Barnum

Se al gigante pietrificato di Cardiff nessuno crede più

I baci appassionati a leoni della savana, gli abbracci a tigri e dromedari, le evoluzioni di acrobati e trapezisti, le gag di clown e attori, le parate trionfali di artisti inguainati in costumi che luccicano in un tripudio di piume di struzzo che sembrava senza fine, non ci faranno, mai più, compagnia.

Il circo Barnum, dopo 146 anni di attività, ha chiuso definitivamente i battenti.

Sembra una notizia fake. Invece è vera.

Nato nel 1872 come Museo dei Grandi Viaggi, Serragli, Carovane ed Ippodromi, rapidamente ribattezzato lo spettacolo più grande del mondo, mostrava da oltre un secolo i suoi prodigi artistici ad un pubblico di affezionati.

Phineas Taylor Barnum gli aveva dato vita dopo aver inventato l’American Museum e aveva portato sotto un tendone che sembrava uscire ogni sera come un coniglio bianco dal cappello di un mago, elefanti, cavalli, leoni, orsi, lo scheletro di Cristoforo Colombo, la sirena delle isole Fiji (un busto di scimmia legato alla coda di un enorme pesce), Joyce Heth, una donna di colore che dichiarava 161 anni di età e pretendeva di essere stata la nutrice del presidente George Washington, Buffalo Bill e Toro Seduto. Fra gli altri.

Barnum's Freaks
The ‘freaks’ at Barnum’s menagerie.

Nel terzo millennio, dopo diversi passaggi di proprietà, cadute e rinascite, ultimo rimasto nella sua categoria a muoversi su rotaia, il circo viaggiava su e giù per l’America su due treni da sessanta vagoni ciascuno. Proponeva 2 spettacoli differenti, organizzati in una doppia tournée che si esibiva ad anni alterni ma che incontrava sempre meno il favore del pubblico. Oggi al gigante pietrificato di Cardiff non crede più nessuno, di donne barbute ce n’è a volontà e i lillipuziani non vengono più considerati degni di nota, nemmeno dalle favole.

Per quanto la voce degli animalisti si sia levata, non senza ragione, contro questa incredibile arca di Noè, addomesticata a colpi di frusta, incatenata, imbellettata, stupefatta da lustrini e finimenti in lamè, al grido di battaglia “Bye-Bye Animal Abusers”, la storia del circo Barnum dovrà comunque essere consegnata ai posteri. Perché perdere del tutto questa esperienza significa perdere un po’ della nostra capacità di sognare.

YouTube può offrirci la registrazione dell’ultimo spettacolo che probabilmente, così, non potrà mai essere derubricata dalla memoria collettiva, né sfuggire all’incalzare del tempo. Ma le foto d’archivio teniamocele strette perché anche in bianco e nero raccontano una storia così affascinante che sembra a colori.

I 500 artisti l’ultima sera hanno pianto. I 100 animali rimasti forse no.

Sullo sfondo dell’arena, una volta spente le luci, la magia ha dato la mano alla fantasia e il sogno all’illusione, anche grottesca, di un mondo che non c’è più ma che, con tutte le sue contraddizioni, vale la pena ricordare.

Come diceva Phineas Taylor Barnum “Molte persone, nel complesso, sono ingannate dal non credere in nulla, e non dal credere troppo.”

 

 

La solitudine degli animali

Qualcuno di noi è nato libero. Gli scheletri danzanti della Nuova Guinea ad esempio, gli aborigeni australiani, i cacciatori kazaki della Mongolia, alcune remote tribù della steppa, diverse etnie africane. Ma non mi riferisco a loro. Parlo delle creature che hanno agitato la coda e allungato il collo in una savana, che si sono addormentate nel cuore di fronde impenetrabili, che hanno partorito e poi nutrito i propri cuccioli osservando una sola legge. Quella della natura.

Poi è arrivato lo zoo e con lui la solitudine. Per toccarla con mano bastano le immagini scattate da Britta Jaschinski e Jo-Anne McArthur in diversi zoo del Vecchio Continente. Sono fra quelle che sono state esposte al Parlamento Europeo nell’ambito della campagna Born Free. Un’indagine che ha coinvolto circa venti Paesi. Una denuncia che non ha bisogno di parole per raccontare le condizioni in cui questi animali, spesso, sono costretti a vivere.

Uno schiaffo, iconografico, alla nostra, altrimenti impermeabile, indifferenza.

