Per salutarti (in morte di Vittorio Sermonti)

Per salutarti, vecchio amico, che fino a stamane, quando ho letto la notizia sulla «Stampa», mi parevi immortale. Fortuna ha voluto, caro Vittorio, che ci vedessimo di recente, ché altrimenti mai mi sarei perdonato, essendo a Roma nello scorso ottobre, di non essere passato a salutarti e di passare alcune ore insieme, a casa tua, con le nostre mogli, a chiacchierare piacevolmente del presente. Fortuna, così, mi ha concesso ancora di sentirmi contento della vostra compagnia, tua e di Ludovica.

Ti ho sentito e visto sofferente, è vero, ma comunque mi sembravi sempre immortale, con quel tuo sguardo curioso e divertito del mondo, che però sapeva anche farsi serio e severo, di un mondo abitato per lo più da stupidi. Ma anche questo era parte del gioco e della meraviglia: quel gioco tragico del vivere a cui si può opporre solo l’intelligenza dell’umorismo del vizioso che si accompagna con il tempo della solitudine in cui ci s’immerge nella lettura e nella scrittura: vizio capitale di chi passa la vita a scrivere e tradurre, ad amare le donne occhi pescosi, e quell’autore nelle cui mani (pagine…) si consegna la propria vita, con lo sforzo titanico e gioioso e generoso di ridargli vita, e pensieri che non aveva ancora pensato, largo respiro e voce per raggiungere ancora, come in un tempo immemore, folle curiose e anche desiderose di ascoltare colui che non avevano forse mai ascoltato.

Vittorio Sermonti
Vittorio Sermonti

E io con te ho davvero letto Dante perché, diciamolo, non l’avevo mai letto per davvero. In passato avevo letto solo dei versi senza voce, e la tua voce li ha resi di nuovo vivi; e quando la mia lettura seguì la tua voce tutto mi è apparso limpido e pulsante ancora di vita e di senso: hai saputo dare voce alla mia lettura della Commedia. Ti sono davvero grato per questo, come lo sono per il buon vino bevuto insieme.

Hai ridato voce a quell’Alighieri, Dante di nome e fiorentino per sorte maligna, ché in quella città di Firenze gli toccò di nascere, che è poi la sorte di tutti e di ciascuno nascere in un luogo di esilio anche se il caso, o altri, non ci caccia costringendoci ad altri luoghi. E qui, la tua vita, caro amico a riposo, la sapeva lunga.

In quella Firenze in cui studiasti e che esiliò a un certo punto voce e pensiero che tu ridonasti negli anni a Dante con tutta la forza dirompente della sua e tua tragicità; quella città di esili preferì, alla tua voce italiana calda e profonda, la voce fiorentina e sguaiata di uno sgangherato comico che nel diluire nelle risa il tragico canto tolse all’Alighieri la forza e la statura della sua poesia rendendola sterile all’ascoltatore. Ma così è Firenze: vende, e si vende, al miglior offerente del niente.

Una sera a cena a Firenze, di ritorno da Santa Croce dove leggevi Dante, in un momento di sfogo, e anche di rabbia perbacco e perché no: giusta!, dicesti che, finita quella lettura, a Firenze non ci saresti mai più tornato. E così anche in una cena a casa mia a Milano, con Sergio e Laura e le mogli inseparabili, parlasti con divertito dispiacere di quella città inospitale che aveva preferito il suo comico nazional-popolare al sommo Dante da ritrovare. E così fu. Al Dante tragico, da leggere, da ascoltare, da meditare, Firenze preferì un Dante ridanciano da intrattenimento serale. Esiliato un’altra volta, questa volta con l’esilio della tua voce. Non è così facile, amico caro, cambiare un destino anche se ci proviamo per una intera vita.

