Mildred Pierce, un antidoto contro la Depressione Americana

L’inferno, in fondo, è un posto dove si lotta per emergere. E per emergere Mildred Pierce usa le cose che ha: delle splendide gambe e l’arte di cucinare benissimo, da buona donna di casa americana. Ora, divorziata da un marito ex benestante e con due figlie, è solo una donna bianca fra le tante, negli Stati Uniti del 1931. Ma Mildred vuole farcela e non guarda in faccia nessuno. Ferocemente attiva, da cameriera riesce ad aprire un ristorante, poi a costruire un piccolo impero. Purtroppo Mildred ha due difetti: una passione per gli uomini inconcludenti e spendaccioni e un attaccamento morboso per la figlia più bella, un piccolo demone opportunista su cui Mildred proietta le sue fantasie di riscatto.
(Introduzione a Mildred Pierce di James M. Cain, Ed. Einaudi)

Il film: una sinergia di forze opposte

Se davvero esiste un romanzo che è stato trasposto alla perfezione sul grande schermo, questo non è Mildred Pierce. Volendo evitare già ora di creare confusione tra la trama del libro e quella del film, si procederà a tratteggiare gli elementi condivisi dai due: con un marito incapace di provvedere a lei, Mildred (Joan Crawford) è una casalinga che si trova costretta a cercare un lavoro per provvedere alla sua sussistenza e a quelle delle sue due figlie, la cui prediletta è la viziatissima Veda (Ann Blyth). Dotata di grandi capacità, d’intraprendenza e di dedizione, Mildred crea in pochi anni un impero di ristoranti di successo, ma questo status di benessere, faticosamente raggiunto, non è destinato a durare a lungo.

Joan Crawford in un frame di Mildred Pierce
Joan Crawford in un frame di Mildred Pierce

Al di fuori della cornice del film, entrato nell’immaginario collettivo della cinematografia americana del dopoguerra, la catena di eventi che hanno portato alla realizzazione di questa pellicola paiono essere interessanti quasi tanto quanto lo stesso Mildred Pierce. Una parentesi obbligatoria: è vero che ora si tende ad identificare Joan Crawford come una delle star del firmamento del cinema classico, ma all’epoca l’attrice è reduce da una serie di flop alla MGM e, sbarcata alla Warner Bros., temporeggia in attesa che le venga proposto d’interpretare un grande film. Pertanto, Mildred Pierce va inquadrato anche come film chiave della sua carriera, che sarebbe proseguita quasi sempre ad alti livelli per i successivi quindici-venti anni con punte altissime quali Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954) o Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich, 1962).

La sceneggiatura del film passa per decine di mani prima di trovare la sua forma definitiva, quella giudicata giusta per essere trasposta sullo schermo. Tra i vari sceneggiatori ingaggiati e sbolognati in fretta senza troppi complimenti secondo la prassi hollywoodiana, c’è anche William Faulkner, premio Nobel per la Letteratura qualche anno più tardi. Si racconta che la sua versione contenga un voice-over e che il vero protagonista sia il ristorante di Mildred, diventato uno squallido luogo popolato da feccia che compie loschi affari sottobanco, e che Veda sia ancora più cinica e calcolatrice di come è stata poi resa nel film (e non dev’essere stata semplice delineare una figura ancora più insopportabile di quella).

Mildred Pierce subisce riscritture su riscritture fino ad assumere una fisionomia narrativa decisamente diversa rispetto a quella del romanzo di Cain. Modificare dettagli e particolari della trama non è mai stata una novità, ma qui viene completamente stravolta la struttura del materiale originale (il film inizia da una specie di anticipazione del finale per poi proseguire con una serie di flashback in fase d’interrogatorio) e ad essere trasformata pressoché in toto è la conclusione della storia attraverso colpi di scena inventati di sana pianta.

Ci si trova di fronte ad un bivio: lo si può considerare un grande film hollywoodiano anche se una serie di elementi snaturano la natura del romanzo? Si può e si deve. Se osservato come prodotto d’intrattenimento e parallelamente come strumento per veicolare una patinata morale di giustizia e di perseguimento del sogno americano, Mildred Pierce è un film perfetto nel suo avvicendare figure positive (Mildred) e negative (sua figlia Veda e il suo amante Monty Beragon) che si avvicinano e si scontrano sullo sfondo di un’America dove la caratura delle persone si soppesa sulla base del loro successo.

