È simile a dei ragazzi che stanno nelle piazze e gridano a altri, dicendo: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato lamenti e non vi siete battuti il petto Matteo 11, 16-17
Nella mia ultima lettera, scrivevo a Giovanni Sias di avere terminato di costruire i file di stampa e di copertina del libro, da lui curato, delle interviste inedite a Giuseppe Pontiggia rimaste nel cassetto per trent’anni – quel libro a cui dichiarava di tenere più di ogni altro.1 La sua estrema volontà era di saperlo certamente pubblicato, anche se forse non avrebbe avuto il piacere di tenerlo tra le mani. Stavo per inviare i file in tipografia, quando Daniela Marcheschi (a cui si deve la Prefazione) mi ha inviato una quarantina di indirizzi di articolisti che lo avrebbero recensito su quotidiani e riviste. Si poneva così la questione di chi dovesse ricevere i libri stampati e occuparsi degli invii. Date le condizioni di Sias, spettava a me il compito di soddisfare il suo estremo desiderio. La lettera con cui lo rassicuravo in tal senso non ha fatto in tempo a raggiungerlo in vita. Ma la sua risposta mi è giunta in sogno, la notte di ferragosto.
Mi trovo nella casa in cui sono nato e vengo sorpreso dallo squillo imperioso del campanello. Mentre vado ad aprire, i miei movimenti sono lenti e pesanti, mi trascino con grande sforzo verso la porta, mentre tutto il mio corpo sembra opporsi. En passant, scorgo in un letto la sagoma informe di mio padre, completamente sepolto sotto un ammasso di coperte. Quanto meno, penso, uno “straccio di padre” ce l’ho (avuto). Apro infine la porta di casa e nel buio delle scale intravvedo “l’ombra di un volto imperscrutabile nell’ombra”. Nonostante l’angoscia, non mi sveglio. Con uno sforzo penoso trovo la voce per chiedere: – Per chi è la consegna? – È per te, mi sento rispondere.
Nel sogno riconosco i tratti pavidi della nevrosi (se l’angoscia mi avesse svegliato, la capitolazione sarebbe stata completa), che ad ogni invocazione, ad ogni promozione di un’investitura, si aggrappa a uno straccio di padre e volentieri si schermisce: destinatario assente, si prega di ripassare. Non senza motivo: la consegna va ben al di là di un compito editoriale, per affidarmi (insieme ad altri: cuique suum), un’eredità spirituale ancora tutta da stimare, l’esito di una ricerca all’insegna del motto della Lega anseatica caro a Freud: navigare necesse est, vivere non necesse.Leggi tutto “La consegna di Giovanni Sias”
(Nota a Il bambino, padre dell’uomo, di P. L. Assoun)
In Il bambino, padre dell’uomo, al capitolo intitolato Al di là della “psicologia del bambino”, Paul Laurent Assoun osserva che il termine Kinderpsychologie ha “un senso peggiorativo sotto la penna di Freud”, e in nota precisa che “il punto di vista kinderpsychologisch sovrastima la portata dell’accesso terapeutico alla verità del bambino”. In effetti, l’accesso alla verità del bambino, Freud non lo realizza attraverso l’analisi dei bambini (che non ha mai praticato e che è impraticabile: il “caso clinico del piccolo Hans” è estraneo all’autore di Analyse der Phobie eines fiinfjahrigen Knaben) ma attraverso l’analisi degli adulti nevrotici, giungendo alla conclusione – come precisa Assoun – che oggetto della psicanalisi non sono le vicissitudini (o, come si ama dire oggi, i “vissuti”) di questo o quel bambino, ma il Bambino, das Kind (o l’Infantile, da non confondere con l’infantilismo), in quanto non è altro che l’inconscio dell’adulto. Così, “un fenomeno psichico che finora si è sottratto a ogni spiegazione”: diese Kindheitamnesie der Menschheit, l’amnesia che colpisce e fa sprofondare nell’oblio tutta la prima infanzia, la quale diviene per “ciascun individuo per cosi dire una specie di epoca preistorica” (Freud), viene a coincidere con la “rimozione primaria”, costitutiva dell’inconscio; al tempo stesso, tutto ciò che riguarda la nostalgia per l’infanzia come Paradiso perduto non è altro che “ricordo di copertura” con cui l’adulto si compiace di ingannarsi sulla propria origine. Ciò che viene coperto non è questo o quel particolare “vissuto” rimosso, ma il dramma, o se si preferisce la “struttura universale”, attraverso cui ciascun soggetto deve passare per poter essere un uomo o una donna, e per poter essere mortale: il complesso di Edipo e le teorie sessuali infantili che lo introducono. L’analisi della fobia del piccolo Hans ci rivela che la fobia non era altro, per lui, che la soluzione o la risposta insufficiente e inadeguata ai fondamentali enigmi della vita su cui il bambino – ogni bambino − è impegnato a indagare, spinto dalla “pulsione di sapere o di ricerca” (Wiß- oder Forschertrieb): la differenza dei sessi; la nascita e il ruolo per lui ancora impensabile che vi gioca il padre (“da dove vengono i bambini?”); il “rapporto sessuale” tra un uomo e una donna.
