Pas d’adieu

“Ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…”
Cristina Campo

 

Ogni addio compiuto ha varcato una soglia e diventa misura del tempo per ogni «storia smisurata», antidoto contro la presunzione di eternità di una vita, di un legame.

Dire addio oltrepassa il potere della parola, della nostalgia e del rimpianto, figli dell’amore perduto che per un tempo infinito ha continuato a sedurre e catturare dolcemente.

È nella poesia che Graziella Savoldi cerca questa misura, in una lotta con la parola che in questo tempo della sua vita ritrova spoglia, disabitata da una voce, come ogni traccia del passato che incontra nel suo andare. Poesie erranti che cercano casa in un paesaggio inciso da una storia primordiale scavata dal tempo, forme di minerali nella roccia, stalattiti rinchiuse nelle grotte, elementi che da tempo immemore custodiscono l’estraneità che insiste nelle cose. Un’estraneità che appare a torto addomesticata dall’illusoria familiarità di un bosco, dal corso inarrestabile di un fiume, da un cielo stellato. Ma passo dopo passo, questo paesaggio diviene inquietante, silenzio senza presenza, ostile perché resiste al ricordo, preferendo narrare del cammino di quei due viandanti che cercavano insieme «una strada nell’infinito» e hanno trovato invece «l’inconsapevole corsa» che porta su strade diverse.

Se il silenzio appartiene ad ogni congedo, poiché fa i conti con una parola perduta, sempre evocata, orfana della voce, del tocco dell’altro; il ricordo è balsamo per la memoria, perché fa accadere l’accaduto ancora una volta, riordinando quelle tracce e quelle impronte, quei suoni e quegli sguardi che l’assenza rapisce, e consuma avidamente. Allora, nel paesaggio che arresta il suo divenire troviamo, come cristalli nella roccia, i reperti di un sogno spezzato; ripercorriamo i cammini nella conta dei passi, come in un’antica mappa che non può guidarci al mutar delle cose: “ritorno sull’acqua passata e cerco nell’acqua più fonda un luogo dove nacque l’addio”. Ma l’acqua del fiume porta via irrispettosa ogni residua possibilità.

È un aggirarsi tra tracce dissipate (20) in cerca del luogo dove quell’addio è incominciato, per poterlo finalmente nominare, fermare, custodirlo, trasformandolo in un altrove dove le parole non dette “rimaste nella… bocca” possano avere un’altra possibilità, ritrovare la fenditura di una voce per vivere ancora tutte le occasioni mancate. Uno sguardo distratto, un cammino incerto hanno trattenuto invano quel bene perduto “inciampo sempre nei passi non fatti”. (31) Si cerca l’antica forma creata dagli occhi di un altro, rubata a uno sguardo catturato allo specchio, come un vestito da indossare ancora, ingannando il tempo.

Ma è concesso alla parola, unicamente alla parola, speranza di durata, affidandole le tracce preziose di un incontro, come sigillo o voto mai pronunciato?

Come l’acqua del fiume le parole andarono. E non tornarono più”, disabitate dalla voce dell’altro.

Eppure quell’incontro aveva inaugurato un tempo inaspettato, nomi nuovi che spezzavano la storia, un cammino inedito che risveglia una “lingua non parlata” rimasta in attesa; si schiude per la prima volta qualcosa di ignoto di cui solo un altro possiede la chiave. «Il tocco delle tue mani portava il richiamo della lingua non parlata». (p.11) Un nuovo creato prende forma quando la parola si addensa della potenza dell’altro che reinventa le cose, del suo sguardo, del suo riso: «Una risata… che irrompe e conquista la terra» (39), una terra inviolata, luogo di privilegio degli amanti «dove ogni piede alzato fu un passo. E inventò la strada», ma «in punta di piedi la vita ci piegò tra preghiera e peccato».

In agguato, senza farsi sentire, all’insaputa degli amanti, la vita spezza il filo dell’aquilone. Non bastano più mani di bambino a trattenere l’amore, perché «il serpente e l’albero della vita svaniscono nell’ombra».      Cacciati dall’Eden e condannati al mondo, rimane agli amanti solo l’eco lontana e irresistibile di ciò che è stato, come canto di sirena che li condanna a cercare ancora tra quelle macerie, in una terra d’esilio oscura e dolente.

Ma forse è proprio in esilio, all’ombra di una certa luce che aveva abbagliato, che ci è concesso di lasciar andare l’orgoglio, la pretesa nei confronti di un altro, l’illusione di essere quella tessera indivisibile e necessaria al suo esistere, quell’irrinunciabile pezzo mancante. Si ripete, allora, inesorabilmente il precipitare improvviso e senza fiato che appartiene già ad ogni infanzia, ad ogni bambino che impari a giocare con l’assenza. Gioco inconsapevole che inaugura un altro cammino, quando tace ogni domanda insistente e si distrugge il patto misurandosi con l’impossibile di ogni esistenza umana.

Nella poesia di Graziella Savoldi prende corpo una simile impresa: perduto ogni luogo e ogni tempo anche il paesaggio si rinchiude come il desiderio  «lama affilata che taglia il giorno e la notte».

Ora che il patto è sciolto, le tessere divise e l’altro introvabile, non bastano due mani che si annodano per scongiurare l’impossibile, filigrana invisibile della vita dell’uomo. Essa rivela nel silenzio che “Io. Tu. Noi… Nessuno. Siamo rimasti miraggi. Vacillanti nell’aria calda dell’estate”. (25) Il silenzio ne aveva annunciato la sorte, separando, come squarcio crudele, i due viandanti per riportarli nella storia.

Si spegne così la luce accecante delle infinite strade che si erano aperte e rimane solo l’ombra di un’assenza.

Tra le mille possibilità di una vita, una sola può essere presa, coltivata, desiderata, una piccola vocazione che tagli via ogni paradiso perduto. Proprio qui costruiamo ogni volta il luogo dell’addio, come per un appuntamento irrevocabile, quando un passo si muove e va oltre.