo di chiara fama, che esercita sul figlio un potere quasi assoluto e delinea in modo incancellabile l’orizzonte del suo desiderio.

Ma allora, dopo tutto quello che è stato detto, perché definire Il gioco un libro casto? Perché non rassegnarsi al fatto che, fatte le debite precisazioni e i distinguo del caso, è un libro che parla essenzialmente di sesso?  Perché, oltre che svilupparsi su quello che potremmo definire un doppio piano narrativo, quello di cui parlavo all’inizio, il libro si fonda sulla coesistenza, portata all’estremo, di un piano puramente di linguaggio accanto a quello che dovrebbe essere di significato concreto, reale, ed è proprio questa contaminazione, che dà continuamente origine a effetti umoristici, a costituire la cifra stilistica del libro. Ogni volta che D’Amicis racconta cose “pesanti”, tipo gang bang (le vecchie ammucchiate) o altre pratiche analoghe, o si lascia andare alla descrizione di un particolare anatomico, inciampa in dettagli grotteschi, o ridicoli, o inverosimili, che strappano al lettore una risata e lo spostano dal registro su cui si trovava – nel quale il desiderio segue un canone e recita un copione – a un altro completamente diverso, mettendolo davanti alla irrealtà del primo. E a quel punto il mondo immaginario del sesso su cui era costruita l’intera scena va in frantumi, con un effetto comico irresistibile. In quel momento ti rendi conto che tutto il mondo del porno vero può essere costruito solo sul registro del serio, del cupo, del melodrammatico, o addirittura del drammatico, e non tollera la “cosa buffa”, perché si sgonfia immediatamente. Il decalogo del sesso – indispensabile alla sua esistenza – si regge solo a patto che non ci sia deviazione dalla scena “come dev’essere”, niente fuori programma. Più vicino a Palahniuk o a Mel Brooks che a Sade, D’Amicis, insomma. E infatti, in questo libro non c’è nulla di morboso, perché lo sguardo dell’autore, anche quando si insinua tra le pieghe del sesso più scontato, incontra sempre l’imprevedibile con cui inizia il gioco vero, che è un gioco di parole. In questo senso quello di D’Amicis è davvero un libro casto. La coesistenza ininterrotta di registro alto e basso – il rimando letterario, l’allusione colta – impedisce all’atto sessuale di consumarsi, il godimento è qualcosa di cui si può elucubrare ma che non avviene realmente, e rivela la sua natura in fondo squisitamente intellettuale.

Recensione a “Per te soltanto, bambino” di Filippo Parodi

Si legge tutto d’un fiato questo dialogo con se stesso bambino, questo spezzarsi in due e ricostruirsi anche tramite l’agire psicanalitico della Maga, questo omaggio a non voler morire del bambino, questo osteggiare il funerale del ‘noi bambino’ decretato un giorno imprecisato dal ‘noi adulto’, che non è mai cresciuto abbastanza da poterlo dimenticare.

Ed eccolo riemergere, il bambino, contrastato e controllato dall’adulto (quando Volevi dare un pugno contro quel fottuto treno), stizzito di aver perso il treno della vita, di essersi lasciato imbrigliare dagli infidi consigli del linguaggio scritto e parlato. In quello scritto ci può essere un incontro (È nella scrittura che dico d’incontrarti), ma i bimbi, quelli molto piccoli, non sanno di scrittura, non sanno neanche parlare bene, sanno appena cos’è l’angoscia e il sollievo. Credono però nei sogni e negli angeli, proprio in quelli in cui non credono più i grandi, e ci restano male se l’angelo non si presenta, in un giorno come un altro (Quel mattino) in cui troneggia l’umiliazione. Perché lui, il bambino, continua a crederci, e quando non ci crederà più, sarà ormai grande. In Non m’interromperai nel momento in cui la voce, l’adulto invece chiede un po’ di rispetto verso la parola parlata, un po’ d’attenzione, una crescita quasi anticipata nel bisogno di ascolto, un vero e proprio trionfo di se stesso. Forse è solo un momento, il bambino per definizione non ascolta, si rimette a rincorrere i suoi sogni. Lo intuisce l’adulto, come si deduce dalla poesia È la fantasia che a quel tempo ti ha graziato, quella fantasia che imbarazza gli uomini cosiddetti cresciuti, che buffamente non solo faticano a liberarla, ma anche fanno di tutto per nasconderla e sotterrarla. Forse in questo il bambino ci giudica e stenta a perdonarci, e siamo noi adulti che invece dovremmo invocare il suo perdono per la fantasia che abbiamo tradito, per la libera espressione che abbiamo sotterrato. E se la liberiamo questa fantasia, come in Ti porto per i boschi a passeggiare la domenica, ci ricongiungiamo col bambino che ci alberga in petto, che è lì in attesa di volare; lo sentiamo così forte dentro di noi che gli diamo del tu: “Puntuale, mentre fluttuo, ti aggrappi alle clavicole”.

Quanta fatica in questo ricongiungersi, dopo aver ricostruito un percorso interiore spezzato! Anche dalla lingua, usata da Filippo Parodi, si percepisce qualcosa di aspro, di spezzato, come se le immagini poetiche che si susseguono nei versi si ribellassero a questo gioco al massacro del bambino che felicemente continua ad albergare dentro di noi. Perché è dai cerchi concentrici attorno al bambino che è cresciuto l’albero adulto e “ogni cerchio, adesso, partecipa dell’altro”.

Un vero piacere leggere questo libro che, attraverso il contrasto bambino-adulto, ci concilia con noi stessi.

Salvatore Pisani, settembre 2018

Filippo Parodi - Per te soltanto, bambino
Filippo Parodi – Per te soltanto, bambino

Un risveglio dal sonno dogmatico: Françoise Dolto in Italia

Annamaria Spina ci propone il primo saggio italiano sull’opera di una delle più grandi psicanaliste dell’infanzia del ‘900 con la sua Introduzione all’opera di Françoise Dolto.

È interessante notare che una figura come quella della Dolto, paragonabile a quella di Donald W. Winnicott, non abbia avuto il riconoscimento dovuto, nonostante la grande popolarità.

Anzi, forse proprio un certo snobismo intellettuale dell’entourage psicanalitico lacaniano ha indotto a considerare i numerosi interventi sul campo della Dolto come un abbassamento di livello della teoresi psicanalitica, come se parlare in modo comprensibile a una vasta platea popolare, utilizzando il linguaggio comune anziché il gergo psicanalitico più complesso, valesse come divulgazione. Ma ci ricordiamo della famosa citazione latina “odi profanum vulgus et arceo”?

Eppure l’opera teorica più importante di Françoise Dolto, L’immagine inconscia del corpo, mostra tutta l’articolazione e la complessità del suo pensiero che spesso si fatica a metabolizzare se si parte da presupposti teorici precostituiti su cosa sia la psicanalisi. La stretta relazione della Dolto con Lacan e l’estrema stima che lo stesso le accreditava, ammirandone sia l’indipendenza di pensiero sia la straordinaria capacità clinica, non sembrano aver trovato riscontro in molti psicanalisti “eredi” del dettato lacaniano.

