Artaud, il teatro e il suo oppio

«L’attore è un atleta del cuore»: non è lo slogan di qualche iniziativa benefica in favore delle cardiopatie rare, ma un’affermazione di Antonin Artaud, il teorico di quel “teatro della crudeltà” che aspirava a propagarsi come una peste per ridestare la scena dal rigor mortis estetizzante degli allestimenti ben fatti, liberando lo spettacolo dalla soggezione al testo. Chissà quante volte avrei voluto averlo accanto a me, Artaud, col suo ciuffo ribelle spiovente sulla fronte, gli occhi allucinati dal peyote e dai troppi elettroshock, durante qualche spettacolo del Living Theatre o dell’Odin di Eugenio Barba, oppure in certe edizioni del Festival di Santarcangelo farcite di attori Kathakali e danzatori balinesi.

«Sei soddisfatto?» avrei voluto chiedergli, strizzati fra il pubblico in trance ipnotica, celebrando il rito primigenio del teatro mescolato all’odore di piadina e salsicce sfrigolanti.

Chissà cosa risponderebbe oggi Artaud, nato a Marsiglia il 4 settembre 1896 e morto settant’anni fa, il 4 marzo 1948, per una dose letale di cloralio. La sua rivoluzione teatrale è riuscita al punto di rovesciarsi quasi nel suo contrario: un nuovo manierismo. E forse Artaud dovrebbe rimettersi in cammino verso il paese degli indios Tarahumara, come fece nel ’36 durante quel soggiorno in Messico che segnò il suo simbolico distacco dagli “antichi parapetti d’Europa”. S’allontanava da un mondo «in cui, a parte il fatto di avere un corpo, (…), tutto è falso». E in questa falsità rientrava, in primo luogo, la vil razza dannata dei letterati che «hanno punti di riferimento nello spirito, in posti ben localizzati del cervello, che sono padroni della loro lingua».

Non la padronanza, ma lo spossessamento, la liberazione dalle trappole della psicologia e della razionalità attraverso l’energia del corpo Artaud andò cercando nel corso d’una vita matta e disperatissima : «Ogni emozione ha basi organiche. Coltivando l’emozione nel suo corpo, l’attore ne ricarica la densità voltaica»

Antonin Artaud
Antonin Artaud

Figlio d’un capitano di lungo corso e d’una madre d’origine turca, a quattro anni s’ammalò d’una grave forma di meningite, alla base dei suoi successivi problemi neurologici. Dopo un breve arruolamento nell’esercito, dal quale si fece subito scartare per sonnambulismo, finì in sanatorio dove le cure a base di laudano lo resero schiavo degli oppiacei. Nel 1920 Artaud si trasferisce a Parigi e si lega ai surrealisti. L’incontro con l’impresario-regista Lugné-Poe gli apre la via del teatro come attore e scenografo. In seguito collabora con Charles Dullin, poi con Georges e Ludmilla Pitoëff. Lavora anche nel cinema, con Dreyer e soprattutto con Abel Gance. Alla fine del ’26, quando i surrealisti aderiscono al partito comunista francese, Artaud si dissocia e fonda con Roger Vitrac il Théâtre Alfred Jarry. Ma l’incontro fondamentale avviene nel’31 con il teatro balinese: danza, canto, pantomima «e pochissimo di teatro psicologico quale lo intendiamo noi in Occidente» scriverà ne Il teatro e il suo doppio. È il modello di spettacolo puro, che «vale ed esiste esclusivamente nella misura in cui si oggettiva sulla scena». Nascono i due manifesti sul Teatro della crudeltà (1932 e ’33): niente a che fare col sadismo, si tratta di spezzare una volta per tutte la soggezione del teatro al testo, ritrovando un linguaggio a metà strada fra gesto e pensiero. Ma nel’35 il suo allestimento de I Cenci si risolve in un fiasco. Da qui s’apre una lunga stagione all’inferno. Artaud viene internato in manicomio: cinquantuno coma da elettroshock in nove anni sono il tragico bilancio di questo “teatro della crudeltà” psichiatrico, contro il quale nel ’47 esprimerà la sua estrema ribellione nel saggio Van Gogh il suicidato della società. Il 4 marzo del’48 lo trovano morto nella sua stanza con una scarpa in mano, assorto per sempre in una definitiva trance magica.