Tigri, leoni, elefanti, scimpanzé, giraffe, delfini, orsi. Anche in Italia li trattiamo al nostro peggio. Su 68 strutture riconosciute solo 5 sono risultate in regola con le direttive dell’Unione Europea. I giardini zoologici possono trasformarsi in veri e propri lager per ospiti permanenti increduli, attraversati da una malinconia che passa dritta attraverso i loro occhi.

Il mondo è ricco di spazi dedicati agli animali e al consumo turistico che gravita attorno ad essi: zoo safari, rettilari, delfinari, bioparchi, acquari, parchi marini. Ogni volta che ci andiamo a spasso facciamo questa considerazione: la solitudine non è solo umana. Fa male in modo universale.

La tigre che si aggrappa a un muretto per guardare oltre il muro di recinzione ci ricorda, dolorosamente, che qualcuno di noi è nato libero. Un privilegio che non è toccato nemmeno a parecchi dei nostri animali da compagnia, spesso tragicamente umanizzati, perfino nel look, qualche volta fatti oggetto di attenzioni maniacali che tolgono respiro alla loro natura.

Imporre a un cane, nel periodo natalizio, di indossare un maglioncino con il muso della renna Rudolph ricamato e un ponpon rosso luccicante non è solo crudele. È bestiale.

 

 

L’orso pittore

Dopo che nel regno della fantasia l’han fatta da padrone Yoghi e Bubu, il mitico Baloo, Little John di Robin Hood,  Winnie The Pooh di A.A. Milne, e in natura l’orso Grizzly, l’orso bruno e il nobile e bianco orso polare, nella vita reale, ora, ci fa compagnia l’orso pittore.

In questo strano mondo che spesso ci sorprende intrappolati in uno specchio anamorfico, qualche volta la realtà che vediamo non è deformata, ma di forma differente.

L’orso Juuso, ospite del Kuusamo Predator Centre, sta spopolando come artista in Finlandia, dacché si è scoperto che si diverte a dipingere strofinandosi prima sul colore e poi su tela. Le sue opere, da subito molto apprezzate, sono state acquistate anche per 300 euro ciascuna. Gli introiti che la vena artistica del gigantesco plantigrade ha assicurato al centro per animali finlandese sono stati fino ad ora reinvestiti nel mantenimento di altri orsi orfani ospiti della struttura.

Albert Einstein ha detto: “La creatività è l’intelligenza che si diverte” e bisogna vedere come Juuso si impegni a dargli ragione, mentre i suoi genitori adottivi, Sulo Karjalainen e Pasi Jäntti, lo guardano scegliere i colori e … lavorare.

Ecco. Ci fa davvero piacere aver incontrato un orso pittore. Nella sua semplicità animale ha molti pregi, in effetti. Non predica l’appartenenza o l’invenzione di alcuna corrente. Non fa capricci. In cambio del suo operato s’accontenta di qualche acino d’uva. Si strofina tutto imbrattato di colore come un animale felice e appagato. Le occhiate feroci le lascia agli artisti depressi.

È il protagonista, involontario, di un moderno e rinnovato bestiario culturale. Dopo gli animali parlanti, a lungo primi attori della scena letteraria da Fedro a Pennac, era ora che si aprissero le porte agli animali artisti, stanchi di essere solo rappresentati.

Juuso, in qualche modo, ha capito che l’arte è fatta per chi la elegge a propria amica del cuore (© Angela Vettese). Ecco, la vita qualche volta ci svela l’arte dell’impossibile, in modo bestiale.

 

 

Vita da pappagalli

Capitoli 1, 2 e 3

In Australia c’è un pappagallo che sa suonare la batteria. Gli scienziati dell’università del Queensland e i ricercatori della Deakin University non sanno se usa il doppio pedale o la doppia cassa come alcuni fra i migliori batteristi del mondo, se preferisce la spazzola o il rullante, il charleston o il tamburo. Quel che sanno è che per corteggiare la femmina si costruisce da solo una batteria e che è in grado di suonare un ritmo non casuale. Anzi originale. Ogni pennuto ha la sua canzone.

Al cacatua delle palme che vive nella penisola di Cape York, non deve essere sfuggito che un sound come si deve nel corteggiamento fa la differenza e che la base ritmica di qualunque brano non è un dato accessorio.

La bacchetta è un rametto secco lungo circa 20 centimetri, la cassa è la noce di una pianta che si trova lì d’attorno e che lui sistema all’uopo a colpi di becco.