 Annamaria Spina - Introduzione all'opera di Françoise Dolto
Annamaria Spina – Introduzione all’opera di Françoise Dolto

È curioso che Annamaria Spina abbia ripreso l’unico articolo comparso sul Corriere della Sera del 26 gennaio 1999, scritto da Ulderico Munzi, dal titolo Ma dove sono gli eredi di Françoise Dolto?

Scrive Munzi:

…Il convegno si è concluso con un appello spirituale: “Dobbiamo reinventare Françoise Dolto”. I nostri giorni bui e violenti hanno bisogno di un “ritorno” della magica psicanalista dell’infanzia, morta nell’agosto del 1988. Finalmente un atto dovuto, a cui si aggiungono tanti interrogativi e tanta angoscia sull’insegnamento di questa donna ribelle, cristiana e anticonformista. Era già stata “beatificata” come la santa laica dell’infanzia: amare è ascoltare, questa era la sua verità. Ascoltare anche il feto che la madre nutre di se stessa. L’uomo è parola, il linguaggio è richiesta d’amore. E poi quel comandamento: i genitori non sono proprietari dei loro bambini.
S’è parlato di Françoise Dolto per quattro giorni, all’Unesco. S’è parlato del suo “movimento”, di questa Association archives et documentation Dolto che è tutta un susseguirsi di fremiti e aspirazioni. Che fare?…

L’autrice replica, molti anni dopo allo scrittore e giornalista ottuagenario, con questa bella lettera che sembra volergli dire che di eredi della Dolto ce ne sono! Ne riporto alcuni stralci:

Egregio Ulderico Munzi,

le scrivo dopo aver letto un suo articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» nel lontano 1999. All’epoca avevo solo 15 anni, ero in seconda liceo. Eppure non avevo scelto un liceo qualunque, ma l’indirizzo “socio psico-pedagogico”. Che parolone. M’interessava solo perché avevo letto qualcosa di Freud e mi aveva colpito. Qualche anno più tardi, continuando il mio percorso di studi e scegliendo di formarmi alla psicoanalisi, incontro Françoise Dolto grazie al mio maestro Antonio Maiolino, che mi suggerisce la lettura de «Il Caso Dominique» mentre seguo terapeuticamente un ragazzino psicotico. È stato un incontro folgorante che, a oggi, mi ha consentito di coordinare un dipartimento clinico dedicato alla memoria della psicoanalista francese e inaugurato nel 2015 a Napoli da sua figlia, Catherine Dolto. Il lavoro del Dipartimento, a nome mio e di tutta l’équipe, auspica di poter dare una risposta a quella sua domanda: “dove sono gli eredi di Françoise Dolto?” e tenta di farlo attraverso l’unico modo possibile, il solo la cui oggettività è determinata dalla particolarità e dall’unicità del soggettivo che la rende tale: parlo della clinica. … Dolto insegna che il piccolo d’uomo va accolto insieme ai genitori perché questi sono “i primi a sapere, e hanno soltanto bisogno di una conferma autorevole alla loro intuizione”. Non a caso … parla della nascita di un bambino come incarnazione di tre desideri, quello del padre, quello della madre e quello del bambino stesso di farsi venire al mondo. L’insegnamento teorico-clinico di Dolto è un vero e proprio modello di orientamento nella pratica psicoanalitica ma, per ragioni politiche che oscurano la verità clinica … questo viene banalizzato o addirittura obliato fino a farne dello psico-pedagogismo. Ma Dolto sapeva molto bene tutto questo, ecco perché è stata una madre che si è “fatta lasciare” dai suoi figli: è la stessa Catherine che, in occasione della presentazione del modello di Françoise Dolto in una giornata di studio a Napoli lo scorso dicembre, mi presta queste parole. Parole che ha usato come figlia ma che possiamo ben intendere anche rivolte ai suoi eredi e allievi.

…. Dolto ricorda che se abbiamo un’eredità, non è tanto perché ce l’hanno data, quanto perché abbiamo la libertà di prenderla o lasciarla … Quell’eredità io l’ho presa solo attraverso la verità della clinica e se Dolto, come lei stessa dice, viene esclusa dalla Società Internazionale di Psicoanalisi perché il suo dire suscitava negli altri reazioni difensive pari a quelle dell’adulto di fronte al bambino destabilizzatore dall’ordine ammesso, noi del Dipartimento non vogliamo farle un torto a definirci suoi “allievi” …  Il Dipartimento e la prima introduzione italiana all’opera di Dolto [rappresenta] …una realtà teorico-clinica attiva per la diffusione del suo modello. E la dimostranza clinica, come già ci diceva Freud, non ammette guerre di religione. Del resto proprio Dolto insegna che “la fede non è questione di dogma ma di fiducia nell’essere umano e nel suo desiderio.

Si parla di eredità e di un riconoscimento di familiarità al “Dipartimento a Françoise Dolto” di Napoli, dato dalla figlia ed erede di Françoise, Cathérine Dolto.

A ciò faranno seguito altre attività del Dipartimento nelle sedi di Milano, Roma, Firenze e Parigi, con il benestare di Cathérine Dolto e di alcune allieve dirette come Denise Sauget. Ci auguriamo che questo intenso lavoro di ricerca e di interazione favorisca uno sviluppo del pensiero fra le giovani generazioni di psicanalisti.

Si prevede una presentazione del testo nelle città sedi del Dipartimento.

Recensione a “La panchina senza angeli”

Bastano i primi quattro versi di Insalata Materna, la prima poesia del nuovo libro di Filippo Parodi, La panchina senza angeli, per essere travolti in un turbine di parole, pensieri, domande «Mi desti alla luce,/ anzi no,/ tu mi gettasti nella/ tenebra». Il tondo e il corsivo del testo non sono secondari, anzi. Tutta la poesia, infatti, è alternata da versi in tondo che affermano e testi in corsivo che smentiscono in alcuni casi con rabbia ciò che è stato affermato in precedenza.

Non solo nella parola ma anche nella grafica di questo immaginario dialogo con la madre che diventa un auto-interrogarsi, quindi, emerge lo stato d’angoscia esistenziale dell’autore, laureato in filosofia e alla sua seconda opera poetica. Non è secondaria nella poesia di Parodi la sua cultura filosofica che emerge già nei primi versi citati e, in particolare in quel ‘gettasti’ che ricorda l’essere gettati nel mondo di Martin Heidegger in Essere e Tempo. Il concetto d’essere gettato nel mondo è ribadito con versi violenti «… tu mi hai posato sopra/ l’erba di un/ leggero/ giardino e/ mi hai insegnato a /parlare e a/ riconoscere…/ Piuttosto tu mi hai/ ripetutamene,/ balsamente/ assassinato». Nei versi di Parodi c’è oltre al pensiero anche una ricerca della parola che in alcuni casi viene usata in modo dissacrante come nella chiusura di Insalata Materna «Chiudi/ quella/ stronza/ bocca».