A questi enigmi il bambino risponde formulando tre teorie: 1. Tutti gli esseri animati, indistintamente, sia maschi che femmine, sono dotati di un fallo (teoria “panfallica”) 2. I bambini nascono dall’ano (teoria “cloacale”) 3. Il coito tra i genitori è una lotta violenta dove ci si ferisce (teoria “sadistica”).
Quel che innanzitutto importa sottolineare è che non si tratta di fantasie, ma di autentiche teorie elaborate dal bambino, considerato da Freud alla stregua di un pensatore, sulla base dei dati fornitigli dalla propria esperienza (necessariamente incompleta); teorie che egli formula nel rifiuto di quelle propostegli dagli adulti, che si tratti di quella classica della cicogna (bersaglio di un umorismo esilarante da parte del piccolo Hans), o di quella scientifica sul reale della sessualità.
In proposito, una considerazione tratta dalla clinica s’impone : mentre nelle analisi dei nevrotici, pronti a conformarsi alla vulgata scientifica, si ritrovano sempre, immutate nell’inconscio, le teorie sessuali infantili; negli psicotici ritroviamo solo le teorie scientifiche (insieme a dei deliri cosmologici), mentre le teorie infantili mancano, come se non fossero mai state elaborate. Questa considerazione è solo un’indicazione, anche se potrebbe fornire, se avvalorata dall’esperienza, un criterio per la diagnosi differenziale. Ma soprattutto essa mostra che la grottesca “’istruzione sessuale” propinata ai bambini nella scuola (che per un momento aveva tentato anche un Freud vittima delle belle speranze dell’Aufklärung), con tutta l’autorità scientifica e istituzionale che la sostiene non riesce nemmeno a scalfire le teorie sessuali infantili, che, se ci fanno permanere sessualmente “immaturi”, in qualche modo ci proteggono dal delirio di attribuire la paternità allo spermatozoo − come se l’accertamento della paternità potesse essere di potestà della scienza (quando accade, si produce un serial horror come quello che ha “interessato” il cadavere di Yves Montand).
Il grottesco è parte costitutiva della Kinderpsychologie, cosa che Assoun non manca di mettere bene in rilievo: “Tutto un movimento dell’immaginario sociale gioca con la psicologia del bambino, accordando con ghiottoneria una psicologia al bambino, concepito come una ‘piccola persona’. Il che permette, del resto, di proiettare senza vergogna l’immaginario adulto – il più infantilizzante – sulla piccola persona, come dimostra la povertà della maggior parte degli scenari nei quali è presumibilmente data la parola al bambino. Questa potrebbe essere l’ultima resistenza alla teoria dell’infantile. Essa [silicet : la resistenza] non si è indebolita, ma addirittura esce rinforzata, senza dubbio, attraverso gli alibi di questa specie di ‘personalizzazione feticizzante’ del bambino”.
Spingendosi più lontano, in quelle che sono le pagine più “politiche” del suo testo, Assoun invoca la “rottura con ogni ‘psicologia del bambino”: “Per dire la cosa in modo radicale, supporre una psicologia nel bambino significa mirare al di fuori dell’obiettivo che Freud vuole appunto cogliere: è del Bambino che si tratta. Ciò che gli interessa non è tanto l’inconscio dei bambini – ci si arena abbastanza pietosamente nell’evocarlo, non appena uno vi si immischi – quanto l’infantile, che pone ogni soggetto inconscio sotto l’egida del Bambino”.
