Lettere d’amore

Donna che scrive una lettera (Vermeer)

per M e M
sempre all’altezza del cuore

 

Inchiodato alla responsabilità di una risposta che non sapeva dare, M si guardava attorno, distratto. Il mento sulle ginocchia, la schiena incurvata. La posizione – scomoda, in verità – favoriva il ricordo di M.

Dove si erano conosciuti? Leggi tutto “Lettere d’amore”

La Festa (poesie inedite)

Le sale

hanno facce in colori come teli
su cui si danno i film dentro le sale,
i tipi nelle strade lungo i muri.
e vanno negli spazi avantindietro
uguali a stringhe che di foro in foro
allacciano le scarpe in qualche modo,
attorno al duomo in marmo a vene rosa,
pensando forse manca qualche cosa.

 

La fede

e non si estirpa mai la fede eterna,
è il maggiore mistero che sia noto
e qualunque violenza infine è poco.
la truculenza ha varie fantasie
tra lame, corde e raffiche di spari
pure i persecutori fanno pena,
non sanno proprio più che male ordire
che tanto, come ruote con i buchi,
si afflosciano le loro arcaiche mire.

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Il cammino. Un dialogo

Paesaggio italiano (Camille Corot)

“Senti le mie scarpe che urtano sulle pietre”.

“Ti seguo, nel buio vedo la tua sagoma. Vedo anche le ombre del bosco”.

“Ci sono lecci e ginepri, tutt’intorno, e anche faggi. Quell’ombra più cupa è forse un castagno”.

“Sì, dev’essere un castagno, dev’essere a questo punto che si entra tra i castagni”.

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Le biciclette di Duchamp ovvero l’arte concettuale come trasformazione in O

Qualche tempo fa una vecchia allieva e nuova amica, Alessandra Pistillo (ora copywriter e consulente di comunicazione), metteva online (su Facebook, il 15 ottobre 2016) la foto di un’opera appena vista nel Museo Pecci di Prato: la famosa Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp. La foto – che qui riproduco – era accompagnata da un delicato commento sull’emozione che poterla guardare da vicino, nell’originale, le aveva prodotto. Manco a dirlo – a più di un secolo dalla prima versione dell’opera! – si è scatenata una folla di “amici” (che probabilmente ignoravano l’esistenza sia dell’opera che dell’Autore) con una serie di commenti tristemente prevedibili del tipo: “che roba è?”, “questo lo sapevo fare anch’io”, “e la chiamano arte”. Mi sono chiesto, allora: perché non sono d’accordo? E ancora: che cosa ispira commenti di tal fatta?

Ruota di bicicletta (Duchamp)

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Quando Freud disse no a Hollywood

Il 14 agosto 1925, mentre Hollywood sta vivendo una delle sue più incredibili stagioni cinematografiche, Sigmund Freud scrive a Sándor Ferenczi, suo amico e collega, a proposito della pratica, che stava sempre più prendendo piede tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, di far prolificare la contaminazione tra psicanalisi e cinema:

La riduzione cinematografica sembra inevitabile (…) e, personalmente, non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere.

Samuel Goldwyn Studios

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La città dolente

0. Il trionfo maniacale della “soggettività” corrisponde ad una evacuazione massiva del reale; vi si sostituisce una “realtà” immaginifica intrinsecamente negazionista. Il negazionismo è la peggior forma della negazione e nel contempo l’epitome del relativismo: la più ignobile versione del collaborazionismo.

Postilla: Il negazionismo “neutralizza” il negativo favorendo “l’incistarsi nel sociale” di quel che Roberto Cheloni chiama gli “enunciati del fondamento” divenuti un sistema efficacissimo di produzione ideologica della contraddizione. (R. Cheloni, La società maniacale. Paradigmi e paralipomeni per un suo avvento, Canova, Treviso 1996).

G. Sirena, La città dolente, olio su tela, collezione privata Orvieto

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Le pene del padre (Die Sorge des Hausvaters) (1916-17)

Alcuni dicono che la parola “Odradek” (il Dissuasore, dal serbo odraditi, dissuadere) derivi dallo slavo e tentano di conseguenza di indagarne la formazione (die Bildung). Altri, all’opposto, reputano che il termine derivi dal tedesco e sia soltanto influenzata dallo slavo. L’incertezza delle due interpretazioni, tuttavia, permette a ragione di concludere che nessuna corrisponde al vero (zutrifft), tanto è vero che nessuna di esse permette di trovare un senso nella parola.