La panchina senza angeli - Copertina
La panchina senza angeli – Copertina

E la bocca è la ‘protagonista’ del pometto Le bocche di Hans, un lungo racconto in cui Hans «Cercava di spiegarmi quanto/ fosse faticoso e / difficile per/ lui/ provvedere a sfamarle». Le bocche vogliono essere nutrite, ma quella dell’amore «non si sentiva mai/ sazia e/ appagata…», quella della concupiscenza «sapeva camuffare». Hans parlava anche della bocca della tristezza e della solitudine «… avida,/ accanita,/ velenosa, mal/ disposta a rapportarsi/ con le altre bocche./ Si tuffava nella mischia e/ beccava/ impazzita,/ spolverava anche gli/ scarti,/ non aveva alcun pudore!». E poi di quelle della rabbia, dello sgomento, della consapevolezza, della fede, del mistero, dell’attacco di panico. Hans, nel pometto, racconta tutto ciò mentre il poeta fuma una Camel. Anche in questi versi Filippo Parodi, proprio come in Insalata Materna, percorre i misteriosi sentieri dell’inconscio per tentare di arrivare all’origine dell’angoscia. Lo fa attraverso immagini, spesso terrificanti, che non concedono nulla e che costringono anche il lettore a percorrere quella strada difficile dove ci si può anche perdere.

Pointless ribadisce con immagini oniriche il male di vivere, l’inadeguatezza, l’essere inutile: «Abito/ un/ gradino/ che/ si/ è/ scolato/ il sole/ l’assurdo/ organismo…» e poi: «Io/ alloggio/ nell’infanzia/ tanto/stretta/ e/ imputridita/ nell’orgasmo/ nell’accesso/ dentro/ al bar che si accartoccia…» e ancora: «io/ abito/ il mio/ abito/ e/ è/ una gran/ fatica/ con la/ porta/ che/ ogni/ giorno/ si chiude…».

C’è poi Diverso, un testo intenso come gli altri ma al quale il poeta è riuscito a dare un ritmo che ricorda le ballate dei menestrelli: «Buongiorno a te,/ Diverso:/ Ti guardi nello specchio./ Già alle prime luci/ ricerchi il tuo riflesso…». Tutto è diverso quando non si riesce a stabilire un rapporto con gli altri, anche i gesti quotidiani, apparentemente banali come quello di bere un caffè: «La mattinata muore./ Già quasi ora di pranzo./ Dov’è che mangerai?/ Ah è vero, salti i pasti./ Ok, prendi l’ennesimo/ caffè esistenziale./ Ci pensi tu a macchiarlo/ con la Diversità».

Filippo Parodi è giovane e nelle sue poesie utilizza spesso espressioni che appartengono alla sua età, al suo mondo. Una scelta forse neppure consapevole ma che rende la sua poesia onesta come la intendeva Umberto Saba secondo il quale l’onestà poetica consiste nella ricerca delle verità interiori mentre le apparenze e i manierismi devono essere banditi perché il linguaggio deve essere chiaro e collocarsi nella cornice della vita reale.

Ottobre 2017

La poesia. Segni e parole per la verità

Su Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazione in Italia, a cura di Daniela Marcheschi, Mursia, Milano 2016

Ho sempre pensato che l’arte, in ogni sua espressione, tragga il massimo della sua possibile oggettivazione e transitività dalla capacità dell’artista di esprimere al più alto grado la sua soggettività. Una tale visione del fatto artistico potrebbe far apparire particolarmente problematica una lettura critica dell’opera: cercare di enucleare i valori e i disvalori che la tramano e la caratterizzano, i suoi punti di forza e di debolezza, non solo sul piano di un’estetica oggi particolarmente “fluida” e inclusiva, se confrontata con le categorie più o meno canoniche ancora in vigore nel secolo scorso, ma anche in merito alla sua capacità di attivare nuovi stimoli conoscitivi e formali, di mostrare cioè quei caratteri metamorfico-evolutivi che evidenziano una tensione creativa viva e vigile, aliena da quegli esercizi di reiterazione del dejà vu così diffusamente praticati; un dejà vu che magari in origine ha mostrato connotazioni  innovative, fruttando all’artista un momento di attenzione e di fortuna critica, ma che non ha tardato a farsi maniera, cifra di una riconoscibilità funzionale alle classificazioni dei regesti letterari, più inclini a cogliere le peculiarità proteiformi ed esornative piuttosto che i segni peculiari di una visione “desueta”, i frutti di ricerche artistiche non gravitanti nell’orbita di una mediaticità telematica, televisiva o giornalistica, peraltro solo marginalmente interessata ai fatti letterari e in special modo a quelli poetici.

Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazione in Italia
Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazione in Italia

Se queste considerazioni hanno una loro ragion d’essere, se colgono alcune caratteristiche e alcune tendenze attive fra chi si occupa di letteratura, allora si deve accogliere con un plauso riconoscente l’iniziativa editoriale della Mursia, che nella sua collana Argani ha recentemente pubblicato Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazione in Italia, curata con peculiare acribia da Daniela Marcheschi, la quale dopo aver escusso minuziosamente, nell’arco di diversi anni, i testi di un numero rilevante di poeti italiani, ne ha selezionati 21 che ha incluso nell’antologia, riservando a ciascuno di essi una nota introduttiva, alcuni riferimenti bibliografici e un mannello di testi cui ha affidato il compito di esemplificare non soltanto le peculiarità della poesia di ogni autore, ma anche il suo work in progress, visto che fra gli aspetti che la curatrice ha tenuti presenti nella sua scelta è chiaramente evidenziata la capacità di innovarsi e di mantenere una vivezza poetica nell’arco della propria attività creativa, e il cui lavoro lascia presagire un proficuo sviluppo.

La selezione degli autori (14) e delle autrici (7) inclusi nell’Antologia curata dalla Marcheschi è grandemente apprezzabile per lo scrupolo con il quale è stata condotta la ricerca, che risulta affrancata da quegli omologanti preconcetti e striscianti conformismi che, in passato, hanno prodotto antologie con un numero più o meno ampio di poeti, ma facenti sempre perno su un nucleo di autori appartenenti a “scuderie” ben riconoscibili e riconosciute, sostenuti da un’editoria alla quale per un bravo poeta è difficilissimo accedere se non ha personali “connessioni” con chi effettua le scelte editoriali. In proposito, già negli anni ‘90 comparve sulla rivista «Poesia» un eloquente articolo di Alessandro Carrera, che mostrava appunto la sostanziale impossibilità da parte di un autore privo delle sopracitate “connessioni” di accedere alle poche collane di poesia delle grandi editrici italiane, le uniche che hanno la forza di far arrivare nelle librerie italiane i libri di poesia che, come sappiamo, sono letti da una sparuta élite.