Allora, la domanda posta agli psicologi dell’infanzia, ma che vale per tutti dato che tutti gli adulti lo sono chi più chi meno, è : come può esistere una “psicologia del bambino” distinta e separata da quella dell’adulto, quasi che il bambino appartenesse a una specie aliena dal genus umano? In effetti, una volta che il bambino è stato isolato in un suo “mondo” e gli è stata imputata una speciale psicologia, sorge logicamente il problema di “come comunicare” con lui e di “come interpretare” le sue parole e i suoi comportamenti. “Capire il bambino” diventa una esigenza meno “psicologica” o pedagogica che culturale, perché concerne il problema di integrare l’alieno nella civiltà, di educarlo ai nostri usi e costumi, di dargli una Legge morale che freni e regolamenti i suoi “istinti”. La psicologia dell’infanzia viene così ricondotta all’antropologia, supportata, per i casi ineducabili, perfino dall’etologia, come avviene per il bambino cosiddetto “autistico”, a cui sono stati dedicati importanti studi in materia. Il “mondo del bambino” – non meno del “mondo dell’autismo” – è un delirio. Assoun conclude: “A rischio di accrescere lo stock disponibile di formule gnomiche provocatorie, si potrebbe avanzare quella che il bambino non esiste.” La raccolgo e la rilancio in questi termini: al di là del prestare ascolto al sintomo del bambino, in quanto, come osserva Lacan nelle sue Note sul bambino, “è nel posto cruciale per rispondere a ciò che vi è di sintomatico nella struttura familiare”, non potremmo considerare il bambino come il sintomo dell’adulto ? – sintomo di cui la psicologia dell’infanzia (e dell’età evolutiva) verrebbe a occupare il posto “per introdurre i bambini umiliati nella menzogna – con dolcezza, a poco a poco, impercettibilmente” , scrive Kafka. (Indagini di un cane [1922], passo soppresso). E conclude: “E andò sempre peggio quando fui adulto, ma non disposto a cedere”.
Nel film di Costa Gravas Music box. Prova d’accusa (1989), “ispirato a un fatto realmente accaduto”, nel corso di un processo un testimone-chiave commette un lapsus che rivela palesemente la falsità della sua deposizione. L’attenta Difesa interviene prontamente ma l’obiezione dell’Accusa – che si è in tutta evidenza trattato di un lapsus – viene immediatamente accolta dal giudice: il lapsus non costituisce prova giuridica e deve pertanto essere stralciato dagli atti processuali. Come non detto.
Ciò che vale per il lapsus vale per l’inconscio, che può vivere solo ai confini del diritto, delle istituzioni e delle regole che danno ordine alla società, in una dimensione indefinita e non bene individuata. Se il diritto avanzasse delle pretese sull’inconscio a qualsiasi titolo, ci troveremmo di fronte al peggiore dei totalitarismi: fare dell’inconscio un “oggetto” di regolamentazione, una materia da normare. Ne conseguirebbe un’appartenenza senza limiti dell’individuo allo Stato, inclusa quella parte di sé stesso che egli non conosce, su cui la sua coscienza non ha giurisdizione, quel “resto” che sfugge a ogni logica della rappresentazione e di cui non si può essere privati senza perdere la propria singolarità[1]. Parafrasando Lucien Jaume: «L’inconscio non è un’entità che lo Stato si trova davanti, e che costituirebbe il suo limite e il suo ostacolo; esso è piuttosto “altrove”, come il suo rovescio silenzioso […]»[2].
Lo stesso si può dire della psicanalisi e dello psicanalista.
Quando Lacan definisce lo psicanalista un rebut de la société, uno scarto, un rifiuto della società, non intende farne qualcosa di particolarmente eroico, ma solo indicare che chi vuole praticare la psicanalisi deve accettare di rimanere in questo “altrove”, «ai confini delle terre giuridicamente accatastabili», secondo un’espressione di Guy Le Gaufey. Questa fondamentale indeterminatezza giuridica, politica, sociale, è già tutta inscritta nella mancanza di fini della psicanalisi.