E mi apparivi immortale anche quando, qualche anno fa, chiacchierando noi sulla morte, mentre ti affermavo sicuro di cose lette e sentite che la morte non esiste ma solo dei morti, tu sornione e anche un po’ divertito mi dicesti che, forse, neppure i morti esistono. Confesso di non aver capito subito. Ma non ci volle molto perché mettessi insieme i cocci. Vero! Diamine, i morti non esistono! Freud aveva torto! Esistono soltanto nomi, quelli ci restano, di persone che (è semplice!), per quanto ci dispiaccia, non vedremo più. Ma non è che un’evenienza. Il dispiacere si assorda nel breve tempo, e il nome entra nei nostri racconti insieme ai ricordi di presenze e gesta, un po’ vere e un po’ inventate come avviene nella ricostruzione dei ricordi.

Ma il corpo, che solo una credenza ci dice non esser più, resta avvolto nel mistero della terra e in quella terra nuova di altra vita, altre trasformazioni lo riportano alla sua essenza primordiale. Morte è solo una parola che serve ad alimentare la superstizione religiosa della cui stratificazione millenaria è difficile liberarsi, ma chi se ne sa liberare è uomo libero. E questo mi eri apparso, libero e perciò immortale. Hai lasciato tutti per vivere il mistero della terra, il più insondabile il più irrappresentabile, quello inenarrabile. Quello di cui lascerai ad altri la narrazione fantasiosa di chi non lo potrà vivere. Hai scritto che ti saresti preso qualche giorno di riposo, avevi ragione, solo qualche giorno, forse una settimana se contiamo il funerale, ma poi ricomincerai subito con l’infaticabile lavoro del corpo.

Ti saluto, dunque, amico mio immortale. Vai libero a sondare il mistero della terra, ché il tuo ricordo non ci verrà meno. E chissà se, quando toccherà a me di avventurarmi in quel mistero profondo e irraccontabile della terra, noi non ci si possa rincontrare di nuovo per caso come quella prima volta a Milano quando insieme ci toccò di presentare il bel libro di Gabriella alla Feltrinelli di via Manzoni: e sarà grande festa.

Sai, dicono da molto tempo, ma, come al solito, è voce incontrollata, che verrà il giorno in cui tutti ci rincontreremo. Per ora mi accontento di leggerti ancora e di approfittare dei tuoi vizi. Giovanni.

Percorsi di un lettore. Dal libro Acheminement di Gérard Albisson

Il primo pensiero alla lettura di questo piccolo e prezioso libro è stato che sarebbe davvero bello venir recensiti da un lettore così raffinato come Gérard Albisson. Duemila battute in cui è scritto tutto l’importante di un libro. Il lettore di una tale recensione si trova come se avesse davvero vicino il libro recensito, potendo coglierne l’essenziale, esserne introdotto da una lettura acuta, intelligente, in grado di aprire il suo proprio desiderio di lettore trasportato dall’entusiasmo del recensore.  O comunque, un ipotetico lettore, sarà agevolato dalla scelta di un libro che “a caso” un tale recensore ha “deciso” che recensirà afferrato da un titolo, l’immagine di copertina, o da una qualche frase letta in veloce distrazione ma comunque capace di colpire l’attenzione. E allora il libro viene letto, pensato, si cerca la sua cifra ed ecco che la recensione salta fuori, in una pagina, perché non gliene occorre di più, asciutta, precisa, diretta al cuore della questione che il libro presenta e allo spirito dello scrittore in grado di comunicarsi a un lettore che potrà così avvicinare a sua volta quel libro.

Tutto così diverso dalle fasulle recensioni fatte a comando nei quotidiani di oggi e di tutto il mondo. La «Revue des Deux Mondes» per cui Albisson scrive le recensioni ha uno stile inconfondibile, una libertà assoluta e non cede alle lusinghe del mercato e alle obbligazioni editoriali. Questo ha permesso a un ampio pubblico di entrare in contatto con libri, autori e titoli che forse non avrebbe mai sentito nominare e che non avrebbe mai avuto occasione di notare. La scelta dei libri da parte del gruppo dei redattori della rivista di rue de Lille, è una scelta libera, dove i libri passano di mano, vengono quasi ascoltati: ovvero, il recensore ascolta qualcosa del proprio desiderio di lettore e si immerge.