La Marcheschi non si è allineata al costume prevalente: ha letto i testi pubblicati dalle grandi ma anche dalle piccole case editrici, degli autori del Nord e di quelli del Sud Italia, quelli di coloro che flirtano con le sirene dei media ogni volta che ne hanno la possibilità, e di coloro che «lavorano zitti», come esortava a fare l’indimenticato Giovanni Boine. E se fra coloro che hanno recensito l’Antologia della Mursia c’è chi ha lamentato l’esclusione di alcuni dei soliti noti, ciò dimostra quanto sia insidiosa l’assuefazione al già sentito, al già letto, e quanto sia stato distratto il recensore nel leggere l’introduzione della stessa Marcheschi, che chiarisce in maniera inequivoca le ragioni delle esclusioni e quelle dell’inclusione dei suoi 21: Pier Luigi Bacchini, Giampiero Neri, Franco Loi, Fernando Bandini, Elio Pecora, Jolanda Insana, Nanni Cagnone, Anna Cascella Luciani, Giorgio Manacorda, Cristina Annino, Maurizio Cucchi, Lino Angiuli, Assunta Finiguerra, Biancamaria Frabotta, Guido Oldani, Roberto Piumini, Maura Del Serra, Amedeo Anelli, Margherita Rimi, Antonio Riccardi, Paolo Febbraro. C’è poi da considerare che, attardandosi con capziosa pervicacia nella disputa inclusioni/esclusioni, ognuno avrebbe i suoi motivi per sostenere l’inclusione del tale autore e l’esclusione del talaltro; così, volendosi prestare all’annoso giochetto, per quanto mi riguarda, per dar conto efficace dei valori che si esprimono in Italia in ambito poetico, non proporrei ulteriori inclusioni, e magari espungerei un paio di autori di area lombarda con la certezza di non recare pregiudizio ai valori dell’Antologia.

Essendo abituato a osservare i fatti letterari italiani con sguardo alloctono, non ho potuto ignorare che, di fronte a iniziative editoriali di rilievo come quella della Mursia – cui va riconosciuto anche il merito di aver affidato la sua Antologia a un  critico autorevole per competenza, comprovata dal cospicuo lavoro effettuato, apprezzato anche in ambito internazionale e per l’indipendenza di giudizio – la critica militante italiana abbia per lo più scelto di non pronunciarsi, con lo scopo evidente di non voler attivare un proficuo dibattito, “laico” e a tutto campo, nei molteplici canali e meandri dei media. Un dibattito che sarebbe stato e sarebbe utile sia per i lettori sia per coloro che amano disinteressatamente la letteratura e la poesia, scevra da quell’intreccio perverso fra la pratica del mentire e quella del fare letteratura, teorizzato da Adam Gopnik. Si è scelto invece di applicare la sordina (se non di ordire una specie di “congiura del silenzio”) con l’intento di non dar conto e di non suscitare eco a uno sguardo “altro”, capace di incrinare quella mappa di valori e disvalori conformi al canone corrente. Anche in questo non posso non concordare con quanto afferma la Marcheschi a proposito dell’attività e della responsabilità etica del critico: «Lo sguardo di un critico, come di ogni altro intellettuale è tanto più prezioso quanto più è soggettivo ed eticamente centrato sui principi della responsabilità e della verità. Solo se vi sono tante solide verità soggettive, frutto della consapevolezza intellettuale, di una cultura la più vasta possibile e dello slancio etico a costruire oltre se stessi e insieme con gli altri, si può partecipare attivamente alla letteratura». E inoltre: «Un critico è tale […] soprattutto se si fa carico di chiarire a fondo i valori che attribuisce alle opere e non smette di sostenerli […] (se) ci mette e rimette la faccia». Più avanti, riferendosi a chi ha dichiarato la necessità della resa del critico nell’attuale temperie letteraria, la Marcheschi ribadisce incisivamente che il suo compito è invece «ripartire a fare studi e scelte con pazienza […] leggendo tutto […] aprendo le finestre e aiutando tutti a crescere».

Fra i poeti, che la Marcheschi ha accolto nell’Antologia di Mursia (pp. 334, 22 €), non mancano i dialettali come Loi e la Finiguerra, oppure autori che portano nella loro opera il sigillo della formazione greca e latina, come la Insana e Bandini, oppure attenti alla cifra scientifica come Bacchini; fra i nati intorno agli anni ‘50 sono inclusi autori come Roberto Piumini, che riversa nella scrittura dedicata ai bambini (ma anche agli adulti) la sua impronta pedagogica, o come Maura Del Serra, che affianca alla sua attività poetica potente e raffinata una vasta produzione teatrale. Il più giovane autore antologizzato è Paolo Febbraro, che coniuga con merito poesia e critica ed è noto anche per le sue collaborazioni alle pagine letterarie de «Il Manifesto» e al supplemento culturale de «Il Sole 24 ore».

Mi preme inoltre segnalare la riflessione/esortazione della curatrice: «La poesia, la letteratura sono arti che andrebbero sostenute in maniera più ampia, vissute con maggiore coscienza da chi le pratica e con maggiore deontologia professionale. Sarebbe necessario anche sostenerle e diffonderle nel quadro di una maggiore diffusione della lettura, insegnate più e meglio per farle amare, per rendere un paese e una cultura migliori […]. Si avrebbe inoltre bisogno di una visione di insieme, di una mappa o una piattaforma di iniziative coordinate, capaci di coinvolgere l’editoria, la scuola e la formazione dei docenti, i lettori, i giornali, le istituzioni, dalle locali al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca». Come si vede, le affermazioni della Marcheschi travalicano la riflessione sull’orticello letterario coltivata dai più, spingendosi con passione nell’ambito di una concreta e vitale presenza della letteratura e della poesia, indicando attori e processi operativi da attivare per una crescita culturale diffusa, nonché per una “civilizzazione” individuale e sociale tanto necessarie e da più parti invocate. Al riguardo si può osservare che la curatrice è stata coerente con i suoi assunti anche nella scelta dell’impronta stilistica data all’Antologia, scegliendo di esprimersi con una scrittura piana e agevolmente accessibile anche ai non specialisti, alla quale non fa difetto il rigore dello studioso, ma che non scoraggia l’amatore o il semplice lettore che vuole essere informato su quanto è rilevante nel panorama della poesia italiana contemporanea.

Da parte mia riterrei utile che questo volume fosse consigliato dai docenti di materie letterarie dei licei italiani e delle università come lettura integrativa ai programmi specifici dei loro corsi, in modo da offrire alle giovani generazioni una mappa aggiornata e credibile delle tradizioni e dell’innovazione che hanno nutrito e nutrono la poesia italiana degli ultimi decenni.

L’altro mondo di Faustine

Faustine è una giovane donna alto-borghese che vive a Parigi nell’ultimo scorcio di secolo dell’Ottocento. Il marito è un brillante e abile finanziere che l’ha sposata per i suoi natali ma che non l’ama. È una donna sensibile e intelligente, incapace di comunicare al mondo la ricchezza della sua interiorità. Sappiamo che la sua infanzia è stata tormentata e solitaria, scandita in certi periodi da rituali ossessivi che l’hanno isolata ancora di più dal contesto sociale nel quale viveva:

“Sul far della sera, prima di cena, Faustine s’inginocchiava in camera davanti all’immagine di Gesù, accendeva due candele e pregava infervorata. A volte si presentava a tavola con gli occhi rossi e gonfi, segno che nella preghiera aveva pianto. Non toccava quasi cibo. La madre allora, per punizione, la rimandava in camera, e lì la bimba riprendeva il suo monologo davanti all’immagine di Gesù.”