Lo psicanalista non saprebbe dichiarare in anticipo la finalità del suo atto, e nemmeno dire “che cosa fa” in ogni seduta e “a cosa serve” quello che fa, salvo aggrapparsi all’alibi di sempre: la finalità terapeutica. Non appena all’analisi viene attribuito un qualsiasi fine o scopo ben determinato (l’adattamento alla realtà, il raggiungimento di obiettivi sociali, il rafforzamento dell’io, la crescita e l’affinamento personale, la conoscenza di sé stessi, la “maturazione genitale”, un qualsiasi compito terapeutico, educativo, epistemologico, morale, etico), essa perde la sua indeterminatezza e l’analista acquista ipso facto una precisa funzione o missione sociale, requisito imprescindibile per acquisire – che lo voglia o no – un’identità professionale[3].
Perché nel suo caso non può essere possibile? Perché la psicanalisi non può essere una professione[4] – regolamentata o no –, senza peraltro che ci sia alcun bisogno di invocare nei suoi confronti un “vuoto giuridico”? Abbiamo già risposto: a causa dell’indeterminatezza dei suoi fini, che è addirittura assunta a principio metodologico nella “regola fondamentale” dell’associazione libera, senza di cui, dice Freud, l’analisi non potrebbe neanche cominciare[5].
Soffermiamoci per un momento sulla stranezza di questa regola, che impone la sospensione della finalità del discorso. Essa obbliga l’analizzante a dire tutto ciò che gli passa per la testa, a parlare a vanvera, a ruota libera, senza omettere niente e senza preoccuparsi di ciò che dice; in altri termini, il senso, la direzione, l’intenzione del discorso non hanno più alcuna importanza. La sola cosa che conta è l’Einfall, l’idea collaterale, il pensiero che piomba in testa all’improvviso e che non c’entra nulla con tutto quello che si sta dicendo, meglio ancora se quel pensiero viene in testa a proprio malgrado, attraverso l’inciampo della parola, o il sintomo, o il motto di spirito; allora, e solo allora, cioè al di fuori del fine e dell’intenzione a cui il discorso tendeva, l’analista si riserva di intervenire.
Notiamo che la regola esclude per definizione il dialogo o il colloquio, e che pertanto né l’analizzante né l’analista sono, l’uno rispetto all’altro, nel posto dell’interlocutore: l’analizzante è soppresso in quanto interlocutore per essere conservato solo in quanto parlante; l’analista si esclude dal posto dell’interlocutore per ridursi a ascoltatore[6]. Se si deroga alla regola e si sceglie il colloquio, allora non si può più chiamare “psicanalisi” quello che si sta facendo[7].
Lo stesso principio metodologico della sospensione della finalità del discorso è anche alla base del transfert, «messa in atto della realtà dell’inconscio»; l’unica differenza consiste nell’estensione di questa sospensione a tutti i fini dell’analisi. Infatti, non appena l’analista prende posizione, esprime un giudizio personale, si mette a dialogare, dà consigli, rassicura l’analizzante, “gioca a fare il dottore”, risponde a una domanda diretta dell’analizzante o condivide con lui determinati fini, non appena, insomma, si individua, perde la sua indeterminatezza e mette a repentaglio il transfert. Alla “messa in atto della realtà dell’inconscio”, che è la funzione del transfert, si contrappone allora la messa in atto di un’altra realtà (sociale, politica, giuridica, etica, terapeutica, ecc.) che ne prende il posto.
È Maurice Bouvet ad avere teorizzato, alla metà degli anni ’50, una concezione del transfert che potremmo definire del “richiamo alla realtà”, lo stesso che lo psichiatra rivolge al suo pazzo[8]. Essa si basa sulla contrapposizione di una “realtà soggettiva” – quella distorta e deformata dalle “difese più originarie” e dalle “imago genitoriali” che il “malato” proietta sull’analista – a una “realtà attuale” o “realtà tout court” o “realtà esterna” o “oggettivamente caratterizzata”, obbiettivo della cura verso cui bisogna condurre il “paziente”[9]. L’analista avrebbe così un accesso diretto a queste due realtà che sarebbero in esclusione reciproca: quella soggettiva e delirante e quella “oggettivamente caratterizzata”. Il commento di Le Gaufey:
preoccupato di dimostrare al paziente che sta proiettando su una determinata realtà (quella della cura) degli elementi che provengono da altrove, Bouvet sviluppa una concezione del transfert che mira a convincere il paziente, in un modo o nell’altro, che così facendo è fuori strada: che confonde una realtà (psichica) con un’altra realtà (oggettiva, razionale, attuale, “tout court”, ecc.). Il che sarebbe possibile solo se l’analista fosse dotato di una percezione immediata e diretta della “realtà tout court” – una realtà che potremmo definire della cura “fuori dal transfert”[10].
