Le tracce dell’assente in Ozu

Un Deus absconditus

Nella breve presentazione del mio libro Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale[1] che appare su quella che nel gergo editoriale viene detta “quarta di copertina” si parla del mio pormi anche in questo caso sulle orme del Trascendente e alla ricerca delle “tracce dell’Assente”. Non è un caso se le parole Trascendente e Assente siano scritte con la lettera maiuscola. La mia ricerca infatti va oltre una indagine di tipo filosofico o esistenziale ma pur muovendo da lì i suoi passi ha scelto poi di accedere ad un livello teologico e spirituale del discorso in cui ad essere interrogato è il Dio della tradizione biblica anche se ciò può essere meno evidente e solo sottinteso nel caso del libro sul cinema di Yasujiro Ozu (1903-1963)[2]. San Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo del sedicesimo secolo affermava che dal momento in cui il Padre ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire. Si tratta di un concetto che è presente nel Nuovo Testamento nella lettera agli Ebrei e in altri testi soprattutto giovannei e paolini. Il Dio che ha scelto di rivelarsi in maniera totale e definitiva nel suo Figlio Gesù Cristo (Eb. 1,2) non cessa tuttavia di essere un Deus absconditus[3], un Dio nascoso, che spesso a noi sembra essere avvolto e occultato da una coltre di silenzio e di “assenza”. Da qui quell’esigenza inestinguibile e quell’inquietudine che ci portano a cercarlo senza sosta “andando come a tentoni” (At. 17,27) e a volte non senza affanno come la sposa del Cantico dei cantici cerca l’Amato. Anche solo un segno del suo passaggio, un’orma o una traccia della sua silenziosa e invisibile presenza colmano il nostro cuore di una gioia sublime e indicibile (1Pt. 1,8) ed è per questo che il desiderio che anima la nostra ricerca lungi dall’ estinguersi si riaccende e si accresce man mano che intravediamo qualcuno dei suoi segni.

Lo stile di Ozu

Ora l’espressione “le tracce dell’assente” in questo caso scritto con la minuscola non è del tutto mia, in quanto l’ho trovata in un testo[4] che cito più volte nel mio libro dedicato al regista giapponese. Il libro di Carlos Martìs Arìs è dedicato ad alcune figure eminenti di artisti del ventesimo secolo nelle cui opere risulta determinante il tema del silenzio che squarcia il tetto dell’immanenza. Tra loro l’autore inserisce anche Yasujiro Ozu a cui dedica un capitolo, il quinto: “Ozu o le tracce dell’assente”[5]. Si tratta di un brano testuale ricco di spunti metafisici che cerca di penetrare nel significato di una poetica che ha radici profonde spingendosi oltre la realtà fenomenica e aprendosi sul mistero della trascendenza. Io ho scelto di fare mia l’espressione per certi versi misteriosa ed enigmatica “tracce dell’assente” subendone il fascino affatto particolare, dando tuttavia alle parole, man mano che mi dedicavo ai saggi su Bergman e Rohmer, un senso più compiuto e definito che trova il suo contesto vitale di riferimento nell’ambito della rivelazione biblica e cristiana in particolare. Trovo tuttavia di considerevole importanza e significato che tali tracce si possano rinvenire anche nel percorso personale di un grande autore che appartiene ad un mondo culturale che per molti aspetti ci risulta estraneo.