Sono note altre (rare) specie animali capaci di costruire strumenti, che però, in genere, sono funzionali solo all’alimentazione.

Non di solo pane vive il pappagallo.

 

Einstein, uccello attrazione dello zoo texano di Knoxville, se gli va si esibisce cantando “Smoke on the water”. Non che ti sembri di risentire i Deep Purple, ma lo fa con un certo stile. Fumo sull’acqua e fuoco nel cielo e mi sa che è più contento così di quando imita cane, cavallo o altri suoni umani.

Quattro note in salsa blues per uno dei motivi più famosi della storia del rock. Vuoi mettere?

 

Un cartello appeso all’ingresso di un supermercato richiama in modo esotico l’attenzione dell’utenza: “Pappagallo smarrito”. Manca dal giorno tale alle ore tali. (Segue cellulare)”. Un becco arancione su un mantello di penne bianche spicca sullo sfondo di una fotografia che ritrae l’animale sull’erba di un prato. Nel magico mondo (digitale) in cui viviamo siamo circondati da app funzionali a qualunque esigenza, operative 24 ore su 24 ed efficienti ovunque nel mondo. Strumenti di nuova generazione in grado di risolvere una quantità impressionante di bisogni, ma non è proprio “tutto” quello che sono in grado di fare. Se hai perso un pappagallo, ad esempio, non c’è l’app che lo riporta a casa. Puoi cliccare e ordinare subitamente sushi, pizza, hamburger, patatine, una grigliata “masala”, pollo, yogurt, telefonini, fiori, spesa a domicilio. Ma il nuovo fenomeno sociale delle consegne smart non può risolvere un problema domestico come lo smarrimento di un amato pennuto.

Un cartello appeso all’ingresso del supermercato è uno strumento di comunicazione d’altri tempi che in realtà può ancora dare qualche risultato. Infatti l’animale è stato ritrovato.

Un altro annuncio, collocato a fianco, comunica il ritrovamento di una bicicletta. Chi l’avesse smarrita può rivolgersi all’interno del negozio.

Questa bacheca delle cose perdute di quartiere, quasi un tacchi, dadi e datteri di antica memoria, è come una ventata di umanità che mette di buonumore. Anche quel verbo individuato dall’estensore dell’avviso, quel “manca” accanto a giorno e ora della scomparsa, non l’avremmo forse utilizzato in riferimento a una persona piuttosto che a un animale?

Questo pappagallo, così umanizzato, paradossalmente manca del nome, che invece avrà senz’altro.

Alla fine dell’avventura, mi resta la curiosità. Si chiamerà mica Ulisse?

 

 

Ma dove vai se l’uccello non ce l’hai?

L’apericena non basta più. Insalate, vegetali o di pasta, vol au vent, stuzzichini dolci e salati, quiches e tutta la schiera, ben nutrita, di fantasiosi divertissement alimentari tipici del rito laico dell’aperitivo, all’improvviso non sono più up to date. Ammiccano ancora dai tavolini del locale di tendenza, apparecchiano come un raffinato ricamo tavole imbandite in giardini accoglienti, si arrendono al piano bar, al jazz, ai dj-set, ai reading letterari. Ma non sono più trendy.

Lo so, è un colpo per tutti i creatori di eventi, una mazzata per influencer, youtuber, socialite e blogger d’assalto, ma anche se ti spari uno spritz con tempura di verdure appena scodellata dal cuoco giapponese di una rockstar inguainata in una tuta di latex, al giorno d’oggi, senza uccello, non sei nessuno.

Perché Milano, che con buona evidenza è ancora da bere, ha inventato l’aperitivo con birdwatching, che si può consumare con amici o in tête-à-tête, dal tetto di un albergo, da una terrazza, comunque sia da una vetta urbana, per aggiungere volatili e skyline all’almanacco delle opportunità, alcoliche o analcoliche, crepuscolari.

Vuoi mettere un mojito, come dire, a volo d’uccello? Gustando con ghiaccio e menta Prealpi e scorci unici del centro storico mentre stormi di cinciallegre o allegre brigate di germani reali fanno capolino? Fatti un Bloody Mary con un colombaccio, una vodka and soda con un falco pellegrino, una Coca e rum con un parrocchetto dal collare. Che la guida alla postazione migliore l’ha scritta un naturalista e la scienza conferma che gli uccelli sono molto attivi proprio all’ora dell’aperitivo. Nidificano, migrano, si riproducono. Insomma si mostrano volentieri a guardoni green armati di patatine, aperol e binocolo.