II.
In effetti, tutta l’esperienza mostra che nel transfert, se l’analista non vi fa ostacolo – facendosi promotore di una qualche meta a cui l’analizzante dovrebbe giungere al termine del suo “percorso analitico”[11] –, è impossibile separare queste due “realtà”, che di fatto permangono in un’ambiguità irriducibile, in una duplicità che non permette di orientarsi su una realtà “fuori dal transfert”. E tuttavia a un certo punto bisogna pure che il soggetto sia in grado, non di “accedere” a una realtà fuori dal transfert (come se essa fosse già data), ma di crearla, di istituirla. Questa realtà può dunque essere solo una realtà fatta di linguaggio, e non certo la realtà “in quanto tale” che l’analista pretende di indicare o tracciare al paziente con l’intenzione di riportarlo sulla retta via. Da qui la mia tesi: l’analizzante esce dal transfert quando comincia a rivolgersi direttamente proprio a quel “terzo” che era rimasto necessariamente nell’ombra, indefinito, per tutto il tempo dell’analisi. Che a un tratto questo terzo sia non tanto individuato, ma posto dall’analizzante come una presenza reale ben “distinta e separata” dal personaggio immaginario della sua storia personale che “proietta” sull’analista, non rende questo terzo meno indefinito di prima, e tanto meno ne fa un interlocutore.
Il “nuovo evento psichico” (psychischeGeschehen) che dissolve il transfert non può essere altro che un mutamento radicale della posizione enunciativa dell’analizzante. Egli passa da:
– “(ti) parlo (di qualsiasi cosa mi viene in mente)”, e questo “ti” lo metto tra parentesi perché, quando si accetta di parlare secondo la regola fondamentale dell’associazione libera (che è la causa del transfert, come osserva giustamente Le Gaufey), non solo l’altro rimane completamente indeterminato, ma il soggetto non parla veramente a qualcuno, piuttosto si parla, dato che questo “qualcuno” non è altro che il luogo di ritorno del proprio discorso; a:
– “è a te che parlo”.
Il fatto che l’analizzante si rivolga ora direttamente a questo terzo (l’analista nella sua “presenza reale”), senza nascondersi più dietro ai giri di parole di un discorso intessuto di fantasmi – un discorso in cui egli non appare se non in absentia o in effigie[12]– , dipende dall’avere trovato il coraggio di parlargli fuori dalla rimozione.
Un esempio tratto da un caso di Serge Leclaire, la cui semplicità non deve ingannare, descrive bene questa situazione.
«Per me è molto penoso, diceva un tal paziente, fare delle confidenze a qualcuno che non vedo». L’analisi rivela uno dei riferimenti storici di questa dichiarazione a prima vista paradossale: da bambino, il paziente si rammaricava che la madre, quando gli raccontava le favole prima di addormentarsi, si mettesse vicino a una lampada posta al di là di un tramezzo di legno del letto, sottraendosi così alla sua vista; tuttavia, perché il racconto potesse continuare egli doveva restare giudiziosamente coricato. Eppure, confessa il paziente, gli piaceva tanto vedere il volto e il petto di sua madre mentre leggeva. Quando si lamenta di non poter vedere l’analista, il paziente trasferisce su di lui il ricordo di sua madre, e nella seduta il ricordo di quei momenti di dolce intimità, insomma sostituisce all’analista l’immagine della madre. «Ma perché, anche qui, continua Leclaire, questo giro di parole, questa incapacità di esprimersi direttamente? In fondo, ecco ciò che vuole dirmi: “Rimpiango quei momenti di dolce intimità di cui mia madre mi privava la sera”. Ma per qualche ragione – in cui l’analisi non troverebbe posto – egli non riesce a dirmelo “direttamente”: usa uno stratagemma, sostituisce l’immagine della madre alla mia e dice che non può fare confidenze (atmosfera di dolce intimità) a una persona che non vede. In tal modo, non realizza la mia presenza e confonde, inconsciamente, la mia immagine con quella della madre». Quale sarebbe stata la situazione se il paziente si fosse espresso senza fare ricorso ai giri di parole del transfert? «Mi avrebbe detto: “Rimpiango i momenti di dolce intimità con mia madre di cui sono stato privato”: ma allora mi avrebbe parlato, come se fossi realmente presente, di sua madre in quanto persona definita e individuata come tale e pertanto ci sarebbero state tre persone – lui, sua madre e me – mentre, nell’espressione del transfert, noi restiamo in un a tu per tu [tête-à-tête] immaginario: c’era lui che intratteneva con me una relazione fantasmatica in cui io portavo la maschera della madre»[13].