Roberto Barbolini

Dal sintomo del bambino al bambino come sintomo

(Nota a Il bambino, padre dell’uomo, di P. L. Assoun)

In Il bambino, padre dell’uomo, al capitolo intitolato Al di là della “psicologia del bambino”, Paul Laurent Assoun osserva che il termine Kinderpsychologie ha “un senso peggiorativo sotto la penna di Freud”, e in nota precisa che “il punto di vista kinderpsychologisch sovrastima la portata dell’accesso terapeutico alla verità del bambino”. In effetti, l’accesso alla verità del bambino, Freud non lo realizza attraverso l’analisi dei bambini (che non ha mai praticato e che è impraticabile: il “caso clinico del piccolo Hans” è estraneo all’autore di Analyse der Phobie eines fiinfjahrigen Knaben) ma attraverso l’analisi degli adulti nevrotici, giungendo alla conclusione – come precisa Assoun – che oggetto della psicanalisi non sono le vicissitudini (o, come si ama dire oggi, i “vissuti”) di questo o quel bambino, ma il Bambino, das Kind (o l’Infantile, da non confondere con l’infantilismo), in quanto non è altro che l’inconscio dell’adulto. Così, “un fenomeno psichico che finora si è sottratto a ogni spiegazione”: diese Kindheitamnesie der Menschheit, l’amnesia che colpisce e fa sprofondare nell’oblio tutta la prima infanzia, la quale diviene per “ciascun individuo per cosi dire una specie di epoca preistorica” (Freud), viene a coincidere con la “rimozione primaria”, costitutiva dell’inconscio; al tempo stesso, tutto ciò che riguarda la nostalgia per l’infanzia come Paradiso perduto non è altro che “ricordo di copertura” con cui l’adulto si compiace di ingannarsi sulla propria origine. Ciò che viene coperto non è questo o quel particolare “vissuto” rimosso, ma il dramma, o se si preferisce la “struttura universale”, attraverso cui ciascun soggetto deve passare per poter essere un uomo o una donna, e per poter essere mortale: il complesso di Edipo e le teorie sessuali infantili che lo introducono. L’analisi della fobia del piccolo Hans ci rivela che la fobia non era altro, per lui, che la soluzione o la risposta insufficiente e inadeguata ai fondamentali enigmi della vita su cui il bambino – ogni bambino − è impegnato a indagare, spinto dalla “pulsione di sapere o di ricerca” (Wiß- oder Forschertrieb): la differenza dei sessi; la nascita e il ruolo per lui ancora impensabile che vi gioca il padre (“da dove vengono i bambini?”); il “rapporto sessuale” tra un uomo e una donna.

A questi enigmi il bambino risponde formulando tre teorie: 1. Tutti gli esseri animati, indistintamente, sia maschi che femmine, sono dotati di un fallo (teoria “panfallica”) 2. I bambini nascono dall’ano (teoria “cloacale”) 3. Il coito tra i genitori è una lotta violenta dove ci si ferisce (teoria “sadistica”).

Quel che innanzitutto importa sottolineare è che non si tratta di fantasie, ma di autentiche teorie elaborate dal bambino, considerato da Freud alla stregua di un pensatore, sulla base dei dati fornitigli dalla propria esperienza (necessariamente incompleta); teorie che egli formula nel rifiuto di quelle propostegli dagli adulti, che si tratti di quella classica della cicogna (bersaglio di un umorismo esilarante da parte del piccolo Hans), o di quella scientifica sul reale della sessualità.