Patrizia Crippa, Storia di Faustine (Copertina)
Patrizia Crippa, Storia di Faustine (Copertina)

Ha tre figli di cui non sappiamo quasi nulla, e un marito totalmente dedito ai giochi di potere, che non disdegna distrazioni erotiche, in particolare con una giovane pittrice folgorata ad Argenteuil da Monet in persona e che, oltre a farsi mantenere da personaggi facoltosi, a tempo perso ora dipinge.

Da alcuni anni nella vita di Faustine, una vita esangue e tutta giocata sulla sottrazione, in particolari circostanze – perlopiù davanti a opere d’arte e reperti archeologici –, accade qualcosa, un godimento imprevisto, quasi un miracolo: Faustine ha delle assenze, quasi delle allucinazioni, e percepisce la realtà in modo soprannaturale. Questi istanti di beatitudine, di puro godimento, diventano una seconda vita per lei, una vita segreta di cui chi le sta intorno non sa nulla.

L’esistenza di Faustine, che conosce la gioia solo quando sfiora pericolosamente il delirio e per il resto scorre piatta e solitaria, subisce uno scossone quando incontra nel negozio di un antiquario l’archeologo Henry Polsen, con cui scopre di poter condividere interessi e sensibilità, ma che con la sua inconsapevole sensualità  scatena nella donna una crisi isterica che espone la famiglia e il marito allo scandalo. Nella casa di campagna, dove il marito ha trasferito precipitosamente la famiglia, Faustine sembra lentamente riprendersi, ma solo per crollare definitivamente alla vista del quadro che la giovane pittrice ha fatto recapitare al marito e nel quale è ritratta una giovane donna impudicamente esposta allo sguardo di un uomo che ha tutta l’aria di essere Julien. Un corpo abitato dal desiderio, non murato come il suo, e del quale Faustine si sente defraudata. Quel corpo senziente, desiderante, gaudente che doveva essere il suo è, colmo dell’ironia, il corpo dell’amante di suo marito.

Mi sono chiesta che cosa renda disturbante il romanzo di Patrizia Crippa. E disturbante lo è per davvero, a una prima e ancor più a una seconda lettura.

Non ci lascia tranquilli la lingua che l’autrice ha deciso di utilizzare, una lingua inattuale, che vive nei nostri ricordi, ma che non usiamo più, che appartiene solo alla nostra memoria e ci costringe a confrontarci, volenti o nolenti, con il nostro passato, con i decenni che sono alle nostre spalle e con le letture che a quegli anni risalgono. Una scrittura quasi anacronistica, la sua, che sembra modellarsi sui suoi protagonisti e sulla città nella quale si muovono e che sembra non conoscere il nostro tempo. Impossibile, abbandonandosi al suo ritmo quasi ipnotico, non uscire dalla quotidianità fatta di cellulari, mail, ritmi frenetici, suoni metropolitani in cui siamo immersi, e non ritrovarsi come per incanto nella Parigi del 1885. Ma è anche una lingua capace di inaspettate crudezze, una lingua carnale che ci parla dei corpi e della loro insopprimibile materialità. Emblematico, a questo riguardo, il racconto che Faustine fa a padre Antonin, quando gli confida ciò che accade durante il parto, “il mistero della creazione”. Un racconto nel quale ciò che è alto, puro, soave, inviolabile si mescola in modo grossolano con ciò che è greve, sordido, violento, sporco. Il racconto di ciò che “davvero” accade durante il parto è qualcosa di volutamente raccapricciante, e il raccapriccio nasce proprio dalla commistione inammissibile: amore e odio, bellezza e bruttezza, purezza e putrefazione, corpo in gloria e organi separati dal corpo, dotati di vita autonoma, che formano un orrendo corteo dopo la nascita:

“Allora, le ragazze al tavolo vi depongono gli occhi, gli occhi che nascono dopo il bambino, occhi sempre aperti, li vedesse, padre Antonin, che occhi! Sono sempre lì di fronte a te, due piccoli occhietti obliqui, e a volte ti sembra di essertene liberata, ma proprio allora corri il rischio peggiore, ti stanno guardando la nuca e la schiena, e la spina dorsale ti si scioglie! E poi esce sempre odore di fiori marciti, lo conoscete, padre Antonin, l’odore dei fiori marciti?”

Nel romanzo di Patrizia Crippa, poi, è sottilmente disturbante la coesistenza di due piani narrativi, ben messi in luce da Piero Andujar nella prefazione, che mescolano continuamente e in modo impercettibile due realtà apparentemente estranee l’una all’altra: quella della vita che scorre sul piano di ciò che sta insieme, che si tiene, e di cui fa parte la convivenza sociale, la politica, il quotidiano, la rete sottile dei riconoscimenti e degli scambi tra individui presi nel gioco del vivere; e quella della sospensione del senso e del tempo, l’immobilità del mezzogiorno di cui parla Nietzsche e di cui fa esperienza Faustine nelle sue assenze, che evocano la Grecia e il dionisiaco, lo sfumare del limite e il perdersi nel tutto. Da una parte i dettagli anche frivoli, il richiamo a ciò che appare e seduce, il profumo e lo charme di un mondo favoloso, con gli allettamenti di una città magica; dall’altra l’incombere del dolore e del disfacimento.

Ma più di ogni altra cosa a creare disturbo è lei, Faustine, una donna che continua a sfuggirci fino all’ultima pagina e di cui in fondo non comprendiamo mai davvero il segreto. Il messaggio che ci consegna è la sua assoluta impossibilità a varcare la soglia. Ma non sappiamo perché. È bella, giovane, ricca, sa godere dell’arte e della natura. Eppure non può tenere insieme la sua vita interiore e quella che conosciamo come vita reale, il mondo che sta intorno a noi. È vero che è murata nel suo corpo, ma è anche posseduta da ciò che sta fuori del suo corpo: il marito, Annette, madame Tournelle, gli altri. E il suo dramma sta proprio nel non saper coniugare le due realtà che la abitano. Faustine, che non capiamo, che a tratti ci irrita e ci indispone con la sua incapacità di far fronte alla vita, tocca un tasto sensibile in tutti noi, ci ricorda quanto è difficile tenere insieme ciò che è separato e quanto il prezzo per tenerlo insieme sia spesso troppo alto. Alla fin fine, Faustine porta solo agli estremi quello scompenso di fondo che tutti noi sperimentiamo ogni giorno e che solo i ritmi e i rumori della vita quotidiana ci permettono di ignorare. “Il mondo va avanti perché ce n’è un altro di mondo, sommerso e muto, di cui, anche chi lo vede, non può dire niente”, come dice la protagonista del romanzo. Ma basta vivere una sospensione anche piuttosto breve di tali ritmi e rumori, per mettere in crisi un equilibrio che di solito percepiamo come stabile e naturale: uno degli elementi che nella giornata silenziosamente scandiscono il tempo viene a mancare e noi ci ritroviamo disorientati, ciò che era ovvio non lo è più, niente è più scontato, tutto quello che eravamo abituati a situare relativamente ai nostri punti fermi, il prima, il dopo, il durante, fluttua nel vuoto, sconosciuto e quindi minaccioso.  Faustine è come se sperimentasse qualcosa del genere nelle relazioni, quelle che, prima dell’incontro con Polsen, davano un ordine al suo mondo, che la ancoravano alla realtà, nonostante le sue assenze, i suoi rapimenti estatici di fronte ai reperti archeologici. Dopo che lui è entrato nella sua pupilla “come su un sentiero”, niente è più come prima, e lei si perde. Quello che prima era possibile – far convivere in pace i due piani esistenziali senza dover per forza sceglierne uno – adesso non lo è più, la punta del desiderio incrina la lastra di cristallo e Faustine va in pezzi.