È proprio perché l’immagine dell’analista figura, gioca un ruolo nel fantasma dell’analizzante, che l’analista può sapere che questa fantasia è a lui che si rivolge, e che essa sostituisce ed evita un discorso più esplicito che gli sarebbe destinato. Infatti, nel transfert si parla all’analista solo per procura, e solo a condizione che egli sia nascosto dietro una maschera. La nevrosi non è altro che il transfert, l’impossibilità di prendere la parola per rivolgersi a un Altro che non sia un doppio immaginario del soggetto, che rimane sempre nascosto nei “giri di parole”, o, se si preferisce, “tra i significanti”. Nel seminario Le psicosi Lacan chiama “ri-soggettivizzazione” «l’operazione del tirarsi fuori da quell’implicazione significante in cui abbiamo ravvisato l’essenza e le forme stesse del fenomeno nevrotico»[14]. Rimanere all’interno di questa “implicazione significante” significa rimanere prigionieri del transfert, continuare a parlare in absentia o in effigie, continuare a traslare sull’altro le proprie salme[15], perpetuare quella “viltà” che Freud metteva al centro della nevrosi: non esporsi mai a una dimensione della parola in cui si corre il rischio di essere “ammazzato” in praesentia.
Note
[1] Da qui la scelta editoriale di cambiare il titolo francese del libro in Appartenere a sé stessi, che riprende d’altronde il titolo del suo capitolo centrale.
[2] Lucien Jaume, Hobbes et l’État représentatif moderne, PUF, Paris 1986, p. 144. Ho sostituito «uomo naturale» con «inconscio».
[3] Nessuna attività lavorativa può essere considerata una professione (o un mestiere) se non ha un fine dichiarato, lecito e determinato.
[4] Ricordiamo il celebre monito di Freud: «Il professionismo è l’ultima maschera assunta dalla resistenza alla psicanalisi, e la più pericolosa di tutte». Lettera di S. Freud a S. Ferenczi, 27 aprile 1929, cit. da Musatti nell’Avvertenza editoriale a S. Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici (sic!), (1926) in Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. 10, p. 348.
[5] Com’è noto, proprio l’invenzione freudiana di questo principio metodologico fondamentale ha permesso il passaggio dall’ipnosi alla psicanalisi.
[6] Di che cosa? Né l’uno né l’altro lo possono sapere prima che questa “cosa” venga riconosciuta, senza essere tuttavia mai stata conosciuta.
[7] Il colloquio è uno strumento psicoterapeutico, non psicanalitico. Nemmeno i cosiddetti “colloqui preliminari” in realtà lo sono.
[8] Tuttora, il criterio per essere dimessi da quelli che si chiamavano “centri di igiene mentale”, è basato sul dare prova di saper “valutare criticamente” il proprio delirio.
[9] «[…] chi dice proiezione, dice infatti sostituzione della realtà soggettiva alla realtà tout court»; M. Bouvet, “La cure-type”, Encyclopédie médico-chirurgicale, «Psychiatrie», 1954, ripubblicato in Œuvres psychanalytiques2, Résistances, Transfert, Paris, Payot, 1976, pp. 9-96 [trad. it. di A. Menzio, Opere psicoanalitiche, Vol. 2, Le resistenze e il transfert, Astrolabio, Roma 1975, pp. 10-83 – la cit. è a p. 41].
