Le due Iris di Shalev

Iris è una donna israeliana di quarantacinque anni che vive a Gerusalemme. Ha una famiglia – un marito e due figli grandi – e un lavoro in cui mette tutta se stessa: è direttrice in una scuola dove si tenta con coraggio e tenacia l’integrazione tra arabi ed ebrei, è stimata da tutti. Dieci anni prima è rimasta coinvolta in un attentato a un autobus, passava di lì nel momento dell’esplosione (a causa di un cambio di programma forse imputabile a un tradimento del marito) e ha riportato gravi ferite per le quali ha subito interventi chirurgici e lunghi periodi di ricovero. Dopo un decennio di relativo benessere fisico, improvvisamente il dolore fisico si risveglia, lancinante, insopportabile. “Devo aver  fatto un movimento sbagliato, prendo una pastiglia e vado a lavorare” dice a Michi, il marito che la soccorre spaventato.

Zeruya Shalev, Dolore (Copertina)

Invece il dolore non passa, anzi peggiora. Così decide di interpellare un luminare nel campo della terapia del dolore e qui un’incredibile coincidenza le fa reincontrare l’unico vero grande amore della sua vita, Eitan, con cui a diciassette anni aveva vissuto una storia travolgente e che l’aveva abbandonata dopo la morte della propria madre, amorevolmente assistitita da Iris per tutta la malattia. Dopo l’abbandono lei era caduta in una profondissima crisi e aveva trascorso mesi di completa abulia, sfiorando l’annientamento fisico e psichico. Da allora non l’aveva più incontrato. Iris decide di rivederlo, lo cerca, chiede insistentemente alla sua segretaria un appuntamento per un’altra visita. Le pare che la sua vita possa finalmente uscire dai binari grigi su cui ha proceduto per vent’anni con un matrimonio insoddisfacente, con un uomo che non è quello giusto e con cui ha generato due figli che dovevano essere invece i figli di Eitan. La sua vita può riprendere il corso naturale che per un errore era stato abbandonato. Per caso, proprio in quei giorni viene a sapere che Eitan, poco tempo dopo l’abbandono, era andato a cercarla per tentare un riavvicinamento. Ma lei quel giorno non era in casa, e lui, cacciato in malo modo dalla madre, non l’aveva più cercata. Questa tremenda beffa del destino la convince ancora di più a perseverare nel suo tentativo di riavere l’uomo che è stato la sua gioia e la sua rovina e di recuperare il tempo perduto. E ci riesce. I due riprendono la relazione lì dove l’avevano interrotta, convinti di poter cancellare con un colpo di spugna i decenni di lontananza e le nuove vite che nel frattempo si sono costruiti. E subito Iris si caccia in situazioni che sfiorano il grottesco – nel giardino del condominio dove abita Eitan, di sera al buio, nascosta come un ladro nel folto di una siepe, o a casa sua, dove, febbricitante, in pagine tra le più riuscite e divertenti del libro, riceve l’amante-medico senza accorgersi della domestica che li sorprende in atteggiamento quantomeno sospetto e alla quale lei fornisce spiegazioni decisamente inverosimili.