Tomba di Yasujiro Ozu con fiori
Tomba di Yasujiro Ozu con fiori

Il regista nipponico ha tratto dall’humus della propria tradizione culturale e religiosa i valori spirituali che informano la sua arte che quasi non è comprensibile se si prescinde dalla comprensione del loro apporto. Concetti come“mu”[6], “mono no aware”[7], “omiai”[8], “ie”[9], “devozione filiale[10] sottendono il pensiero del regista e la sua precomprensione della realtà ispirandone profondamente lo stile. Egli adotta di fatto un punto di vista “obliquo”, ponendosi come di lato, senza che la sua persona sia al centro e si frapponga tra l’obiettivo e la realtà, il suo non è solo un osservare ma anche un mettersi in ascolto, un ascolto che si fa umile e rispettoso. È da tale postura che gli oggetti e le persone stesse vengono inquadrati dalla macchina da presa, quasi attendendo il momento in cui vivranno un mutamento e una trasformazione che solo a volte si rende più percepibile. È a quel momento che lui tiene particolarmente ed è in tal modo che “l’inventario del quotidiano si trasforma dunque in una invocazione spirituale”[11]. La società e la famiglia che ne rappresenta il distillato e anche il microcosmo sono lette attraverso questa lente e il tempo è il fattore saliente attraverso cui tutto viene filtrato. Nel testo ci sono riflessioni molto dense sullo stile peculiare di Ozu e anche sul significato dei suoi celebri “piani vuoti”, quegli inserti nel flusso narrativo che lo interrompono per qualche secondo. Essi sono abitati da un silenzio che a volte si fa ricettacolo di emozioni e stati d’animo e altre ne diventa evocatore attraverso oggetti inanimati o ambienti spesso domestici svuotati della presenza umana. Per spiegare meglio ciò che l’autore intende per “tracce dell’assente” nel capitolo si fa una breve analisi di alcuni brani tratti dalle opere del regista giapponese. Voglio soffermarmi su di uno in particolare riguardante le sequenze finali di Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, 1953). Vi sono rappresentati tre personaggi del film mentre sono soli e pensano.

Le sequenze finali di Viaggio a Tokyo

La storia volge al termine e il vecchio Sukichi che ha perso da poco la compagnia della moglie Tomi è nella sua casa, seduto sul tatami in silenzio davanti alla finestra, lì dove prima amava sedere insieme con lei. Caccia una mosca fastidiosa che gli vola vicino al viso e guarda al di fuori verso il porto di Onomichi e il mare. Tra poco si affaccerà la vicina e la saluterà sorridendole gentilmente come è suo modo. Gesti consueti che si ripetono e fanno pensare a quando con lui c’era Tomi, i gesti sono gli stessi ma allo stesso tempo sono mutati, hanno un sapore diverso. Rimane sospeso nell’aria il non detto, l’implicito, tutti lo pensiamo guardando questa scena e non sono tanto le parole a manifestarlo, ancora nessuno ha parlato, ne altri elementi che vi siano presenti, a rivelarlo sono le tracce dell’assente[12].

Poi c’è Kioko, la figlia di Sukichi che è maestra e mentre i bambini cantano lei si affaccia alla finestra dell’aula e guardando l’orizzonte pensa. Sa che tra poco vedrà passare il treno per Tokyo su cui è appena salita la cognata Noriko, quel treno le evoca tutto un passato recente fatto di parole ed emozioni, di lutti e amarezze, di scoperte e rivelazioni: nulla sarà più come prima. La figura del treno come è in grado di presentificare una realtà interiore così nella sua corsa porta lontano. Il protagonista è il silenzio e a parlare sono solo le immagini e in sottofondo il coro dei bambini ma le tracce di ciò che è stato (e di un turbamento verso un futuro inconoscibile) si fanno segno e memoria e pur essendo a tutti gli effetti invisibili e impalpabili vengono impercettibilmente trasferite dalla composizione di quella scena con al centro la figura pensosa di Kioko, direttamente al cuore dello spettatore.

L’altro vertice di questo triangolo ideale è rappresentato da Noriko che su quel treno sta lasciando la casa dei suoceri e del marito disperso in guerra per tornare a Tokyo, la città dove lei vive e lavora e che indica il suo futuro. Il treno è immagine del tempo che trascorrendo si lascia dietro paesaggi, città, campagne, in una parola il passato. E insieme alla dimensione temporale «introduce la dolorosa coscienza che tutto si avvia irreversibilmente alla fine». Noriko osserva l’orologio da taschino che le ha regalato il suocero (ancora un rimando al trascorrere del tempo), era quello che apparteneva alla moglie defunta, non può che commuoversi e piangere pensando a quel dono, all’affetto ricambiato verso Tomi, alla propria travagliata storia matrimoniale, una storia che non vuole lasciarla e che neppure lei vorrebbe lasciare. Ma le parole di Sukichi hanno sollevato il suo animo da scrupoli insensati, un tempo sta davvero esaurendo il suo corso…  Nel silenzio di uno scompartimento ferroviario l’unico rumore che si avverte è lo stridore meccanico e sordo del treno sulle rotaie. Silenzio imperfetto “in cui si imprimono le tracce dell’assente” [13].