[10] G. Le Gaufey, Appartenere a sé stessi, cit. corsivi dell’autore.
[11] Richiamo l’attenzione su frasi che sento dire o scrivere molto spesso: «L’analizzante ha iniziato, o sta completando, o ha concluso il suo percorso analitico». Così come non c’è “colloquio”, non c’è “percorso” psicanalitico, salvo avere ben presente e fin dall’inizio ciò che si deve fare e verso dove si deve andare.
[12] «Infatti, checché se ne dica, nessuno può essere ammazzato (erschlagen) in absentia o in effigie». S. Freud, Dinamica della traslazione (1912), in Opere di Sigmund Freud, vol. 6 (1909 -1912), Boringhieri, Torino 1974, pp. 523-531, trad. di Ezio Luserna.] «Liebesregungen der Kranken aktuell und manifest zu machen, denn schließlich kann niemand in absentia oder in effigie erschlagen werden». S. Freud, Zur Dynamik der Übertragung, G. W., VIII, p. 374. Erschlagen è tradotto nelle OSF con “battuto” e altrove con “giustiziato”. Ricordo che nel medioevo, quando il reo riusciva a sottrarsi alla pena veniva impiccato in effigie.
[13] S. Leclaire, «La fonction imaginaire du doute dans la névrose obsessionelle», in Écrits pour la psychanalyse, 2. Diableries (1954-1994), Seuil/Arcanes, 1998, p. 51 (corsivi e traduzione miei).
[14] J. Lacan, Il Seminario, Libro III, Le psicosi (1955 – 1956), a cura di G. Contri, trad. di A. Ballabio, P. Moreiro, C. Viganò, Einaudi, Torino 1985, p. 356.
[15] In Dinamica della traslazione, Freud osserva che il “nevrotico” «è costretto ad avvicinarsi con rappresentazioni libidiche anticipatorie [fantasmi] ad ogni nuova persona che incontra». Vale a dire che sovrappone sempre un’immagine (una fantasia di godimento, un “fantasma” incestuoso) alla «nuova persona che incontra», riconducendole così tutte alle “imago parentali” originarie, ossia a un tipo o a un modello. La persona incontrata non è mai concepita nella sua alterità, ma è inclusa in una serie… di salme. Non vedo d’altronde altro motivo per cui Musatti abbia scelto – ne sia stato o no consapevole – di tradurre ostinatamente Übertragung con “traslazione”.
Ho conosciuto troppo tardi Vittorio Sermonti, anche se è bastato uno sguardo, una parola, una stretta di mano per conquistarmi completamente. Poi la sua lettura della Commedia mi ha accompagnato per tante notti, prima di dormire, mentre a letto ascoltavo in cuffia il cofanetto dei DVD, e la pura forza della sua voce faceva veramente il miracolo – come lui diceva – di rendere Dante un mio contemporaneo, anzi di immetterlo nel buio della stanza, lì accanto a me, mentre ascoltavo i Canti nella lingua di tutti i giorni, senza alcun bisogno di apparati critici.
Ci sono persone che fanno parte delle mie giornate, quasi fossero interlocutori silenziosi a cui mi rivolgo, persone a cui non mi sono identificato e che si dedicano a me, e Vittorio, stranamente – stranamente per il poco tempo che mi è stato concesso per conoscerlo – mi è così famigliare, ed è una di queste persone. Sergio Contardi, non so come, non so per quale oscura affinità che lui aveva intuito, aveva colto nel segno quando sorprendentemente mi chiese di presentarlo a Milano, a Palazzo Cusani, al convegno Il disagio della cultura nella nostra modernità (12-13 ottobre 2013), io che lo conoscevo solo per fama. Ed ecco un padre, mi sono detto, e tutto è stato molto semplice. Qui di seguito riproduco la mia breve presentazione.