Tornando al finale, è qui è stata operata la modificazione più incisiva: nel film, Veda spara e uccide Monty mentre nel romanzo i due fuggono via insieme, lasciando Mildred, rispettivamente madre e moglie, alla deriva di sé e coperta di debiti. La scelta di virare Mildred Pierce al noir costruito in flashback fu dovuta al tentativo (riuscito) di replicare il successo di Double Indemnity (Billy Wilder, 1944), altro adattamento da un libro di Cain, ma ad interessare di più sembra essere la scelta di pulire i peccati dei protagonisti del romanzo dai comportamenti ritenuti riprovevoli dal Codice Hays come Mildred che va ripetutamente a letto con Wally, ex socio d’affari del marito e ora suo business partner, oppure Veda, la cui condotta va ben più in là dell’essere una smorfiosa viziata ed egocentrica.

È nel rapporto tra madre e figlia che si realizza, narrativamente parlando, il trionfo di Mildred Pierce: nel film si sottolinea un concetto fondamentale, quello di crescere i propri figli meglio che si può (e anche di più). Metabolizzando in tempi record ogni umiliazione, insulto, sbeffeggiamento e capriccio, Mildred cresce Veda come se fosse una principessina, viziandola all’inverosimile. In quello che è un ribaltamento del naturale ordine delle cose, questa è la storia di una madre che vuole costantemente e letteralmente a qualsiasi costo compiacere la figlia e non viceversa.

Quello che però preme più i produttori è mostrare una storia americana di successo all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mildred Pierce esce negli Stati Uniti nell’autunno del 1945 (in Italia, invece, viene distribuito solo due anni più tardi, nel dicembre del 1947 con il paradossale titolo de Il romanzo di Mildred) e le ostilità, con lo sgancio “democratico” delle due bombe atomiche in Giappone, sono definitivamente cessate qualche settimana prima. Il film però è pronto da ben prima di quella data, ma la sua uscita nelle sale americane viene posticipata fino a quel momento nella speranza che il clima post-bellico possa essere più adatto per il successo di una pellicola come quella.

Alla luce di ciò, oggi può far strano pensare che ai tempi James M. Cain dedichi una prima edizione di Mildred Pierce a Joan Crawford, ringraziandola per aver dato vita al personaggio da lui scritto esattamente nella maniera in cui se l’era immaginato, ma se ci si scomoda a dire che le trasposizioni cinematografiche degli ultimi due o tre decenni a volte si sono discostate dai libri per dettagli tipo il colore dei capelli di uno dei protagonisti, bisognerebbe guardare indietro agli anni ’40 o ’50 per scoprire che, in certi casi, del romanzo d’origine è stato lasciato intatto solo il titolo.

Agli Oscar del 1946, Mildred Pierce viene candidato a sei premi Oscar tra cui quello per il Miglior Film e la Migliore Sceneggiatura e finisce col portare a casa quello per la Migliore Attrice Protagonista, Joan Crawford, che in vista della cerimonia si è data malata per paura di perdere, dopo tutti gli sforzi fatti per realizzare quel film e dopo vent’anni spesi a Hollywood senza mai raggiungere le vette di sue colleghe come Bette Davis. Dice di avere l’influenza e rimane nella sua abitazione, ma non è vero, sta benissimo. La figlia adottiva racconta che, dopo esserle stato comunicato di aver vinto l’ambita statuetta, la Crawford si getta giù dal letto per truccarsi in vista dell’arrivo dei giornalisti, dei reporter e del regista Michael Curtiz, che le sta portando l’Oscar.