Kafka, disegni, in «Obliques», n. 3, Edition Borderie, Paris 1973
Kafka, disegni, in «Obliques», n. 3, Edition Borderie, Paris 1973

Naturalmente nessuno si indaffarerebbe su questi studî, se non ci fosse davvero un essere che si chiama Odradek. Ad un primo sguardo sembra una spoletta piatta a forma di stella e difatti appare anche rivestito di filo; è tuttavia probabile che siano soltanto frammenti strappati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati di diverso tipo e colore. Non è soltanto una spoletta, in quanto dal centro della stella si diparte una piccola stanghetta trasversale (ein kleines Querstbächen), alla quale se ne aggiune un’altra ad angolo retto. Con l’aiuto di quest’ultima stanghetta da un lato e di uno dei raggi della stella dall’altro, il tutto riesce a reggersi in piedi, come su due gambe.

Si sarebbe tentati di credere che quest’oggetto un tempo abbia avuto una forma adatta a qualche scopo (zweckmäßige Form) ed ora sia soltanto rotto. Ma questo non sembra il caso; o per lo meno non c’è alcun indizio di ciò; da nessuna parte si vedono aggiunte o rotture che diano adito a una siffata ipotesi; il tutto appare privo di senso, ma a suo modo in sé compiuto (in seiner Art abgeschlossen). Del resto non c’è alcunché da aggiungere, poiché Odradek è agile fuori dall’ordinario e non si lascia afferrare.

Si intrattiene di volta in volta nei solai, per le scale, nei corridoi, nell’atrio. A volte non si fa vedere per mesi; magari si è spostato in altre case; ma torna poi infallibilmente a casa nostra. A volte, quando uno esce dalla porta e lo vede appoggiato proprio alla ringhiera della scala, vien voglia di interrogarlo. È ovvio che non gli si possono porre domande difficili: lo si tratta piuttosto, e già la sua mole minuscola ci induce a ciò, come un bambino. “Come ti chiami?” gli vien chiesto. “Odradek”, dice. “E dove stai?” (Und wo wonst du?) “Domicilio imprecisato” (si avverta in Unbestimmter Wohnsitz la tonalità giuridica). E qui la conversazione, di solito si conclude. Del resto tali risposte non sempre si ottengono; spesso se ne sta a lungo in silenzio, come il legno di cui sembra fatto.

Invano mi chiedo cosa ne sarà di lui. Può morire? Tutto ciò che muore ha avuto un tempo una sorta di scopo, una sorta di attività nella quale si è consunto (daran hat es sich zerrieben); ma non è il caso di Odradek. Potrebbe dunque darsi anche che un giorno rotolasse giù per le scale, trascinandosi dietro un filo, tra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli (vor der Füßen meiner Kinder und Kindeskinder; è il tema delletre generazioni”, che – secondo la mia tesi – percorre l’opera di Kafka)?

Certo, non fa del male a nessuno; ma l’ipotesi che egli possa anche sopravvivermi quasi mi addolora.

Ring – Walkie Talkie

Ring

Infine non ha vinto

Un uomo o una carriera.
Non hanno vinto gli occhi o
Svaganti giovinezze.

Ma il cielo se distante,
Una collina,
Il vento.
Ha vinto un’alba coi Re Magi
E abbagli di letame.

Ha vinto,
Cosa ha vinto?
Per quanto vinceranno
Ancora
Fiumi,
Iridescenze,
Le stelle e i fuso orari?

Riscuoteranno nuovamente orgasmi e gelosie?
Le nere discoteche,
Paralisi affollate.

Ma sempre più assordante
Quel numinoso prato,
La fronte sua implacabile
O è docile, allentata?

Non ha parole scritte più, né nostalgie o ambizione:

A me
Ha preferito
Un croco e un sonno zingaro.

Ring (Brunate, 2016)

Walkie Talkie (Canzo, 2016)

Dal Paradiso, di Ettore Perrella

Canto XII. Passaggio al secondo tema: il principio logico. Gerolamo Saccheri parla sulla necessità di fondare le scienze in un principio comune. Arrivano nuovi ospiti, fra i quali Jacques Lacan e Sigmund Freud, che parla della formazione.