Mi è stato chiesto di presentare brevemente Vittorio Sermonti, classe 1929. Suppongo che mi sia stato chiesto perché non lo conosco affatto. Di lui so o posso sapere quello che può sapere chiunque sia rimasto catturato da una sua lettura pubblica della Commedia, digitando il suo nome su Google o Wikipedia. Saprò, per esempio, edotto dalla Treccani, che fin “da bambino vedeva circolare, in casa dei nonni materni, a loro legati da vari gradi di parentela o affinità, Vittorio Emanuele Orlando (suo padrino di nascita), Alberto Beneduce, Luigi Pirandello”. Passi per Pirandello, e scusate se è poco, ma gli altri? Basti dire che sono tra gli uomini più insigni della seconda metà dell’Ottocento – statisti, economisti, letterati –, uomini che affondano ancora le proprie radici nel Risorgimento e nell’Unità d’Italia. Ed ecco, fin dalla nascita, troviamo un’incredibile sovrabbondanza, quella che non si conta coi soldi. Saprò, ancora – cito: “Che ha lavorato con tutti i maggiori attori italiani del secondo novecento” e con i nomi più prestigiosi in assoluto della cultura italiana: Niccolò Gallo, Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Antonio Delfini, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise “e molti altri”. Come “dantista” gode della stima e dell’amicizia di Cesare Segre e Gianfranco Contini, tra le massime autorità di filologia dantesca. E nella nota bio-bibliografica non si contano, a ogni periodo della vita di Sermonti, gli “ecc. ecc.” e gli “e altri/o ancora”. Ovunque si sovrabbonda. È scrittore, traduttore (di Plauto, Ovidio, Virgilio, Molière, Racine, Lessing, Schiller, Wedekind, Hoffmanstahl, Sartre, Hoffenbach, Rilke, Venanzio Fortunato, Machado ecc.), drammaturgo, poeta, romanziere, regista per la radio e la televisione, speaker, attore, giornalista, docente di italiano e latino al liceo e di tecnica del verso teatrale all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, traduttore di un ponderoso testo di economia finanziaria e perfino consulente CEE. E altro, e altri ancora.
Non aumenterò ulteriormente l’abisso che separa la mia generazione, e quelle successive, da un uomo che mi piace definire – con la preghiera di non fraintendermi: non si tratta di vetustà – “di un’altra epoca”. Non si tratta solo del fatto che io appartengo a un’epoca senza nessuna Storia, nessun patrimonio spirituale dietro di me, nessuna vera cultura radicata nei rapporti d’amicizia; io sono figlio dell’acculturazione e dell’antropologia strutturale, non possiedo che un “sapere” astratto e separato dalla vita, quello che si studia all’Università. La mia storia è simile a quella dai miei analizzanti, dove il romanzo di formazione, il Bildungsroman, cede il posto al racconto “minimalista”, quello di un Raymond Carter nel migliore dei casi. Ecco perché la vita di Vittorio Sermonti mi appare eccezionale, prodigiosa, anzi favolosa, completamente, irrimediabilmente fuori dalla mia portata. Dubito che a un uomo del nostro tempo, per cui ogni via da intraprendere appare fin dall’inizio già sbarrata, possa essere concessa la grazia, la forza, la sovrabbondanza, la libertà, la pietà di una simile vita e vitalità. Ecco perché Sermonti mi appare inanalizzabile. Inanalizzabile, intendo, come lo può essere un uomo che non appartiene all’epoca della psicanalisi, che è un’epoca dell’uomo senza qualità e senza Storia, forse perfino senza Kultur, senza civiltà e cultura. Azzardo, ma penso che se Sermonti è a “disagio” nella cultura, non è per le nostre stesse ragioni. Forse lui ci dirà per quali.
Non si tratta, dicevo, solo di questo. Ma piuttosto di quello che esprime questa considerazione di J. Salinger, uno dei padri del romanzo di formazione della nostra epoca: “Stare nell’esercito, dice Salinger, è peggio che fare la guerra”. Ecco: Vittorio Sermonti, al di là dell’anagrafe, è un uomo che ha fatto la guerra. Che cosa vuol dire “un uomo che ha fatto la guerra”? Quando sento parlare un uomo che ha fatto la guerra, dunque un uomo che non può stare nell’esercito, la mia vita, che, come quella di tutti, trema di freddo, si riscalda alla sua voce. Proprio per questo, solo un uomo che ha fatto la guerra è fino in fondo un uomo di pace.