Come nel caso di altri grandi e importanti film hollywoodiani, anche Mildred Pierce vede la luce in seguito a turbolenze produttive e diatribe interne, in questo caso tutte polarizzate dalla Crawford e da Curtiz. Gli aneddoti dal set parlano chiaro di quanta poca simpatia scorra tra i due e gli scontri più frequenti riguardano proprio la modellazione di Mildred: la Crawford viene accusata dal regista di far modificare a suo piacimento gli abiti e il trucco del personaggio e lei implora la Warner Bros. di licenziare Curtiz per gli insulti di cui non fa sconti durante le riprese. Si giunge ad un compromesso: al regista viene concesso d’imprecare solo in ungherese (sua lingua d’origine) e alla Crawford viene impedito di operare eccessivi cambiamenti al look di Mildred. Alla consegna dell’Oscar a casa della Crawford, i due sfoderano i sorrisi più falsi e convincenti di cui dispongono. Ormai è tutto finito e Mildred Pierce è un successo.

Il contributo di Michael Curtiz alla riuscita del film è fondamentale e sarebbe impossibile pensare ad un’altra versione di Mildred Pierce se non la sua. Di fatto, come si è visto, la pellicola vive un’esistenza slegata da quella del romanzo e le stesse atmosfere che evoca sono differenti. Alle villette spagnoleggianti immerse nelle colline californiane, in pieno stile realista di Cain, si contrappongono le ambientazioni proposte da Curtiz, maggiormente legate ad un gusto post-espressionista: anche le case più modeste diventano luoghi giganteschi nei quali le ombre dei protagonisti si perdono tra le stanze, tutto è lugubre e il senso di minaccia e ansia pervade ogni inquadratura. Tra le altre cose, Curtiz è anche il regista del film classico per antonomasia, Casablanca (1942), di cui rievoca esplicitamente il bar di Rick quando mostra il locale di Wally Burgen.

Michael Curtiz on the set of Casablanca
Michael Curtiz on the set of Casablanca

Dopo il premio Oscar a Joan Crawford, sono molti gli esercenti delle sale americane a chiedere una seconda distribuzione di Mildred Pierce per sfruttare l’onda lunga seguita alla vittoria agli Academy Awards, ma la Warner Bros. non si dimostra per niente intenzionata ad un’operazione di questo genere. Il film è andato molto bene al botteghino (si parla di 4 milioni dollari nei primi mesi di programmazione, una cifra non indifferente nell’America post-WWII) e creare attesa in vista di una re-issue uno o due anni dopo può solo fare bene. Più a lungo si attende qualcosa, più interesse si crea. Ovviamente senza arrivare al punto da far dimenticare quel che si sta aspettando perché sta passando troppo tempo. Inoltre, c’è un nuovo titolo con la Crawford protagonista che sta per uscire nelle sale: Humoresque (1946), nel quale l’attrice interpreta il ruolo di una ricca e annoiata donna sposata che inizia una torbida relazione amorosa con un violinista di successo. Il film è un gemello eterozigote di Mildred Pierce in termini di messinscena, atteggiamento della protagonista, titoli di testa, fotografia, regia (dietro alla macchina da presa c’è questa volta Jean Negulesco) e cupio dissolvi generale. Vedere per credere.

Nel 1953 alcuni diritti sull’uso del romanzo vengono restituiti all’autore James M. Cain e inizia a circolare l’insistente voce dell’imminente realizzazione di un serial televisivo ispirato a Mildred Pierce con un’apparizione speciale di Joan Crawford, ma non nel ruolo della protagonista perché troppo impegnata a fare cinema (come si è già detto, in quegli anni l’attrice è all’apice della sua carriera). Le chiacchiere e le trattative circa una versione televisiva in più puntate continuano per gli anni a seguire e nel 1957 la CBS sembra essere lì lì per realizzarla, ma quando tutto sembra stare per concretizzarsi ecco spuntare come funghi avvocati pronti a bloccare questa iniziativa. C’è chi sta pensando di fare un remake del film, a distanza di poco più di un decennio, e quindi un prodotto televisivo non farebbe altro che smorzare l’interesse del pubblico verso un altro (e a colori) rifacimento cinematografico. Com’è e come non è, tutto si ferma. Dovranno passare più di cinquant’anni prima che si parli ancora di Mildred Pierce. Sarà Todd Haynes, regista dell’incantevole Far from Heaven (2002), a trovare un nuovo volto per Mildred e a rendere giustizia per la prima volta al microuniverso narrato da Cain, rimanendo quanto più possibile fedele alle pagine scritte dal romanziere.

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