Freud e altri psicanalisti nel 1922

Yehoshùa, che un poco a parte era restato,
allora disse: «Molto bene hai inteso
quanto dico sul mio regno a Pilato,
quando sovraterreno lo paleso.
Il governo del mondo delegai
a chi, con atti giusti, suo l’ha reso.
Per questo, molto non mi rallegrai
quando, in mio nome, un’altra religione
mi dette ciò che non rivendicai.
Anzi, da questo, quella confusione
nacque che, dopo, venne amplificata,
nell’indebita semplificazione,
che dall’Arabia fu propagandata,
ritraducendo, in una forma ebraica
superata, la nuova predicata.
La religione, se non resta laica,
ma rivendica d’essere sovrana,
la sua legalità rende giudaica.
Il che vuol dire che per essa è vana
la promessa che sta nella sostanza
della venerazione, quando è sana.
Se vi sorprende quanto qui s’avanza,
voi vedrete fra poco come invece
ciò compie meglio tutta la speranza,
che riponete voi nella sua vece
con fedeltà ed amore. Questa trina
virtù dentro il potere si disfece,
per l’empietà, che la fa non divina.
Non v’anticipo più quello che intendo.
Siccome oggi la scienza vi raffina
dei nuovi doni, prima vi commendo
di vedere la logica e la fisica,
come colgano ciò che sottintendo.
Per chi la sua ragione rende tisica,
ricordo solo che assai male spende
il proprio dono, chi del suo non risica».
E qui Yehoshùa il suo dire sospende.
Platone allora dice: «A questo tema
ora passiamo. Facile si vende.
In logica ed in fisica ci prema
mettere in luce qui la condizione
che, nella scienza, sulle altre è suprema,
perché evidenzia la sua fondazione».
Non so chi ora ci parla, ma da prete
è vestito. «L’odierna situazione,
è prodotta, nel luogo in cui vivete,
da una scienza che dà nuovi reperti,
e però a volte v’appaga la sete,
versando degli intrugli, agl’inesperti,
a cui la distinzione non sia chiara
fra i fondamenti validi e gl’incerti.
Il vestito che porto ti dichiara
che sono un gesuita. Dei pensieri
che pensai, nella Logica, la tara
è il mio nome: Gerolamo Saccheri.
Prendono parte adesso a questa scuola
quanti intuirono i principi veri,
che sono l’ente, l’atto e la parola».
Vidi entrare Lacan. Con lui, è chi a Vienna
la formazione, a noi moderni, mola,
ed altri, da cui attinse la mia penna,
che, grazie a loro, da molto lavora
a sciogliere l’agire, se tentenna.
«Certo, trovarmi qui ben poco onora
quel che dicevo nei miei seminari»,
disse Lacan, sedendosi. Ed allora
aggiunse Freud: «È bene che ripari
anch’io ai miei errori. Adesso m’accompagna
l’amico Pfister. Mi furono avari
gli scritti suoi. Ben poco si guadagna
con l’ateismo. Come ebreo, vi devo
confessare che troppo poco bagna
il pensiero, e che troppo poco bevo,
dal ruscello di quella teologia,
da cui, vivendo, sempre m’astenevo.
Nessuna scienza la filosofia
mai rende vana, e zoppica il pensiero,
se percorre la sua ripida via,
però non beve alla fonte del vero.
E ciò mi rese anche troppo ottimista,
vivendo, sul disastro menzognero
che fu la nera svastica nazista,
che sventolava nella mia Berggasse,
e che a tanti di noi cucì la vista.
Che cosa veramente dimostrasse,
sul falso che s’insinua nella scienza,
io non lo vidi, e come lavorasse,
persino nell’inconscio, la demenza
che, negando il principio, guasta il desco
di chi si nutre solo di parvenza».
«Herr Professor», dissi allora in tedesco,
«posso sapere, da questo cortile,
che cosa pensi sul modo in cui pesco,
nei libri tuoi, la perla del tuo stile,
o dico che assai spesso ti tradisce,
alla pratica diventando ostile,
chi ad una garanzia soltanto ambisce?
Che cosa resta della formazione,
se si confonde ciò che si capisce
con l’etica dell’atto, e la passione
per cui soltanto chi la riconosce
sulla tua strada fa la sua tenzone?».
«Amico mio, sono sempre più mosce
le teorie pubblicate dai colleghi,
quando di desiderio sono flosce,
e quando la teoria non si colleghi
a quella libertà di formazione
che mi pare che troppo si deleghi
alla legge, perché una professione
diventi quella pratica che, invero,
vale solo se l’interpretazione,
non garantita, apre la strada al vero.
Solo perciò l’inconscio molto giova
alla scienza, schiudendone il sentiero.
La mia teoria solamente si prova
s’è animata dall’individuale
esperienza di quel che vi si trova.
Tutto il resto davvero poco vale.
Delle miserie non faccio il catalogo.
Il dogmatismo ha sempre poco sale.
Perciò molto ho apprezzato il tuo Dialogo».
«Non sospettavo che l’avessi letto»,
dissi. Ed aggiunse: «Ben poco d’analogo
si pubblica laggiù. Per noi è perfetto.
E non ti preoccupare se i lettori
sono pochi. Si sentono allo stretto,
quando leggono questi tuoi lavori.
E molto bene fai a non compiacerli.
Chi cede all’ovvio sempre pochi onori
concede al vero e all’atto. Lascia ai merli
il loro cra-cra crudo, e vai diritto,
dove la luce più chiara s’imperli.
Il vero, non puoi prenderlo in affitto:
devi subordinargli l’esistenza.
Solo così non sarai mai sconfitto.
Lascia che parli a tutti l’evidenza,
e canta il canto tuo, senza curarti
di vincere la loro resistenza.
Soltanto questo dà un impulso alle arti,
fra le quali tu poni giustamente
anche le scienze. Tutte sono parti
della logica, che sola non mente
e prende corpo: come tutti sanno,
se aprono gli occhi usando la tua lente.
Se t’ignorano, è solo loro il danno.
Trascrivi pure queste mie parole.
Sai che, fra quelli che le leggeranno,
non ci saranno coloro cui duole
quel che dico. Se sei nel nostro coro,
non dare mai importanza a chi altro vuole.
Solamente così farai tesoro
dei miei scritti. Anche i miei son letti poco,
eppure stanno al fondo d’un lavoro
che in atto non può mettere chi è roco.
Per praticare non basta ascoltare.
Si deve invece trasmettere il fuoco
che ogni viltà da sempre fa arretrare».