Patrizia Crippa, Storia di Faustine, Polimnia Digital Edition. E-book, euro 6,49 disponibile nei formati pdf, epub, kindle

Le due Iris di Shalev

Iris è una donna israeliana di quarantacinque anni che vive a Gerusalemme. Ha una famiglia – un marito e due figli grandi – e un lavoro in cui mette tutta se stessa: è direttrice in una scuola dove si tenta con coraggio e tenacia l’integrazione tra arabi ed ebrei, è stimata da tutti. Dieci anni prima è rimasta coinvolta in un attentato a un autobus, passava di lì nel momento dell’esplosione (a causa di un cambio di programma forse imputabile a un tradimento del marito) e ha riportato gravi ferite per le quali ha subito interventi chirurgici e lunghi periodi di ricovero. Dopo un decennio di relativo benessere fisico, improvvisamente il dolore fisico si risveglia, lancinante, insopportabile. “Devo aver  fatto un movimento sbagliato, prendo una pastiglia e vado a lavorare” dice a Michi, il marito che la soccorre spaventato.

Zeruya Shalev, Dolore (Copertina)

Invece il dolore non passa, anzi peggiora. Così decide di interpellare un luminare nel campo della terapia del dolore e qui un’incredibile coincidenza le fa reincontrare l’unico vero grande amore della sua vita, Eitan, con cui a diciassette anni aveva vissuto una storia travolgente e che l’aveva abbandonata dopo la morte della propria madre, amorevolmente assistitita da Iris per tutta la malattia. Dopo l’abbandono lei era caduta in una profondissima crisi e aveva trascorso mesi di completa abulia, sfiorando l’annientamento fisico e psichico. Da allora non l’aveva più incontrato. Iris decide di rivederlo, lo cerca, chiede insistentemente alla sua segretaria un appuntamento per un’altra visita. Le pare che la sua vita possa finalmente uscire dai binari grigi su cui ha proceduto per vent’anni con un matrimonio insoddisfacente, con un uomo che non è quello giusto e con cui ha generato due figli che dovevano essere invece i figli di Eitan. La sua vita può riprendere il corso naturale che per un errore era stato abbandonato. Per caso, proprio in quei giorni viene a sapere che Eitan, poco tempo dopo l’abbandono, era andato a cercarla per tentare un riavvicinamento. Ma lei quel giorno non era in casa, e lui, cacciato in malo modo dalla madre, non l’aveva più cercata. Questa tremenda beffa del destino la convince ancora di più a perseverare nel suo tentativo di riavere l’uomo che è stato la sua gioia e la sua rovina e di recuperare il tempo perduto. E ci riesce. I due riprendono la relazione lì dove l’avevano interrotta, convinti di poter cancellare con un colpo di spugna i decenni di lontananza e le nuove vite che nel frattempo si sono costruiti. E subito Iris si caccia in situazioni che sfiorano il grottesco – nel giardino del condominio dove abita Eitan, di sera al buio, nascosta come un ladro nel folto di una siepe, o a casa sua, dove, febbricitante, in pagine tra le più riuscite e divertenti del libro, riceve l’amante-medico senza accorgersi della domestica che li sorprende in atteggiamento quantomeno sospetto e alla quale lei fornisce spiegazioni decisamente inverosimili.

Mentre il desiderio di rivedersi si fa ogni giorno più impellente e si scontra con le complicazioni della vita familiare e lavorativa di entrambi, Iris scopre che sua figlia Alma è in pericolo: a Tel Aviv dove lavora è caduta nella rete di una setta a capo della quale c’è proprio il titolare del locale dove la ragazza fa la cameriera. E subito si affaccia il pensiero che, se vuole salvare la figlia, dovrà rinunciare all’uomo che ha appena ritrovato e che cerca di convincerla a lasciare la sua famiglia per cominciare una nuova vita con lui. L’aut-aut è immediato nella sua testa. Così come non riesce a cogliere l’opportunità di un incontro che, comunque, sarà un nuovo incontro e continua a riproporre la messa in scena di un canovaccio ormai defunto da secoli, allo stesso modo Iris non riesce a tenere separati i fili della sua esistenza, ciascuno con la propria responsabilità, i propri sentimenti, il proprio tempo, e ha bisogno di barattare l’uno con l’altro, senza riuscire a venire a capo di niente. Se io rinuncio a Eitan, allora Alma si salverà. Questo il pensiero che guida le ore frenetiche di Iris a Tel Aviv. Dopo una sequenza drammatica in cui, nel tentativo di impedire ad Alma di distruggersi con le proprie mani, Iris rischia di finire un’altra volta in ospedale, nelle ultime pagine la famiglia si trova finalmente riunita al suo capezzale, in un quadretto che cerca di ricomporre un’armonia mai esistita, e dove traspare un senso di incompiutezza molto forte.  Se è vero infatti che Iris non può pensare sul serio di riesumare come se niente fosse una storia che aveva vissuto all’età di diciassette anni (e la scena in cui Eitan, in trattoria, la costringe a ingoiare della carne, a lei che da vent’anni è vegetariana, lo dimostra con una violenza che nessuna spiegazione avrebbe potuto esprimere e misura l’abisso che in realtà separa i due amanti), è altrettanto vero però che nel libro non si spiega mai cosa veramente c’è stato di “necessario” nella storia con suo marito. Michi per tutto il libro ci appare una figura di contorno, insignificante. La domanda che il lettore si fa dall’inizio del libro è: “Ma perché lo ha sposato?”. Le figure femminili (Iris, Alma, l’amica Noa con la figlia Daphne) sono ben delineate, vive, si impongono al lettore. Quelle maschili invece (Michi, Omer, perfino Eitan, che a un certo punto Iris comincia a chiamare Dolore) sono sfuocate, sbiadite, incoerenti. Ma, nonostante tutto, l’autrice sembra incapace di credere che un’altra storia, al di là di quella fantasticata e di quella reale, sia possibile. La scelta per lei è tra la farsa di un amore tra liceali e il presente, a cui lei attribuisce un valore “a prescindere”. E infatti, nelle ultime pagine, alla figlia che le dice “Dolore ti ha cercato” e che chiede spiegazioni su quest’uomo dal nome bizzarro, Iris confida:“ [È stato] il mio primo fidanzato. L’ho rivisto per caso nello studio medico, qualche settimana fa”, e Alma la ascolta interessata: “L’hai rivisto dopo trent’anni? Allora è per questo che stanotte l’hai sognato! Davvero sembra un sogno!”. “Hai ragione, non fa parte della realtà” mormora Iris … “è una specie di fuga dalla realtà,” e Alma dice: “che c’è di male nella fuga?”, e sua madre esita un attimo, prima di rispondere: “quando si scappa non è mai libertà”.