Ogni incontro dei redattori è una specie di seminario dice Albisson, che chiosa: «Ciascun libro passava più o meno velocemente di mano in mano, pagine girate, quarte di copertina percorse con rapidità, e in quel momento operava tutto il mistero della decisione e della possibilità di agire. Breve istante del destino: si tiene, si passa».

Libri che “ci trovano” dunque, dove ciascuno è libero di scrivere quel che coglie nella propria lettura, senza doversi inchinare alle esigenze del mercato ma solo a quel desiderio profondo di una nuova conoscenza, di un nuovo incontro che il libro apre e che il recensore trasferisce in scrittura per altri possibili lettori.

Poi, subito dopo quel desiderio appena accennato con pudore, la sorpresa di leggere qualcosa che assomiglia alla mia storia. Il viaggio, il libro, un panorama che fugge dal finestrino del treno. Come!, mi dico, come fa a sapere queste cose… di me! È stato questa emozione forte nel ritrovare pezzi della mia storia raccontati da un autore che ha vissuto la stessa intensità del viaggio e della lettura a decidermi immediatamente e senza alcuna considerazione ulteriore a tradurre Acheminement. Traduzione che, mi auguro davvero di cuore, abbia saputo rispettare il tono così alto e raffinato della scrittura di Albisson.

Viaggiare in treno, possibilmente soli, è una esperienza incomparabile, soprattutto se associata alla solitudine della lettura. Preparare il bagaglio e scegliere i libri che faranno da compagni di viaggio. Non uno, no, ma più libri che durante il viaggio si sfoglieranno, sul quale ci si soffermerà attratti dalla bellezza di una frase o anche di una sola parola in grado di aprire il nostro pensiero, che apre al viaggio nel viaggio esattamente come lo sguardo che si porge al paesaggio che fugge di là dal finestrino, quando l’occhio cattura il dettaglio fuggitivo che colpisce per la sua bellezza, che resta come un’impressione nell’animo. Così, la frase o il paesaggio, diventano scoperte di ciò che non si sapeva e di ciò che non si vedeva.

Chi viaggia solo con l’intenzione di spostarsi per raggiungere, e il più in fretta possibile, un luogo, non potrà mai cogliere l’essenza del viaggio, momento di conoscenza e di scoperta di sé concessa dalla grazia di un libro associata a quella di un paesaggio.

Oppure ci si potrà concentrare su un solo libro la cui lettura accompagna il viaggio, ed è un’esperienza nuova, diversa dalla concentrazione che si ha quando si legge seduti allo scrittoio o in poltrona. Quanti libri letti e anche scritti nei miei viaggi fra Torino e Venezia, Torino e Lione, Torino e Roma, Milano e Genova, Milano e Firenze, Milano e Parigi… O del mio primo viaggio in nave, memorabile, a quindici anni, per raggiungere la Sardegna.

La lettura in treno richiede un’attenzione fluttuante, continuamente interrotta dallo sguardo che coglie un’immagine che scorre veloce, ma non così veloce da non essere colta; interrompe la lettura e il pensiero vaga in altre direzioni. E in questo modo il nostro pensiero resta preso dentro il paesaggio e contemporaneamente dentro il libro, e i pensieri si mischiano, a volte si affastellano dispettosi, ma sempre curiosi nel loro andirivieni fra libro e paesaggio. Ogni viaggio su una stessa tratta rivela di volta in volta dettagli diversi. Accade così anche nella lettura di un libro quando ci si accorge, in una seconda lettura, di non aver colto certe frasi o certe parole: e quanti altri ritrovamenti in letture successive!

Ogni lettura ci mostra non tanto un altro libro quanto un’altra possibilità del nostro pensiero. Di volta in volta, di viaggio in viaggio, di lettura in lettura si può cogliere quel che non si era mai notato, a cui non si era ancora prestata attenzione: quel non ancora considerato che sempre apre, a ogni giro, un pensiero nuovo, una nuova scoperta.

Così Albisson, di pagina in pagina, di libro in libro, ci presta il suo sguardo acuto, il suo tendere all’essenziale, il suo proporci un ascolto che apre al desiderio della lettura.

