Partiamo da “un” Asparago. Già solo uno! Ci si sofferma quasi di sfuggita davanti a questo piccolo quadro costruito sinteticissimamente, ton sur ton fra nuance di bianco latteo, grigi e malva.
Il “modello” è lì in bilico su un bordo di un piano di marmo dalle venature di un colore vicinissime a quello dell’asparago. Il piccolo quadro del 1880 viene colto dal visitatore quasi di sfuggita, mentre con gli occhi è alla ricerca dei capolavori di Manet nella mostra a Palazzo Reale a Milano intitolata Manet e la Parigi moderna, aperta fino al 2 luglio, con la curatela del presidente del Musee d’Orsay Guy Cogeval. Eppure è questo asparago che ci prende per il naso e che fa ripensare al breve ironico apologo di Achille Campanile, Asparagi e l’immortalità dell’anima, a offrirci un saggio sulla quintessenza del dipingere di Eduard Manet. Basta leggere la scheda di presentazione all’operina nel catalogo Skira per cogliere la vena umoristica dell’artista: «Questo piccolo dipinto venne donato da Manet a Charles Ephrussi, storico dell’arte, editore della “Gazette des Beaux-Arts” e banchiere che gli aveva comprato il quadro Un mazzo di asparagi. Poiché Ephrussi aveva pagato una cifra superiore a quella richiesta, l’artista gli inviò L’asparago accompagnato dalle seguenti parole: “Al suo mazzo ne mancava uno”.» Spiritoso e ironico Eduard Manet, ma attenzione: l’opera di soli 16×21 centimetri, non è un regaluccio semplice, rivela tutto il talento di un artista e come scrive Georges Bataille, «Questa non è una natura morta come le altre! Morta, sì, ma al contempo vivace.» È un realismo straordinariamente tangibile quello di Manet, dato da una pittura nervosa, sincopata, fatta di tache, macchie e righi veloci, spregiudicata, ma da non confondere mai con quella impressionista; seppure l’artista venga riconosciuto da Bazille, Renoir, Monet come il loro maestro e il capofila, Manet rifiuterà sempre di esporre con loro, gli Intransigenti, questo il primo nome del gruppo degli impressionisti. Manet va sempre alla ricerca di quel riconoscimento ufficiale, di quella patente accademica che a Parigi offriva solo il Salon, voleva essere un classico. E lo è. La sua meditazione sulla pittura classica è proprio quella che ne beve la lezione più vera e non la imita, ma la rende moderna. Manet a lungo non sarà compreso. Le sue opere saranno dileggiate, irrise e ritenute scandalose: da Le déjeuner sur l’herbe dove un nudo femminile è esibito in compagnia di due gentiluomini parigini vestiti di tutto punto, alla nudissima, sprezzante e invitante Olympia; la donna con uno sguardo da “Nessuno mi può giudicare” guarda direttamente lo spettatore adescandolo, indossa solo un perverso collarino nero e dondola sciatta una ciabattina verde. Questa non è certo una posa da dea, i cui corpi perfetti dal vellutato color di mandorla venivano ammessi nella loro nudità sui quadri degli artisti accademici, da Ingres a Cabanelle in testa, ma qui invece c’è un corpo da pasto per i voyeur di una casa chiusa. L’ Olympia non è in mostra, ma ce n’è una copia che occhieggia da un altro capolavoro di Manet: Il ritratto di Emile Zola del 1868, dove lo scrittore di Nanà e del J’accuse è lo strenuo difensore della “pittura moderna” di Manet con Baudelaire e il poeta Mallarmè, il cui ritratto fluido e melanconico è pure in mostra.
Nel quadro dietro a Zola di coltello occhieggia la riproduzione di quell’Olympia che sembra guardare riconoscente verso chi, in modo profetico, l’aveva definita un “capolavoro” degno del Louvre. In realtà sono proprio gli elementi di contorno al profilo da medaglia, inespressivo e statico di Zola, ad essere una cartina di tornasole, anzi una “summa” dell’arte di Manet. Insomma questo non è il ritratto di Zola, ma l’autoritratto indiretto dello stesso artista francese e dei fondamenti del suo dipingere moderno: l’arte giapponese e Velázquez. Il Giappone arriva in Francia proprio come la Grande Onda di Hokusai. Essenzialità e bidimensionalità colpiscono Manet come tutti gli Impressionisti; nel quadro il paravento nipponico e una stampa di Utamaro testimoniano questo amore. Ed ecco poi la Spagna con la presenza nell’opera di una incisione dai Borrachos (I beoni) di Velázquez, «il pittore dei pittori», afferma Manet quando, giunto in Spagna nel 186, vistando il Prado viene incantato dal Buffone Pablo di Valladolid di Velázquez, tanto da raccontare all’amico Fantin Latour: «Lo sfondo scompare: è solo aria, che circonda questo buffone di corte» E aria sia! Ed è quella che circonda l’icona della mostra: Il piffero – Le fifre del 1866.
La tavolozza dei colori è ridotta all’essenziale, lo spazio è privo di profondità: unico accenno alla tridimensionalità è l’esile ombra dietro al piede sinistro. Si distingue a malapena il confine tra il piano orizzontale del pavimento e quello verticale dello sfondo, perché il Piffero è quasi sospeso nell’”aria” grigia uniforme, con pochissime sfumature e totalmente spoglia.
Ed è un rumor di nacchere e toreade nella sala della mostra “L’heure Espagnole”. Nel Combattimento di Tori (1866) la massa furoreggiante è data solo da brevi macchie indistinte, quasi en attendant Picasso, mentre il critico dell’epoca, Edmond About, descrive il quadro come “un torero di legno ucciso da un topo” per evidenziarne gli “errori” di prospettiva.
Pifferi e massa, clochard e miserabili , tutti senza distinzione tra alto e basso, sono i muti testimoni della Vita moderna che dà il titolo alla mostra, così come la vorticante ballerina gitana del dipinto Lola di Valnciaq, o La cameriera della birreria, del 1878-79, con i suoi boccaloni in equilibrio, ma dallo sguardo fisso e indagativo, quasi non sentisse dietro di lei il can can del ballo; drasticamente segata a metà la cantante, con un vero taglio della disciplina emergente, la fotografia.
Sguardi persi, solitudine e ombre che salgono fino al mistero nero del Balcone.
In bianco abbagliante c’è l’amata Berthe Morisot, sua modella, cognata e pittrice, accanto una coppia di amici, e dietro, nel buio di gazza, il figlio Leon: immobili, come persi in un vuoto interiore. Il quadro fa nuovamente scandalo. “Chiudete le imposte!” ironizza il caricaturista Cham, ma ormai, per mano di Manet, i neri abissi della psiche si fanno largo nella vita moderna.
Bellissima descrizione…cosa darei per conoscere i pensieri di Berthe…