Il presente di Iris tuttavia in realtà è la greve storia di un attuale senza passione, senza posta in gioco, segnata solo dal dolore fisico che non dà tregua e dal legame creato dal lavoro e dai figli. Non una parola riscatta davvero questo presente, dove per tutti a dettare legge è il senso del dovere e l’impegno quotidiano. Come a dire: nel presente non c’è posto per il sogno e l’amore, solo ciò che accade sul piano del reale conta davvero. Non a caso, sarà la figlia rientrata all’ovile a gettar via il biglietto di Eitan, nel quale egli aveva scritto a Iris “Torna da me”.

Una scrittura potente quella di Zeruya Shalev, verrebbe da dire quasi maschile, senza tentennamenti, senza mezze misure. Travolgente, brillante. In questa storia senza pause si piange, si ride, si mangia, si beve, si suda. I corpi sono ora puliti e profumati, ora sporchi e puzzolenti. Come le strade, le città e le case in cui i personaggi della storia si muovono. Immagini dai colori saturi, le sue, che vengono da un altro mondo, quello di Israele, dove la vita e la morte, il bene e il male, i sentimenti, le percezioni sensoriali, le parole hanno il rigoglio di un tempo arcaico, sono esposti alla luce di mezzogiorno. Una scrittura che rimbalza di continuo dal tempo attuale – fatto di cellulari, computer, messaggini, rumori di città, auto nel traffico, cosmetici, negozi, ospedali – al tempo biblico, scandito da altri ritmi e altri suoni, un tempo sospeso che ricorda l’eternità e la morte, ciò che – come il dolore per Iris – non passa e insiste.

Dolore, di Zeruya Shalev, sul sito dell’editore

Pas d’adieu

“Ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…”
Cristina Campo

 

Ogni addio compiuto ha varcato una soglia e diventa misura del tempo per ogni «storia smisurata», antidoto contro la presunzione di eternità di una vita, di un legame.

Dire addio oltrepassa il potere della parola, della nostalgia e del rimpianto, figli dell’amore perduto che per un tempo infinito ha continuato a sedurre e catturare dolcemente.

È nella poesia che Graziella Savoldi cerca questa misura, in una lotta con la parola che in questo tempo della sua vita ritrova spoglia, disabitata da una voce, come ogni traccia del passato che incontra nel suo andare. Poesie erranti che cercano casa in un paesaggio inciso da una storia primordiale scavata dal tempo, forme di minerali nella roccia, stalattiti rinchiuse nelle grotte, elementi che da tempo immemore custodiscono l’estraneità che insiste nelle cose. Un’estraneità che appare a torto addomesticata dall’illusoria familiarità di un bosco, dal corso inarrestabile di un fiume, da un cielo stellato. Ma passo dopo passo, questo paesaggio diviene inquietante, silenzio senza presenza, ostile perché resiste al ricordo, preferendo narrare del cammino di quei due viandanti che cercavano insieme «una strada nell’infinito» e hanno trovato invece «l’inconsapevole corsa» che porta su strade diverse.

Se il silenzio appartiene ad ogni congedo, poiché fa i conti con una parola perduta, sempre evocata, orfana della voce, del tocco dell’altro; il ricordo è balsamo per la memoria, perché fa accadere l’accaduto ancora una volta, riordinando quelle tracce e quelle impronte, quei suoni e quegli sguardi che l’assenza rapisce, e consuma avidamente. Allora, nel paesaggio che arresta il suo divenire troviamo, come cristalli nella roccia, i reperti di un sogno spezzato; ripercorriamo i cammini nella conta dei passi, come in un’antica mappa che non può guidarci al mutar delle cose: “ritorno sull’acqua passata e cerco nell’acqua più fonda un luogo dove nacque l’addio”. Ma l’acqua del fiume porta via irrispettosa ogni residua possibilità.

È un aggirarsi tra tracce dissipate (20) in cerca del luogo dove quell’addio è incominciato, per poterlo finalmente nominare, fermare, custodirlo, trasformandolo in un altrove dove le parole non dette “rimaste nella… bocca” possano avere un’altra possibilità, ritrovare la fenditura di una voce per vivere ancora tutte le occasioni mancate. Uno sguardo distratto, un cammino incerto hanno trattenuto invano quel bene perduto “inciampo sempre nei passi non fatti”. (31) Si cerca l’antica forma creata dagli occhi di un altro, rubata a uno sguardo catturato allo specchio, come un vestito da indossare ancora, ingannando il tempo.

Ma è concesso alla parola, unicamente alla parola, speranza di durata, affidandole le tracce preziose di un incontro, come sigillo o voto mai pronunciato?

Come l’acqua del fiume le parole andarono. E non tornarono più”, disabitate dalla voce dell’altro.

Eppure quell’incontro aveva inaugurato un tempo inaspettato, nomi nuovi che spezzavano la storia, un cammino inedito che risveglia una “lingua non parlata” rimasta in attesa; si schiude per la prima volta qualcosa di ignoto di cui solo un altro possiede la chiave. «Il tocco delle tue mani portava il richiamo della lingua non parlata». (p.11) Un nuovo creato prende forma quando la parola si addensa della potenza dell’altro che reinventa le cose, del suo sguardo, del suo riso: «Una risata… che irrompe e conquista la terra» (39), una terra inviolata, luogo di privilegio degli amanti «dove ogni piede alzato fu un passo. E inventò la strada», ma «in punta di piedi la vita ci piegò tra preghiera e peccato».

In agguato, senza farsi sentire, all’insaputa degli amanti, la vita spezza il filo dell’aquilone. Non bastano più mani di bambino a trattenere l’amore, perché «il serpente e l’albero della vita svaniscono nell’ombra».      Cacciati dall’Eden e condannati al mondo, rimane agli amanti solo l’eco lontana e irresistibile di ciò che è stato, come canto di sirena che li condanna a cercare ancora tra quelle macerie, in una terra d’esilio oscura e dolente.

Ma forse è proprio in esilio, all’ombra di una certa luce che aveva abbagliato, che ci è concesso di lasciar andare l’orgoglio, la pretesa nei confronti di un altro, l’illusione di essere quella tessera indivisibile e necessaria al suo esistere, quell’irrinunciabile pezzo mancante. Si ripete, allora, inesorabilmente il precipitare improvviso e senza fiato che appartiene già ad ogni infanzia, ad ogni bambino che impari a giocare con l’assenza. Gioco inconsapevole che inaugura un altro cammino, quando tace ogni domanda insistente e si distrugge il patto misurandosi con l’impossibile di ogni esistenza umana.