Mentre il desiderio di rivedersi si fa ogni giorno più impellente e si scontra con le complicazioni della vita familiare e lavorativa di entrambi, Iris scopre che sua figlia Alma è in pericolo: a Tel Aviv dove lavora è caduta nella rete di una setta a capo della quale c’è proprio il titolare del locale dove la ragazza fa la cameriera. E subito si affaccia il pensiero che, se vuole salvare la figlia, dovrà rinunciare all’uomo che ha appena ritrovato e che cerca di convincerla a lasciare la sua famiglia per cominciare una nuova vita con lui. L’aut-aut è immediato nella sua testa. Così come non riesce a cogliere l’opportunità di un incontro che, comunque, sarà un nuovo incontro e continua a riproporre la messa in scena di un canovaccio ormai defunto da secoli, allo stesso modo Iris non riesce a tenere separati i fili della sua esistenza, ciascuno con la propria responsabilità, i propri sentimenti, il proprio tempo, e ha bisogno di barattare l’uno con l’altro, senza riuscire a venire a capo di niente. Se io rinuncio a Eitan, allora Alma si salverà. Questo il pensiero che guida le ore frenetiche di Iris a Tel Aviv. Dopo una sequenza drammatica in cui, nel tentativo di impedire ad Alma di distruggersi con le proprie mani, Iris rischia di finire un’altra volta in ospedale, nelle ultime pagine la famiglia si trova finalmente riunita al suo capezzale, in un quadretto che cerca di ricomporre un’armonia mai esistita, e dove traspare un senso di incompiutezza molto forte.  Se è vero infatti che Iris non può pensare sul serio di riesumare come se niente fosse una storia che aveva vissuto all’età di diciassette anni (e la scena in cui Eitan, in trattoria, la costringe a ingoiare della carne, a lei che da vent’anni è vegetariana, lo dimostra con una violenza che nessuna spiegazione avrebbe potuto esprimere e misura l’abisso che in realtà separa i due amanti), è altrettanto vero però che nel libro non si spiega mai cosa veramente c’è stato di “necessario” nella storia con suo marito. Michi per tutto il libro ci appare una figura di contorno, insignificante. La domanda che il lettore si fa dall’inizio del libro è: “Ma perché lo ha sposato?”. Le figure femminili (Iris, Alma, l’amica Noa con la figlia Daphne) sono ben delineate, vive, si impongono al lettore. Quelle maschili invece (Michi, Omer, perfino Eitan, che a un certo punto Iris comincia a chiamare Dolore) sono sfuocate, sbiadite, incoerenti. Ma, nonostante tutto, l’autrice sembra incapace di credere che un’altra storia, al di là di quella fantasticata e di quella reale, sia possibile. La scelta per lei è tra la farsa di un amore tra liceali e il presente, a cui lei attribuisce un valore “a prescindere”. E infatti, nelle ultime pagine, alla figlia che le dice “Dolore ti ha cercato” e che chiede spiegazioni su quest’uomo dal nome bizzarro, Iris confida:“ [È stato] il mio primo fidanzato. L’ho rivisto per caso nello studio medico, qualche settimana fa”, e Alma la ascolta interessata: “L’hai rivisto dopo trent’anni? Allora è per questo che stanotte l’hai sognato! Davvero sembra un sogno!”. “Hai ragione, non fa parte della realtà” mormora Iris … “è una specie di fuga dalla realtà,” e Alma dice: “che c’è di male nella fuga?”, e sua madre esita un attimo, prima di rispondere: “quando si scappa non è mai libertà”.

Il presente di Iris tuttavia in realtà è la greve storia di un attuale senza passione, senza posta in gioco, segnata solo dal dolore fisico che non dà tregua e dal legame creato dal lavoro e dai figli. Non una parola riscatta davvero questo presente, dove per tutti a dettare legge è il senso del dovere e l’impegno quotidiano. Come a dire: nel presente non c’è posto per il sogno e l’amore, solo ciò che accade sul piano del reale conta davvero. Non a caso, sarà la figlia rientrata all’ovile a gettar via il biglietto di Eitan, nel quale egli aveva scritto a Iris “Torna da me”.

Una scrittura potente quella di Zeruya Shalev, verrebbe da dire quasi maschile, senza tentennamenti, senza mezze misure. Travolgente, brillante. In questa storia senza pause si piange, si ride, si mangia, si beve, si suda. I corpi sono ora puliti e profumati, ora sporchi e puzzolenti. Come le strade, le città e le case in cui i personaggi della storia si muovono. Immagini dai colori saturi, le sue, che vengono da un altro mondo, quello di Israele, dove la vita e la morte, il bene e il male, i sentimenti, le percezioni sensoriali, le parole hanno il rigoglio di un tempo arcaico, sono esposti alla luce di mezzogiorno. Una scrittura che rimbalza di continuo dal tempo attuale – fatto di cellulari, computer, messaggini, rumori di città, auto nel traffico, cosmetici, negozi, ospedali – al tempo biblico, scandito da altri ritmi e altri suoni, un tempo sospeso che ricorda l’eternità e la morte, ciò che – come il dolore per Iris – non passa e insiste.

Dolore, di Zeruya Shalev, sul sito dell’editore

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