[1] Bersan D., Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2024.

[2] Bersan D., Figure del padre in Ozu, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2020.

[3] Is. 45,15. Rimando anche alle mie riflessioni a commento del film “Luci d’inverno”: Bersan D., Dio ridotto al silenzio. Pensieri inattuali su Bergman, Polimnia Digital Editions. Sacile (PN) 2021, pag. 149-153.

[4] Martìs Arìs C., Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2002.

[5] Op. cit., pag. 58-69.

[6] Concetto buddista che richiama al vuoto, al nulla inteso non nel senso nichilistico proprio dell’Occidente ma come feconda matrice in cui l’io si perde per poi ritrovarsi in un processo di perenne movimento attraverso l’estinzione e la rinascita.

[7]Dolce mestizia che prende l’animo mentre contempla il dileguarsi inarrestabile delle realtà umane.

[8] Si tratta del matrimonio combinato dalle famiglie dei futuri sposi, anche attraverso un mediatore interno o esterno alla famiglia.

[9] È la famiglia tradizionale giapponese che ospitava più generazioni e anche altri membri adottati o acquisiti.

[10] È uno dei principi cardine della dottrina confuciana.

[11]Op. cit. pag. 63.

[12] Op. cit. pag. 67.

[13] Op. cit. pag. 67. La citazione si riferisce alle parole che nel testo commentano un altro film di Ozu, “Inizio di primavera” (Soshun, 1956) e riguardano la scena finale in cui i due coniugi momentaneamente riconciliati e lontani da Tokyo, la loro città, osservano in silenzio il treno che lentamente si allontana attraversando quel grigio paesaggio industriale.

Figure del padre in Ozu

In occasione della pubblicazione del libro di Davide Bersan Figure del padre in Ozu (Polimnia Digital Editions, Sacile 2020, ISBN: 978-88-99193-79-9)[1], riportiamo un’ampia presentazione scritta espressamente dall’Autore.

Il libro è un itinerario dentro il cinema di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato nel 1903 a Fukagawa, sobborgo popolare di Tokyo e morto nel 1963, lo stesso giorno del suo compleanno, il 12 dicembre. Il suo primo film è del 1927, l’ultimo del 1962: Il gusto del saké.

Ozu è considerato un maestro del cinema per il suo modo peculiare e geniale di saper utilizzare la macchina da presa. Il suo stile passa progressivamente da un cinema di imitazione – i film americani appassionavano il giovane Yasujiro che ne traeva ispirazione particolarmente per i suoi lavori dei primi anni Trenta, che esploravano i generi slapstick, noir, gangster, storie di studenti, ecc. – a uno più personale e originale. Si tratta di uno stile sempre più sfrondato dai numerosi espedienti tecnici appresi e sempre più ispirato a un rigore formale ed espressivo basato su criteri di sobrietà ed essenzialità, basti citare la fissità della mdp e la scelta di mantenerla all’altezza di una persona seduta sui tatami o a quella di un bambino. Ma non si trattava solo di decisioni che riguardavano alcuni procedimenti tecnici. Esse esprimevano una propria personale visione del mondo ispirata alla tradizione filosofica e spirituale del buddismo zen in cui concetti come mu (vacuità, assenza) e mu-jo (impermanenza) costituivano dei principi cardine. I film di Ozu hanno costituito e rappresentato questa sua visione del mondo.

A partire dai primi anni trenta – penso a Il coro di Tokyo (1931) – Ozu fa propria la cifra di una delicata e toccante umanità, descrivendo le storie della gente comune (Shomingeki). È un genere che certamente Ozu non inventa e trova già frequentato da altri, ma che a suo modo reinterpreta e traduce attraverso la sua levità particolare, il suo sguardo distaccato, obiettivo, che lascia emergere la realtà così come essa si presenta.