Ritrovare Europa

L’Europa è legata al Mediterraneo, io credo, nel senso che l’Europa è un luogo del Mediterraneo. Ma il Mediterraneo è un luogo dai confini incerti. Chi lo vuole stretto fra i Dardenelli e le Colonne d’Ercole vive nell’economia organicistica del potere, senza avvertire l’estensione dell’apparato psichico. L’organicismo risponde così alla logica religiosa del discorso, che ha spartito e diviso l’Europa lungo tre punti cardinali: la Croce, il Muro (del pianto) e la Ka‘ba (la pietra nera). Manca il quarto punto, il più importante, relativo al linguaggio e dunque insituabile, incollocabile in una qualsiasi spazializzazione o riduzione del Mediterraneo a una ideologia, a un rituale o a una nazione che sono i tre punti ordinali della religione. La distanza fra la mitologia e la religione è molto breve, ma la loro distanza imposta dalla visione religiosa del mondo invece è infinitamente grande: favola l’una, Verità l’altra, senz’accorgersi della verità della favola.

Carta Geografica del Mar Mediterraneo
Carta Geografica del Mar Mediterraneo

Nell’ordine del linguaggio, quell’ordine che la psicanalisi indica in una topologia attraverso cui è possibile tracciare una geografia delle regioni dello psichico, il Mediterraneo si estende, a Oriente, almeno fino a Bagdad. E ci fu un tempo in cui, nella sua estensione sembrava non avere confini.
Nello psichico ritroviamo il tempo in cui nacque un’altra Europa che non era quella cristiana del Sacro Romano Impero e dei suoi confini tracciati dalla Croce: l’Europa delle lingue. Lo si può cogliere immediatamente, una volta che proviamo a tracciare, sia pur velocemente, la geografia del Mediterraneo a partire dalla nascita delle sue lingue attuali. È l’Europa che nasce da una esperienza che ha la sua origine nella Spagna araba. Ed è un’esperienza che si propaga in tutto il Mediterraneo.
Alfonso X di Castiglia, il Savio, nel XIII secolo costituì dei collegi di traduttori dall’arabo, dall’ebraico e dal greco. Vennero tradotte in latino centinaia di opere filosofiche, matematiche, naturalistiche, astronomiche, anatomiche, mediche, alchemiche e tutto quanto concerneva la conoscenza da Platone e Aristotele fino a quel tempo. Quelle traduzioni si diffusero in tutta l’Europa dall’università di Parigi a quella di Colonia, da quella di Oxford a quella di Bologna. E in Spagna si moltiplicarono i «collegi» dei traduttori, da Toledo a Siviglia a Barcellona. Ma già allora non era un’esperienza nuova.
Un secolo prima, in Sicilia, vi fu la più grande fioritura dell’arte e della cultura sotto il regno dell’imperatore Federico II. Poeti e sapienti arabi, ebrei, greci e latini composero, scrissero e tradussero. La grande esperienza della poesia in Sicilia diede la prima forma della lingua italiana. E con la poesia si rinnovò anche il diritto, la matematica e la filosofia. Ma anche qui l’esperienza non è nuova perché Federico II sposò Costanza d’Aragona che dalla Spagna portò l’uso della sua corte, la sua intelligenza e la sua gaiezza e anche i poeti provenzali. Così, sempre a ritroso, troviamo la Scuola medica di Salerno che qualcuno vuole fondata già nel IX secolo e che una leggenda racconta essere stata istituita da quattro medici: l’arabo Adela, l’ebreo Helinus, il greco Pontus e il latino Salernus; anche presso la scuola salernitana la grande attività fu la traduzione da una lingua all’altra delle opere mediche contemporanee e dell’antichità. Queste traduzione raggiunsero Montpellier e Parigi dove si fondarono le importanti e celebri scuole mediche di Francia. Ma prima ancora troviamo l’importante centro di traduzioni del califfato di Cordova dove lavoravano a tempo pieno 200 traduttori. E durante l’espansione araba a Nord della Spagna, per quel poco che ci restarono, nell’VIII secolo, nascono e si sviluppano i poeti provenzali sotto l’influsso di quelli arabi di Andalusia, quegli stessi provenzali (i trobadores) che Costanza d’Aragona portò poi in Sicilia.