Dal Paradiso, di Ettore Perrella, NeP Edizioni, Roma 2016, vol. 3, pp. 107-13.

Il midollo della vita

«Dev’essere necessario un grande coraggio per donare a molti quel che spesso non si dà che all’amato». Questa frase di Anaïs Nin l’ho trovata rovistando su internet e mi ha fatto venire in mente una puttana. Mi correggo: la puttana per antonomasia. Si chiamava Gina, esercitava a orari fissi tra via Fontanelli e via Montecuccoli, indossando l’inseparabile pelliccia leopardata che era insieme un richiamo ferino e un segno di riconoscimento a distanza.

A Modena la Gina era un mito. Ai tempi del liceo ne sentivo parlare dai ragazzi più grandi con iperboli così smaccate da non poter essere altro che figlie della loro imbranataggine. Andare a puttane non faceva  più  parte dei nostri riti di passaggio, ma quella prodigiosa nave scuola bionda, bella e disinibita, già sulla breccia ai tempi delle case chiuse, continuava a esercitare un fascino indescrivibile e lievemente incestuoso. Era come se nella Gina, la donna «più bella di un’auto da corsa», fossero condensati al loro apice i sogni erotici dei nostri padri e fratelli maggiori, e nella fantasticheria di possederla si nascondesse da parte nostra un desiderio di stupro verso quel loro passato odoroso di rispettabilità e di casino che un po’ ci stomacava ma un poco anche ci attirava.

Purtroppo eravamo soltanto dei liceali imbranati. Gli universitari che si presentavano alla Gina con un trenta e lode fresco sul libretto potevano sperimentare gratis di persona quel coraggio nel donare a molti ciò che spesso non si dà che all’amato, o neppure a lui, di cui parla Anaïs Nin. Lo so: il dono di sé della Gina agli studenti meritevoli può sembrare di portata limitata, paragonabile al massimo –senza confondere il buon costume con la Buoncostume – alle coeve elargizioni delle pie dame di San Vicenzo ai poveri e ai diseredati in base all’etica dell’«arriverò fin lì, ma non oltre», giusto quanto basta per sentirsi la coscienza a posto. E questo, ammoniva San Francesco, «significa non dare assolutamente nulla».

Ma il caso della Gina è diverso. Se nei consueti rapporti professionali era ben chiara la mercificazione del suo corpo in cambio di denaro, la  cessione gratuita seppure temporanea di se stessa e della propria arte come premio per un esame superato col massimo dei voti costituiva un’autentica violazione del principio di scambio e, dunque, un dono. Che cosa mai può farsene, una puttana, d’un trenta e lode stampato sul libretto di qualche studente brufoloso?  L’etica della Gina era quella del regalo disinteressato, una specie di bonus che premiava la qualità e l’impegno negli studi: in largo anticipo sui tempi, aveva adottato un ingenuo ma efficace antidoto alla fuga dei cervelli. Qualcosa d’impensabile per i papponi, i banchieri, le multinazionali e le agenzie di rating oggi al potere, che sono i nuovi vampiri del capitale. Li stigmatizzava già Marx , scrivendo che «il capitale è come un vampiro, il capitale è lavoro morto che succhia sempre lavoro vivo e più ne succhia più si ricostituisce». La Gina invece succhiava il midollo della vita, con quel gioioso spreco di sé che –per dirla con Benjamin- «contrassegna l’amore». Non dovrebbero fare lo stesso anche i poeti?