Nella poesia di Graziella Savoldi prende corpo una simile impresa: perduto ogni luogo e ogni tempo anche il paesaggio si rinchiude come il desiderio  «lama affilata che taglia il giorno e la notte».

Ora che il patto è sciolto, le tessere divise e l’altro introvabile, non bastano due mani che si annodano per scongiurare l’impossibile, filigrana invisibile della vita dell’uomo. Essa rivela nel silenzio che “Io. Tu. Noi… Nessuno. Siamo rimasti miraggi. Vacillanti nell’aria calda dell’estate”. (25) Il silenzio ne aveva annunciato la sorte, separando, come squarcio crudele, i due viandanti per riportarli nella storia.

Si spegne così la luce accecante delle infinite strade che si erano aperte e rimane solo l’ombra di un’assenza.

Tra le mille possibilità di una vita, una sola può essere presa, coltivata, desiderata, una piccola vocazione che tagli via ogni paradiso perduto. Proprio qui costruiamo ogni volta il luogo dell’addio, come per un appuntamento irrevocabile, quando un passo si muove e va oltre.

Percorsi di un lettore. Dal libro Acheminement di Gérard Albisson

Il primo pensiero alla lettura di questo piccolo e prezioso libro è stato che sarebbe davvero bello venir recensiti da un lettore così raffinato come Gérard Albisson. Duemila battute in cui è scritto tutto l’importante di un libro. Il lettore di una tale recensione si trova come se avesse davvero vicino il libro recensito, potendo coglierne l’essenziale, esserne introdotto da una lettura acuta, intelligente, in grado di aprire il suo proprio desiderio di lettore trasportato dall’entusiasmo del recensore.  O comunque, un ipotetico lettore, sarà agevolato dalla scelta di un libro che “a caso” un tale recensore ha “deciso” che recensirà afferrato da un titolo, l’immagine di copertina, o da una qualche frase letta in veloce distrazione ma comunque capace di colpire l’attenzione. E allora il libro viene letto, pensato, si cerca la sua cifra ed ecco che la recensione salta fuori, in una pagina, perché non gliene occorre di più, asciutta, precisa, diretta al cuore della questione che il libro presenta e allo spirito dello scrittore in grado di comunicarsi a un lettore che potrà così avvicinare a sua volta quel libro.

Tutto così diverso dalle fasulle recensioni fatte a comando nei quotidiani di oggi e di tutto il mondo. La «Revue des Deux Mondes» per cui Albisson scrive le recensioni ha uno stile inconfondibile, una libertà assoluta e non cede alle lusinghe del mercato e alle obbligazioni editoriali. Questo ha permesso a un ampio pubblico di entrare in contatto con libri, autori e titoli che forse non avrebbe mai sentito nominare e che non avrebbe mai avuto occasione di notare. La scelta dei libri da parte del gruppo dei redattori della rivista di rue de Lille, è una scelta libera, dove i libri passano di mano, vengono quasi ascoltati: ovvero, il recensore ascolta qualcosa del proprio desiderio di lettore e si immerge.

Ogni incontro dei redattori è una specie di seminario dice Albisson, che chiosa: «Ciascun libro passava più o meno velocemente di mano in mano, pagine girate, quarte di copertina percorse con rapidità, e in quel momento operava tutto il mistero della decisione e della possibilità di agire. Breve istante del destino: si tiene, si passa».

Libri che “ci trovano” dunque, dove ciascuno è libero di scrivere quel che coglie nella propria lettura, senza doversi inchinare alle esigenze del mercato ma solo a quel desiderio profondo di una nuova conoscenza, di un nuovo incontro che il libro apre e che il recensore trasferisce in scrittura per altri possibili lettori.

Poi, subito dopo quel desiderio appena accennato con pudore, la sorpresa di leggere qualcosa che assomiglia alla mia storia. Il viaggio, il libro, un panorama che fugge dal finestrino del treno. Come!, mi dico, come fa a sapere queste cose… di me! È stato questa emozione forte nel ritrovare pezzi della mia storia raccontati da un autore che ha vissuto la stessa intensità del viaggio e della lettura a decidermi immediatamente e senza alcuna considerazione ulteriore a tradurre Acheminement. Traduzione che, mi auguro davvero di cuore, abbia saputo rispettare il tono così alto e raffinato della scrittura di Albisson.

Viaggiare in treno, possibilmente soli, è una esperienza incomparabile, soprattutto se associata alla solitudine della lettura. Preparare il bagaglio e scegliere i libri che faranno da compagni di viaggio. Non uno, no, ma più libri che durante il viaggio si sfoglieranno, sul quale ci si soffermerà attratti dalla bellezza di una frase o anche di una sola parola in grado di aprire il nostro pensiero, che apre al viaggio nel viaggio esattamente come lo sguardo che si porge al paesaggio che fugge di là dal finestrino, quando l’occhio cattura il dettaglio fuggitivo che colpisce per la sua bellezza, che resta come un’impressione nell’animo. Così, la frase o il paesaggio, diventano scoperte di ciò che non si sapeva e di ciò che non si vedeva.

Chi viaggia solo con l’intenzione di spostarsi per raggiungere, e il più in fretta possibile, un luogo, non potrà mai cogliere l’essenza del viaggio, momento di conoscenza e di scoperta di sé concessa dalla grazia di un libro associata a quella di un paesaggio.

Oppure ci si potrà concentrare su un solo libro la cui lettura accompagna il viaggio, ed è un’esperienza nuova, diversa dalla concentrazione che si ha quando si legge seduti allo scrittoio o in poltrona. Quanti libri letti e anche scritti nei miei viaggi fra Torino e Venezia, Torino e Lione, Torino e Roma, Milano e Genova, Milano e Firenze, Milano e Parigi… O del mio primo viaggio in nave, memorabile, a quindici anni, per raggiungere la Sardegna.

La lettura in treno richiede un’attenzione fluttuante, continuamente interrotta dallo sguardo che coglie un’immagine che scorre veloce, ma non così veloce da non essere colta; interrompe la lettura e il pensiero vaga in altre direzioni. E in questo modo il nostro pensiero resta preso dentro il paesaggio e contemporaneamente dentro il libro, e i pensieri si mischiano, a volte si affastellano dispettosi, ma sempre curiosi nel loro andirivieni fra libro e paesaggio. Ogni viaggio su una stessa tratta rivela di volta in volta dettagli diversi. Accade così anche nella lettura di un libro quando ci si accorge, in una seconda lettura, di non aver colto certe frasi o certe parole: e quanti altri ritrovamenti in letture successive!

Ogni lettura ci mostra non tanto un altro libro quanto un’altra possibilità del nostro pensiero. Di volta in volta, di viaggio in viaggio, di lettura in lettura si può cogliere quel che non si era mai notato, a cui non si era ancora prestata attenzione: quel non ancora considerato che sempre apre, a ogni giro, un pensiero nuovo, una nuova scoperta.

Così Albisson, di pagina in pagina, di libro in libro, ci presta il suo sguardo acuto, il suo tendere all’essenziale, il suo proporci un ascolto che apre al desiderio della lettura.