Tutto questo movimento intellettuale durò alcuni secoli fra l’VIII e il XIII, fino a quando la chiesa cattolica soffocò tutto sotto il suo potere, nel bagno di sangue della Provenza e nel soffocamento del movimento di Francesco in Umbria il quale, se non fu cruento, non fu meno drammatico per la storia della cultura e della spiritualità europee. Quel vivere secundum formam sancti evangelii operato dal movimento di Francesco riproponeva altrimenti i valori della spiritualità catara. Ma da allora non fu più possibile nessuna spiritualità al di fuori dell’ortodossia ecclesiastica, e la ragione di stato, ovvero la ragione della forza, fu la sola ragione ammessa come tale nella relazione fra gli uomini: secundum formam ecclesia.
È una veloce incursione nella storia, me ne rendo conto. Ma qui serve solo a sottolineare quel quarto punto d’orientamento che abbiamo detto essere insituabile perché esiste nel linguaggio e che orienta il Mediterraneo nella lingua. Il Mediterraneo non è cristiano. E l’Europa non è la cristianità, come hanno voluto, e ancora si vuole. O almeno, sono cristiani quel Mediterraneo e quell’Europa che si sono chiusi in difesa dietro le resistenze del potere. È l’Europa germanica e romana del Sacro Romano Impero. Ma nella lingua l’Europa e il Mediterraneo sono greco, ebraico, arabo e latino. È l’Europa nata in Andalusia, nella Spagna araba, e in Sicilia.
La nostra Europa nata dalla traduzione.
La traduzione ha comportato la fine dell’uso della lingua latina. Quei traduttori che traducevano l’arabo, il greco, l’ebraico e il latino hanno di fatto creato le prime lingue che costituiranno l’Europa, il castigliano e il catalano, il provenzale e il siciliano. Perché il latino, diventato troppo rigido, non era più in grado di soddisfare le esigenze di rappresentazione del linguaggio e cioè quella nuova organizzazione dell’immaginario che veniva formandosi, soprattutto a opera della poesia e della matematica, nell’incontro delle lingue e dei linguaggi. Così come la “latinità” nasceva dalla traduzione in latino dell’Iliade, l’Europa nasceva dalle traduzioni di quattro lingue e di quattro alfabeti differenti. Le nuove lingue aprivano un’altra via della sessualità: la «nuova fissazione» di una trascrizione, che si apriva sulla rappresentazione angelica della donna, di matrice araba e musulmana che i trovatori cristiani di Provenza prima e i siciliani poi cantarono nella loro poesia, avviava la dissoluzione del Sacro Romano Impero e del potere totalitario della religione sulle coscienze.
Con pari impegno, e con la stessa giocosità, occorrerebbe oggi, e forse ancora più d’allora, tanto coraggio e tanta intelligenza. Occorre di nuovo rompere con la supremazia dei discorsi religiosi e restituire all’Europa la sua vitalità che è data dal Mediterraneo e dall’incontro delle lingue e degli alfabeti. E questo oggi è possibile solo pensando a un’estensione dell’Europa stessa, in grado di accogliere i popoli e di rimarginare la frattura fra Europa e Asia. E dunque riconoscere che la Turchia, ma anche il Libano, Israele e la Palestina sono parte dell’Europa. Lo sono perché rappresentano uno sviluppo dell’Europa per gl’intrecci che a vario titolo hanno legato questi luoghi del Mediterraneo fra di loro nel corso di questi nostri tremila anni di storia. Ritrovare così il grande disegno dei nostri padri antichi, da Omero e Virgilio, da Federico II a Dante Alighieri e infine ai rinascimentali. Restituire vita, poesia e sorriso a quest’Europa, aggredita dalla follia e dalla stupidità delle religioni, intristita e affaticata dal peso dei paramenti ecclesiastici, colpita a morte dall’ignoranza, dall’avidità e dalla superbia.