La forza del cestino

Mario Pannunzio, il mitico direttore del «Mondo», raccomandava, esigeva, che si ricorresse il meno possibile alla maiuscola. Perché l’enfasi, la coda del pavone, i girotondi intorno all’ombelico, lo slogan (la parola ridotta a slogan, moraviano bersaglio) confondono e nascondono questo e quel cuore di tenebra.

Giovanni Arpino
Giovanni Arpino

Si lamenta – una geremiade ospitata su «La Stampa» –  che la letteratura italiana «non scriva più le maiuscole», a differenza delle consorelle straniere. Ma gli scrittori nostrani, le migliori energie, hanno preferibilmente evitato gli incensi. Come tradurrebbe Sciascia: «le evasioni e gli arabeschi», Sciascia non a caso. Lo stendhaliano Sciascia, consapevole che la letteratura discende per li rami della cronaca (il sottotitolo di Il rosso e il nero è «cronaca del 1830»). La cronaca a cui rimanda naturalmente il giornalismo, soprattutto il giornalismo inteso come «écriture», mai arreso alla routine. Ecco Mario Pannunzio, ecco, attraverso Pannunzio, la raccomandazione mai arrugginita di Emilio Cecchi: «Il giornalista in sé e per sé è men che nulla se non consente ad essere qualcosa come uno scrittore e un controversista, uno storico e un polemista», se non «si rassegna a dipendere da Swift e da Machiavelli, da Pascal, da Demostene e da Sant’Agostino».

Certo, se si invita a riscoprire la maiuscola per indicare l’urgenza di raccontare la necessità come non concordare? Ma – si perdoni il gioco di parole – non è necessario amplificare la necessità accantonando la minuscola. Purezza, la «Purity» di Jonathan Franzen, il romanzone da cui muove la doléance sul quotidiano torinese, non ha forse il pregio di indurre a riaprire L’ussaro sul tetto di Giono, un provenzale inno alla purezza che non sopporta squilli di tomba?

Nel nostro pantheon letterario, ai vertici, c’è sicuramente Guido Piovene. Già negli anni Settanta (sarebbe scomparso nel 1974) avvertiva che «la crisi del romanzo è vera perché comincia dalla vita», vita, non Vita, la céliniana ricerca della perla nel fango, non l’immaginifico roteare intorno alle apparenze.

Dov’è la vita nelle pagine degli scrittori o sedicenti scrittori italiani (e non solo) del nostro tempo? Si evocano i Calvino e gli Eco. Sarebbe il caso, qualche volta almeno, di ritornare a uno scrittore che Piovene prediligeva, in lui riconoscendo «un impavido indagatore del presente», Giovanni Arpino.

Arpino che non evitava «l’inferno umano» («L’unico vero inferno è il presente, miserabile e però insostituibile»). Arpino che non esitava a togliere il saluto a coloro che «fuggono nei secoli andati o si precipitano in quelli futuri o insistono coi loro mesti rintocchi da pieve antica». Arpino che aveva in serbo una somma lezione per chi – italiano o non – vuole avventurarsi nel teatro della letteratura, non ristagnando nelle anticamere, non baloccandosi con alfabeti puerili, dissennati, rozzi, veri monumenti all’allibire, riflessi del nulla (per carità, con la minuscola). Quale lezione? La forza del cestino (il cestino così necessario per approdare – ma sì, si ricorra alla maiuscola – alla Necessità).

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