L’idea, bisogna dirlo, non è male. Anche perché qualche volta è preferibile inseguire con lo sguardo il volo in picchiata di animali liberi e selvaggi piuttosto che stare a sentire chi ci sta di fronte, col bicchiere in mano. Meglio dare uno sguardo a boschi e castelli, quartieri e caseggiati altrimenti nascosti alla vista, scoprire che proprio a due passi da noi si librano in cielo pappagalli amazzone fronteblu e fieri sparvieri, perché altrimenti, anche senza binocolo, spesso si vedrebbe bene il buio oltre la siepe dello sguardo dell’interlocutore.

I codirosso spazzacamino, lassù sul grattacielo, facciano una allegra comparsata e insieme piazza pulita di temibili esemplari di imbecilli. Sono una specie, non rara, che si muove su due gambe, ha il pollice opponibile (per reggere il bicchiere) e che, purtroppo, ha il dono della parola. Mica sempre è una buona notizia.

Caro gheppio, vien da dire, prosit!

 

 

Giungla metropolitana

Due passi in città e sembra di stare allo zoo. La proliferazione di umani conciati da zebre, lupi e capre impazzite – nuovi avatar di una specie che qualche volta pare aver perso il controllo di sé – si deve in parte alla moda, che non smette di suggerire accessori animalier, in parte alla sua libera interpretazione. La legge della giungla (metropolitana) impone ai consumatori del terzo millennio elefanti, panda e procioni da mettere al polso mentre libellule, cavalli e camaleonti zampettano su borse, pochette, valigie e gioielli. Dal boa di struzzo alle borse di coccodrillo non ci facciamo mancare niente: siamo zebrati dentro, maculati fuori e portiamo con orgoglio la nostra seconda pelle, sicuri che tanto, alla prossima stagione, potremo cambiarla di nuovo, come i serpenti.

Tranne quando l’intervento è permanente: il tattoo di un’otaria gigante che guizza sul polpaccio con la scritta forever young nuoterà felice sotto lo stesso cielo anche l’anno prossimo.

Spesso vestiamo da cani, mentre schiere di inconsapevoli bestiole somigliano in modo sempre più inquietante a tristi Paris Hilton a quattro zampe.

Il confine con il mondo animale non è così netto. Grafici e giornalisti operano in gabbia, le donne – soprattutto se sono a un tempo mogli, madri e lavoratrici – spesso si sentono in gabbia, anche se non hanno il tempo di accorgersene. Chi disprezza gli scarafaggi ha amato i Fab Four più di ogni altra cosa trasformando i Beatles nei migliori insetti antropomorfi che si siano mai visti.

Ecco, si inserisce in questo contesto, a modo suo bestiale, la storia del fotografo indiano Sujatro Ghosh che per protestare contro le condizioni in cui sono costrette a vivere le donne del suo Paese le ha ritratte con una maschera da mucca sul viso, postando le fotografie su Instagram e invitando le donne che volevano partecipare al progetto a contattarlo tramite il medesimo social. L’ha fatto per rappresentare “l’assurdità di un Paese dove occorre più tempo a rendere giustizia a una donna che a una vacca”.

In India, come è noto, la mucca è un animale considerato sacro, intoccabile, difeso alla maniera dell’uomo di Neanderthal da uomini armati di spranghe e bastoni.

In India, come è altrettanto noto, le donne vengono stuprate senza pietà. Secondo le statistiche una ogni 15 minuti. Fra gli innumerevoli massacri registrati dalla cronaca basti la citazione del caso che segue. Due sorelle, dopo esser state brutalizzate, sono state uccise e impiccate a un albero di mango. Avevano 14 e 15 anni. Nel gruppo degli aguzzini anche un ufficiale di polizia. L’inchiesta dei federali indiani ha poi stabilito che si è trattato di un doppio suicidio.

 

Le modelle di Ghosh, travestite da mucche dal collo in su, mentre si proteggono celando la propria identità denunciano il divario fra diritti e rispetto assicurati a un animale, (per quanto sacro possa essere considerato), e i diritti brutalmente negati agli esseri umani.

Raccontano una storia per immagini che non ha bisogno di parole per essere ascoltata.

Guardatela, è un imperativo presente.

