Un recente e affascinante saggio dello storico dell’arte tedesco Hans Belting (Florenz und Bagdad. Eine westöstilche Geschichte des Blicks, 2008; pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2010 col titolo I canoni dello sguardo) ha rilanciato un’ipotesi che una nutrita schiera di studiosi di area anglosassone – David Lindberg, Jack Greenstein, Mark Smith, David Hockney, Charles M. Falco – aveva già formulato a partire dai primi anni 80 del secolo scorso: l’invenzione della prospettiva nelle arti visive fu solo un frutto miracoloso del genio rinascimentale italiano, o non fu piuttosto il punto d’arrivo di un lungo cammino teorico iniziato poco dopo l’anno Mille grazie al grande fisico e matematico arabo Ibn al-Hayṯam, ossia quell’Alhazen che fu autore del più importante trattato di ottica del Medioevo?
Prima di esaminare in breve la questione, vorrei dire subito quello che in sostanza ne penso: l’indagine di Belting è giusta nei propositi e meticolosa nelle argomentazioni, anche se forse eccede nella certezza delle conclusioni. Chi può infatti assicurarci che sia stata proprio la Perspectiva di Alhazen, filtrata dagli studi fisico-matematici di Biagio Pelacani – che morì nel 1416 – a ispirare direttamente le teorie del Brunelleschi, dell’Alberti, di Piero della Francesca e del Ghiberti? Belting definisce Pelacani come “l’inventore dello spazio matematico”, ed è possibilissimo che i nostri teorici della prospettiva abbiano attinto a piene mani dal suo spazio visivo perfettamente alhazeniano (la geometria piramidale dei “raggi visivi”); ma d’altra parte è sufficiente dare uno sguardo al pavimento disegnato da Ambrogio Lorenzetti nella Annunciazione – che è del 1344 – per renderci conto di quanto il cammino della prospettiva pittorica fosse già progredito in Italia ben prima del Quattrocento.
Chiarito questo punto, andiamo all’origine di questa storia. Perché è qui che, io credo, ci possono attendere le vere sorprese. Come al solito, nonostante le innumerevoli fonti di conoscenza offerte dalla vastità degli studi orientalistici, si tratta di sgretolare un pregiudizio che è frutto di un tenace eurocentrismo: la scienza fiorita nel mondo islamico tra l’ottavo e il tredicesimo secolo non fu un’opera di pura e semplice trasmissione o interpretazione del sapere greco, ellenistico o indiano. Fu una cultura creativa, innovativa e per vari aspetti rivoluzionaria. Fu, come affermato più di trent’anni fa dallo storico della scienza Edward Grant, la vera matrice della rivoluzione scientifica europea del XVII secolo. Studiosi del calibro di Carlo Alfonso Nallino o Miguel Asín Palacios lo avevano già fatto notare ben prima di Grant. E ora anche Belting lo afferma mostrando l’esempio indiscutibile di Ibn al-Hayṯam, che: “con la sua correzione rivoluzionaria dell’ottica antica dimostra ancora una volta che la cultura araba non si lascia ridurre a mera cultura della traduzione”.
Nato a Baṣra (Bassora) nel 965, Ibn al-Hayṯam visse la vita tormentata tipica dei geni. Diffusasi per tutta la umma islamica la sua fama di grande fisico e matematico (era riuscito a risolvere un’equazione del quarto grado ricorrendo alle coniche di Apollonio, grazie all’intersezione di una circonferenza con un’iperbole), fu chiamato in Egitto dal califfo fatimida al-Ha̅kim, che lo incaricò di studiare un progetto per imbrigliare le piene del Nilo. Ma il progetto fallì, Ibn al-Hayṯam cadde in disgrazia, e per salvarsi dall’ira del califfo cominciò a fingersi pazzo. Morì nel 1039 al Cairo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita in un tugurio nei pressi della moschea di al-Azhar, guadagnandosi il pane con piccoli lavori di traduzione di testi scientifici.
Fu intorno al 1028 che Ibn al-Hayṯam scrisse il suo capolavoro, quel Kitāb al-manāẓir che, a partire dalla versione latina di Gherardo da Cremona (nota coi vari titoli di Liber de aspectibus, o De crepusculis, o Perspectiva Alhazeni), alla fine del secolo XII pose le basi dell’ottica moderna. Cancellando in un solo colpo le antiche teorie della visione ereditate dai “fluidisti” (Euclide, Ipparco, Tolomeo, Eliodoro di Larissa), dagli “eidolisti” (Epicureo, Lucrezio), e da Aristotele (che aveva tentato una mediazione fra la teoria dei fluidi e quella degli “éidola”), il genio di Baṣra dimostrò – servendosi principalmente della camera oscura, di cui fu l’inventore – che a ogni punto degli oggetti che noi vediamo corrisponde un punto dell’immagine che si forma nei nostri occhi, grazie al “raggio visivo” che li congiunge. E partendo da questa osservazione sviluppò una teoria geometrico-matematica dei raggi.
La fama di Alhazen si diffuse universalmente nell’Europa del XIII secolo, e non solo tra gli studiosi di fisica e matematica. Jean de Meung nel Roman de la Rose esaltò l’importanza del suo trattato. E Chaucer nei Canterbury Tales mise in rilievo il suo nome tra gli autori che avevano studiato le proprietà degli specchi. La civiltà islamica ha dato anche questo all’Europa. Non solo le opere ben più note e celebrate, come il Canone della Medicina di Avicenna, o il Gran Commento aristotelico di Averroè, o il Libro dell’Algebra di al-Khwarazmi. C’è ancora molto da scoprire nelle “radici islamiche” della nostra cultura.