In proposito, una considerazione tratta dalla clinica s’impone : mentre nelle analisi dei nevrotici, pronti a conformarsi alla vulgata scientifica, si ritrovano sempre, immutate nell’inconscio, le teorie sessuali infantili; negli psicotici ritroviamo solo le teorie scientifiche (insieme a dei deliri cosmologici), mentre le teorie infantili mancano, come se non fossero mai state elaborate. Questa considerazione è solo un’indicazione, anche se potrebbe fornire, se avvalorata dall’esperienza, un criterio per la diagnosi differenziale. Ma soprattutto essa mostra che la grottesca “’istruzione sessuale” propinata ai bambini nella scuola (che per un momento aveva tentato anche un Freud vittima delle belle speranze dell’Aufklärung), con tutta l’autorità scientifica e istituzionale che la sostiene non riesce nemmeno a scalfire le teorie sessuali infantili, che, se ci fanno permanere sessualmente “immaturi”, in qualche modo ci proteggono dal delirio di attribuire la paternità allo spermatozoo − come se l’accertamento della paternità potesse essere di potestà della scienza (quando accade, si produce un serial horror come quello che ha “interessato” il cadavere di Yves Montand).

Il grottesco è parte costitutiva della Kinderpsychologie, cosa che Assoun non manca di mettere bene in rilievo: “Tutto un movimento dell’immaginario sociale gioca con la psicologia del bambino, accordando con ghiottoneria una psicologia al bambino, concepito come una ‘piccola persona’. Il che permette, del resto, di proiettare senza vergogna l’immaginario adulto – il più infantilizzante – sulla piccola persona, come dimostra la povertà della maggior parte degli scenari nei quali è presumibilmente data la parola al bambino. Questa potrebbe essere l’ultima resistenza alla teoria dell’infantile. Essa [silicet : la resistenza] non si è indebolita, ma addirittura esce rinforzata, senza dubbio, attraverso gli alibi di questa specie di ‘personalizzazione feticizzante’ del bambino”.

Paul Laurent Assoun
Paul Laurent Assoun

Spingendosi più lontano, in quelle che sono le pagine più “politiche” del suo testo, Assoun invoca la “rottura con ogni ‘psicologia del bambino”: “Per dire la cosa in modo radicale, supporre una psicologia nel bambino significa mirare al di fuori dell’obiettivo che Freud vuole appunto cogliere: è del Bambino che si tratta. Ciò che gli interessa non è tanto l’inconscio dei bambini – ci si arena abbastanza pietosamente nell’evocarlo, non appena uno vi si immischi – quanto l’infantile, che pone ogni soggetto inconscio sotto l’egida del Bambino”.

Allora, la domanda posta agli psicologi dell’infanzia, ma che vale per tutti dato che tutti gli adulti lo sono chi più chi meno, è : come può esistere una “psicologia del bambino” distinta e separata da quella dell’adulto, quasi che il bambino appartenesse a una specie aliena dal genus umano? In effetti, una volta che il bambino è stato isolato in un suo “mondo” e gli è stata imputata una speciale psicologia, sorge logicamente il problema di “come comunicare” con lui e di “come interpretare” le sue parole e i suoi comportamenti. “Capire il bambino” diventa una esigenza meno “psicologica” o pedagogica che culturale, perché concerne il problema di integrare l’alieno nella civiltà, di educarlo ai nostri usi e costumi, di dargli una Legge morale che freni e regolamenti i suoi “istinti”. La psicologia dell’infanzia viene così ricondotta all’antropologia, supportata, per i casi ineducabili, perfino dall’etologia, come avviene per il bambino cosiddetto “autistico”, a cui sono stati dedicati importanti studi in materia. Il “mondo del bambino” – non meno del “mondo dell’autismo” – è un delirio. Assoun conclude: “A rischio di accrescere lo stock disponibile di formule gnomiche provocatorie, si potrebbe avanzare quella che il bambino non esiste.” La raccolgo e la rilancio in questi termini: al di là del prestare ascolto al sintomo del bambino, in quanto, come osserva Lacan nelle sue Note sul bambino, “è nel posto cruciale per rispondere a ciò che vi è di sintomatico nella struttura familiare”, non potremmo considerare il bambino come il sintomo dell’adulto ? – sintomo di cui la psicologia dell’infanzia (e dell’età evolutiva) verrebbe a occupare il posto “per introdurre i bambini umiliati nella menzogna – con dolcezza, a poco a poco, impercettibilmente” , scrive Kafka. (Indagini di un cane [1922], passo soppresso). E conclude: “E andò sempre peggio quando fui adulto, ma non disposto a cedere”.