 

 

Bugiardi a caccia di Pokémon, vestiti da conigli mannari

Per andare a spasso nella giungla moderna non abbiamo più bisogno di appenderci a una liana, ma un machete forse farebbe ancora comodo. Non per abbattere varchi nella foresta intricata e invalicabile ma per riportare tutti quanti a una dimensione chiara e accettabile della realtà. Che ha cominciato a mutare qualche anno fa quando al sostantivo “realtà” abbiamo aggiunto l’aggettivo “virtuale”.

Come per magia, improvvisamente, si poteva accedere ad un mondo che era più di un alias del nostro mondo, era un alias della nostra vita, della nostra stessa identità. Si poteva andare alla guerra, diventare agenti segreti, fidanzarsi e conquistare galassie lontane. Tutto questo dopo aver tirato giù la serranda di un lavoro d’ufficio dalle 9 alle 5, di un bar dove si servono caffè e spremute, di un negozio dove si vendono abbigliamento e accessori. Da Lara Vattelapesca a Lara Croft in un clic. Ed è sembrato un bel gioco per un po’, anche se per qualcuno è diventato una galera, perché dalle galassie lontane non è più tornato indietro. Poi è arrivata la realtà “aumentata”. Grazie alle nuove tecnologie possiamo guardare ciò che ci circonda e vederlo non come si presenta realmente ma “aumentato” di presenze o informazioni. Fantasmi contemporanei che temo non ci faranno onore con i posteri, dato che per inseguire i Pokémon più di un giocatore ci ha rimesso automobile e patente e che forse avremmo potuto evitare di vestirci da coniglio mannaro su Snapchat.

Poi è venuto l’anno della post-verità, il gorgo delle informazioni non vere però capaci di influenzare grandi eventi di rilevanza politico-sociale. Una volta le chiamavamo bugie. Oggi sono in tanti quelli col naso lungo che spacciano post-verità come se piovesse e insieme al resto delle varianti della realtà contribuiscono a gettarci nella più grande e confusa dimensione di sempre.

Ecco, forse è arrivato il momento di fare un passo indietro. Di guardare la persona con la quale stiamo parlando negli occhi. Di scoprire, fatta salva la fantasia, ciò che abbiamo davanti.

Come diceva Antonio Delfini “La luna è come la libertà: sta in cielo e in fondo al pozzo“.

 

 

Freaks si diventa

Siamo figli di una generazione di fenomeni, come preconizzavano gli Stadio, o di sconvolti come cantava Vasco Rossi. In ogni caso desideriamo soprattutto essere perfetti. Vincenti già dal look, avanziamo su protesi dell’autostima con molti zeri e ci preoccupiamo di due cose in particolare: esserci e piacere. Di recente sono stata invitata a un beauty party, vengo continuamente omaggiata di sconti non richiesti su trattamenti estetici, se entro in profumeria prima tutto mi propongono campioni di prodotti miracolosi per il viso o per il corpo. Cerco di non scoraggiare la mia autostima, anche se tutte queste offerte di aiuto mi fanno sentire come un mazzo di fiori della settimana scorsa. Un po’ appassita.

In questo mondo c’è spazio solo per il fenomeno. Quello vero, non quello da baraccone. I freaks, individui con caratteristiche fuori dall’ordinario che nell’Ottocento diventavano attrazioni per i circhi, oggi sono solo degli emarginati. Come tutti i diversi. Che non ci piacciono ma che dovremmo imparare a guardare con occhi nuovi.

Frank Lentini, siciliano, classe 1889, con tre gambe, due apparati genitali e quattro piedi, divenne una star del freak show negli Usa e con lui un albino, una donna cannone, un incantatore di serpenti e una donna tatuata. Sull’onda di un successo (al tempo) planetario andò in tournée con Elephant Man, uomini scimmia, donne barbute e un gigante alto quasi tre metri. Ciononostante sposò una donna bellissima che faceva l’attrice e a cinquant’anni della morte, la città d’origine che l’aveva cacciato lo ha celebrato.

Nel diciannovesimo secolo anche Toro seduto, grande capo guerriero, guaritore, membro della società della danza, della pioggia e di quella degli spiriti, padre di Piede di Corvo, marito di Capelli Lucenti, è stato per un periodo attrazione del circo Barnum. Era un freak dalla pelle rossa senza più una tenda dove poter andare. “Se il grande spirito mi avesse voluto bianco – diceva – mi avrebbe creato così. Ha messo nei vostri cuori alcuni desideri ed altri nel mio, e sono ben diversi. Non è necessario per un’aquila essere un corvo”.

Un trattato di biodiversità che potrebbe darci ancora molte lezioni.

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