Canto XII. Passaggio al secondo tema: il principio logico. Gerolamo Saccheri parla sulla necessità di fondare le scienze in un principio comune. Arrivano nuovi ospiti, fra i quali Jacques Lacan e Sigmund Freud, che parla della formazione.
Yehoshùa, che un poco a parte era restato,
allora disse: «Molto bene hai inteso
quanto dico sul mio regno a Pilato,
quando sovraterreno lo paleso.
Il governo del mondo delegai
a chi, con atti giusti, suo l’ha reso.
Per questo, molto non mi rallegrai
quando, in mio nome, un’altra religione
mi dette ciò che non rivendicai.
Anzi, da questo, quella confusione
nacque che, dopo, venne amplificata,
nell’indebita semplificazione,
che dall’Arabia fu propagandata,
ritraducendo, in una forma ebraica
superata, la nuova predicata.
La religione, se non resta laica,
ma rivendica d’essere sovrana,
la sua legalità rende giudaica.
Il che vuol dire che per essa è vana
la promessa che sta nella sostanza
della venerazione, quando è sana.
Se vi sorprende quanto qui s’avanza,
voi vedrete fra poco come invece
ciò compie meglio tutta la speranza,
che riponete voi nella sua vece
con fedeltà ed amore. Questa trina
virtù dentro il potere si disfece,
per l’empietà, che la fa non divina.
Non v’anticipo più quello che intendo.
Siccome oggi la scienza vi raffina
dei nuovi doni, prima vi commendo
di vedere la logica e la fisica,
come colgano ciò che sottintendo.
Per chi la sua ragione rende tisica,
ricordo solo che assai male spende
il proprio dono, chi del suo non risica».
E qui Yehoshùa il suo dire sospende.
Platone allora dice: «A questo tema
ora passiamo. Facile si vende.
In logica ed in fisica ci prema
mettere in luce qui la condizione
che, nella scienza, sulle altre è suprema,
perché evidenzia la sua fondazione».
Non so chi ora ci parla, ma da prete
è vestito. «L’odierna situazione,
è prodotta, nel luogo in cui vivete,
da una scienza che dà nuovi reperti,
e però a volte v’appaga la sete,
versando degli intrugli, agl’inesperti,
a cui la distinzione non sia chiara
fra i fondamenti validi e gl’incerti.
Il vestito che porto ti dichiara
che sono un gesuita. Dei pensieri
che pensai, nella Logica, la tara
è il mio nome: Gerolamo Saccheri.
Prendono parte adesso a questa scuola
quanti intuirono i principi veri,
che sono l’ente, l’atto e la parola».
Vidi entrare Lacan. Con lui, è chi a Vienna
la formazione, a noi moderni, mola,
ed altri, da cui attinse la mia penna,
che, grazie a loro, da molto lavora
a sciogliere l’agire, se tentenna.
«Certo, trovarmi qui ben poco onora
quel che dicevo nei miei seminari»,
disse Lacan, sedendosi. Ed allora
aggiunse Freud: «È bene che ripari
anch’io ai miei errori. Adesso m’accompagna
l’amico Pfister. Mi furono avari
gli scritti suoi. Ben poco si guadagna
con l’ateismo. Come ebreo, vi devo
confessare che troppo poco bagna
il pensiero, e che troppo poco bevo,
dal ruscello di quella teologia,
da cui, vivendo, sempre m’astenevo.
Nessuna scienza la filosofia
mai rende vana, e zoppica il pensiero,
se percorre la sua ripida via,
però non beve alla fonte del vero.
E ciò mi rese anche troppo ottimista,
vivendo, sul disastro menzognero
che fu la nera svastica nazista,
che sventolava nella mia Berggasse,
e che a tanti di noi cucì la vista.
Che cosa veramente dimostrasse,
sul falso che s’insinua nella scienza,
io non lo vidi, e come lavorasse,
persino nell’inconscio, la demenza
che, negando il principio, guasta il desco
di chi si nutre solo di parvenza».
«Herr Professor», dissi allora in tedesco,
«posso sapere, da questo cortile,
che cosa pensi sul modo in cui pesco,
nei libri tuoi, la perla del tuo stile,
o dico che assai spesso ti tradisce,
alla pratica diventando ostile,
chi ad una garanzia soltanto ambisce?
Che cosa resta della formazione,
se si confonde ciò che si capisce
con l’etica dell’atto, e la passione
per cui soltanto chi la riconosce
sulla tua strada fa la sua tenzone?».
«Amico mio, sono sempre più mosce
le teorie pubblicate dai colleghi,
quando di desiderio sono flosce,
e quando la teoria non si colleghi
a quella libertà di formazione
che mi pare che troppo si deleghi
alla legge, perché una professione
diventi quella pratica che, invero,
vale solo se l’interpretazione,
non garantita, apre la strada al vero.
Solo perciò l’inconscio molto giova
alla scienza, schiudendone il sentiero.
La mia teoria solamente si prova
s’è animata dall’individuale
esperienza di quel che vi si trova.
Tutto il resto davvero poco vale.
Delle miserie non faccio il catalogo.
Il dogmatismo ha sempre poco sale.
Perciò molto ho apprezzato il tuo Dialogo».
«Non sospettavo che l’avessi letto»,
dissi. Ed aggiunse: «Ben poco d’analogo
si pubblica laggiù. Per noi è perfetto.
E non ti preoccupare se i lettori
sono pochi. Si sentono allo stretto,
quando leggono questi tuoi lavori.
E molto bene fai a non compiacerli.
Chi cede all’ovvio sempre pochi onori
concede al vero e all’atto. Lascia ai merli
il loro cra-cra crudo, e vai diritto,
dove la luce più chiara s’imperli.
Il vero, non puoi prenderlo in affitto:
devi subordinargli l’esistenza.
Solo così non sarai mai sconfitto.
Lascia che parli a tutti l’evidenza,
e canta il canto tuo, senza curarti
di vincere la loro resistenza.
Soltanto questo dà un impulso alle arti,
fra le quali tu poni giustamente
anche le scienze. Tutte sono parti
della logica, che sola non mente
e prende corpo: come tutti sanno,
se aprono gli occhi usando la tua lente.
Se t’ignorano, è solo loro il danno.
Trascrivi pure queste mie parole.
Sai che, fra quelli che le leggeranno,
non ci saranno coloro cui duole
quel che dico. Se sei nel nostro coro,
non dare mai importanza a chi altro vuole.
Solamente così farai tesoro
dei miei scritti. Anche i miei son letti poco,
eppure stanno al fondo d’un lavoro
che in atto non può mettere chi è roco.
Per praticare non basta ascoltare.
Si deve invece trasmettere il fuoco
che ogni viltà da sempre fa arretrare».
Dal Paradiso, di Ettore Perrella, NeP Edizioni, Roma 2016, vol. 3, pp. 107-13.