Dallo Shomingeki Ozu non si è mai allontanato, descrivendo le classi sociali più umili nei film degli anni Venti e Trenta per passare alla classe media nei film degli anni Quaranta e del dopoguerra. All’interno di questo genere di cinema contemporaneo l’obiettivo del regista si focalizza fin quasi da subito sulla famiglia giapponese che viene seguita nel corso di più di tre decenni nelle sue mutazioni a volte più lente e a volte improvvise e travolgenti.

Davide Bersan – Figure del padre in Ozu – Copertina

La figura del padre è indubbiamente in primo piano e risalta in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni attraverso le opere dell’autore a partire dai film più vecchi fino agli ultimi. Come spiego nell’introduzione al libro, nel corso degli ultimi anni ho curato vari incontri pubblici in cui i film di Ozu sono stati visti e discussi presso la biblioteca comunale della mia città. Di tale lavoro di analisi filmica condivisa ho mantenuto ed elaborato alcune riflessioni che considero interessanti e che riguardano la figura paterna prendendo spunto anche dagli studi di alcuni autori di psicanalisi. Tra questi in particolare non posso non ricordare l’amico Giancarlo Ricci, recentemente scomparso, che ha partecipato a molti di questi eventi dando sempre con la sua consueta umiltà, nelle vesti di un anonimo partecipante, il suo contributo profondo e prezioso. Da questo punto di vista il libro è anche un tentativo di approfondimento sul tema del padre che raggiunge la contemporaneità e il nostro contesto culturale attraverso lo specchio di una civiltà “altra” e lontana, oltre che di una fase storica che ci ha preceduti.

Il primo capitolo è dedicato agli anni del muto e il padre si caratterizza per la sua lotta quotidiana volta a garantire la sussistenza materiale della propria famiglia. È un padre limitato e difettoso ma anche sensibile e umano. Egli subisce le recriminazioni e a volte i rimproveri dei figli che non si rendono ancora conto di quanto il discorso sociale imponga le sue leggi aspre e dure a cui il genitore deve soggiacere, a volte patendo umiliazioni nella sua dignità pur di mantenere il suo posto di lavoro: Il coro di Tokyo (1931), Sono nato, ma… (1932). In alcune opere di questo periodo il padre è un perdente dal punto di vista sociale (disoccupato, attore ambulante fallito, perdigiorno alcolizzato…) ma conserva comunque un candore particolare che si rivela per lo più quando entrano in gioco i suoi sentimenti paterni.

Il padre del periodo bellico è una figura che spicca per la sua caratura morale da cui promana una certa gravità e austerità che però non annullano il suo lato umano e affettivo. Egli segnala i valori a cui riferirsi e che ritrova nella tradizione degli antichi. Il contesto culturale è segnato profondamente dal confucianesimo di cui uno dei principi cardine è la pietà filiale. Il padre va onorato e occorre riconoscere il debito che nascendo si contrae nei suoi confronti. D’altra parte il padre – ma anche la madre: Figlio unico (1936) – si sacrifica per il figlio, esercita un lavoro ingrato con poche soddisfazioni, costretto a vivere a una grande distanza da lui, per permettergli di studiare. Egli si rivela come un autentico eroe del quotidiano, assolvendo con dignità e umiltà il suo compito di ogni giorno solo per poter vedere un giorno il figlio felice di aver trovato a sua volta la sua strada. La gioia del padre si alimenta e si riflette in quella futura del figlio. Illuminanti a tale proposito sono le parole del protagonista di C’era un padre (1942), Horikawa,che prima di morire dice al figlio Ryohei: «Fai sempre del tuo meglio, come tuo padre, che ha fatto tutto quello che ha potuto… Sono felice! Ho tanto sonno…».

