Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola. Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.
Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.
A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?
Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale… Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846. Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.
A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.
E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.
Per mantenere le stimmate del mondo terreno – e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 – Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».