Il midollo della vita

«Dev’essere necessario un grande coraggio per donare a molti quel che spesso non si dà che all’amato». Questa frase di Anaïs Nin l’ho trovata rovistando su internet e mi ha fatto venire in mente una puttana. Mi correggo: la puttana per antonomasia. Si chiamava Gina, esercitava a orari fissi tra via Fontanelli e via Montecuccoli, indossando l’inseparabile pelliccia leopardata che era insieme un richiamo ferino e un segno di riconoscimento a distanza.

A Modena la Gina era un mito. Ai tempi del liceo ne sentivo parlare dai ragazzi più grandi con iperboli così smaccate da non poter essere altro che figlie della loro imbranataggine. Andare a puttane non faceva  più  parte dei nostri riti di passaggio, ma quella prodigiosa nave scuola bionda, bella e disinibita, già sulla breccia ai tempi delle case chiuse, continuava a esercitare un fascino indescrivibile e lievemente incestuoso. Era come se nella Gina, la donna «più bella di un’auto da corsa», fossero condensati al loro apice i sogni erotici dei nostri padri e fratelli maggiori, e nella fantasticheria di possederla si nascondesse da parte nostra un desiderio di stupro verso quel loro passato odoroso di rispettabilità e di casino che un po’ ci stomacava ma un poco anche ci attirava.

Purtroppo eravamo soltanto dei liceali imbranati. Gli universitari che si presentavano alla Gina con un trenta e lode fresco sul libretto potevano sperimentare gratis di persona quel coraggio nel donare a molti ciò che spesso non si dà che all’amato, o neppure a lui, di cui parla Anaïs Nin. Lo so: il dono di sé della Gina agli studenti meritevoli può sembrare di portata limitata, paragonabile al massimo –senza confondere il buon costume con la Buoncostume – alle coeve elargizioni delle pie dame di San Vicenzo ai poveri e ai diseredati in base all’etica dell’«arriverò fin lì, ma non oltre», giusto quanto basta per sentirsi la coscienza a posto. E questo, ammoniva San Francesco, «significa non dare assolutamente nulla».

Ma il caso della Gina è diverso. Se nei consueti rapporti professionali era ben chiara la mercificazione del suo corpo in cambio di denaro, la  cessione gratuita seppure temporanea di se stessa e della propria arte come premio per un esame superato col massimo dei voti costituiva un’autentica violazione del principio di scambio e, dunque, un dono. Che cosa mai può farsene, una puttana, d’un trenta e lode stampato sul libretto di qualche studente brufoloso?  L’etica della Gina era quella del regalo disinteressato, una specie di bonus che premiava la qualità e l’impegno negli studi: in largo anticipo sui tempi, aveva adottato un ingenuo ma efficace antidoto alla fuga dei cervelli. Qualcosa d’impensabile per i papponi, i banchieri, le multinazionali e le agenzie di rating oggi al potere, che sono i nuovi vampiri del capitale. Li stigmatizzava già Marx , scrivendo che «il capitale è come un vampiro, il capitale è lavoro morto che succhia sempre lavoro vivo e più ne succhia più si ricostituisce». La Gina invece succhiava il midollo della vita, con quel gioioso spreco di sé che –per dirla con Benjamin- «contrassegna l’amore». Non dovrebbero fare lo stesso anche i poeti?

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