 Il padre del dopoguerra è invece una figura più complessa che si incarica di fare da ponte e da mediatore tra ciò che è del passato e merita di rimanere e ciò che sembra essere il futuro nel bene e nel male, come promessa o come incombenza. Il Giappone è un paese che esce sconfitto e umiliato dal conflitto bellico, occupato militarmente da una potenza straniera che impone anche i suoi modelli culturali. Modelli che progressivamente vengono adottati dalla popolazione e soprattutto dalle giovani generazioni. Di ciò risente e patisce in primis l’istituzione familiare tradizionale. La grande famiglia (ie) si sfalda e sul modello occidentale diventa famiglia nucleare. L’azienda e i rapporti con i colleghi prendono, in una certa misura, il posto della famiglia stessa, parassitandone l’offerta di un’appartenenza a un corpo sociale, istanza a cui l’uomo giapponese è molto sensibile. La conseguenza è che i padri rimangono la maggior parte del tempo lontani da casa e dai figli.

 Il padre dei primi film di Ozu del dopoguerra è una presenza equilibrata e rassicurante, è sempre un uomo dedito al suo lavoro e custode dei valori della tradizione che però non può esimersi dal confrontarsi con un cambiamento che si fa ineluttabile. Cambiamento dovuto ai tempi, certo, ma anche al trascorrere della vita stessa, delle scelte che devono essere fatte, che i figli devono fare per trovare il loro posto nel mondo. Si tratta – prima ancora di un cambiamento culturale e sociale che tuttavia fa da sfondo, e che in certi film pare prevalere – di un cambiamento insito nelle leggi universali che reggono la natura, la vita degli esseri viventi. I figli (e le figlie) un giorno quando saranno cresciuti prenderanno la loro strada, si sposeranno, si allontaneranno dal nido familiare, è inevitabile… Una sensazione di perdita e di solitudine si fa presente. Non è così solo per l’allontanamento dei figli ma anche per quel processo inesorabile che accompagna l’esistenza di ogni realtà creata che ha necessariamente un inizio, un fiorire, una maturazione e una fine.

 Il sentimento estetico e spirituale che l’uomo giapponese prova dinanzi alla provvisorietà (mu-jo) anche delle cose più belle e sublimi, e che unisce l’accettazione serena e una dolce tristezza, è quell’atteggiamento contemplativo che la tradizione zen chiama mono no aware. I padri di Tarda primavera (1949), di Inizio d’estate (1951) ma anche di Viaggio a Tokyo (1953) vivono ed esprimono questa profonda spiritualità che riflette senz’altro quella del regista che in loro trova degli alter-ego in cui rispecchiarsi. Ma negli ultimi film e in particolare nell’ultimo, Il gusto del sakè (1962) pare di cogliere qualcosa di più di un raffinato atteggiamento estetico: un aspetto tragico in cui si accampa il dolore del padre, una faglia di dolore che non può e non vuole placarsi. Dentro una realtà sociale in radicale cambiamento, in cui la preziosa eredità degli affetti familiari viene minata fin nelle sue fondamenta, vi è una dimensione che si radica su di un piano più metafisico e universale e che riguarda le leggi eterne della vita e della morte, pare dirci Yasujiro Ozu.

Non sono solo le potenti trasformazioni della società giapponese a porre il padre dentro un’esperienza continua di perdita e di lutto, è qualcosa di più profondo. Non è nemmeno il venir meno dei legami più intimi, dell’allontanarsi delle persone a cui si è più affezionati, come era avvenuto per l’anziano padre Somiya dopo il matrimonio tardivo della figlia Noriko in Tarda primavera. Qui si coglie qualcosa che riguarda il senso della trascendenza. Il padre ne è il silenzioso testimone, e non può non esserlo, dato che è proprio questo il suo compito. Dal suo silenzio, il padre si fa indicatore di un Oltre. Un compito altamente nobile e spirituale che lo pone sulla breccia. Un mondo sta morendo, forse un altro sta per nascere e lui è solo, sulla breccia. Non è un eroe, neppure un eroe del quotidiano come Horikawa, non lo è più. Se il suo avanzare tra i corridoi è fiaccato e reso instabile dal troppo sakè, il suo sguardo è lucido: egli guarda in faccia la fine e il dopo, la morte e l’Altrove, è una sentinella che non si stanca di fissare l’orizzonte e di scrutare il sentiero dove sono impresse le tracce dell’Assente.

Milano, 11 giugno 2020


[1] Il libro è disponibile nei principali store in formato PDF, epub e mobi-Kindle, e in edizione cartacea richiedendolo all’editore.