Donna Rosa era una vera siciliana, figlia di siciliani da generazioni.
Aveva il vento del sud nelle ossa, l’odore delle arance sulla pelle e il sapore della femmina sulle labbra.
Quando era arrivata per la prima volta al quartiere Buenos Aires la gente del luogo era semplicemente rimasta incollata alle sue gambe.
Perfetta, sicura. Due cosce abbronzate e piene, avvolte da uno stretto tailleur.
Un culo ondeggiante, scolpito, morbido e soave.
La camicetta bianca attaccata al corpo dal sudore. Intimo nero di pizzo. Un seno incredibile.
Aveva attraversato la piazza principale con disinvoltura, camminando fiera con lo sguardo alto. Gli occhi neri e le labbra carnose.
I lungi capelli mossi. Bella e siciliana.
Aveva stretto la valigia e non si era fermata di fronte a nessuno.
Il tram chiuso alle sue spalle si portava via il viaggio di ritorno.
Nessun ritorno per Donna Rosa: solo il quartiere Buenos Aires.
Aveva trovato alloggio alla pensione “La pergola”. Sudicia, piccola, dieci camere. Proprio di fronte alla Milonguita. Casa.
Aveva preso i soldi dal reggiseno e li aveva dati alla padrona di casa, poi era salita al piano di sopra, il suono dei tacchi ad ogni scalino.
Gino, il ragazzo delle pulizie, si era bloccato di colpo a guardarla, gli occhi spalancati.
-Che ti sei incantato?- aveva sorriso lei con espressione ironica, poi era entrata in camera.
Il ventilatore girava senza posa, cigolante, annoiato.
Un bottone dopo l’altro, via la camicia. Una zip per la gonna. Nuda, sdraiata sul letto, le mani lungo il corpo, il fresco sulla pelle.
Quella sera stessa la città era sconvolta dall’arrivo di Donna Rosa. Si cercavano soluzioni al problema.
Chi era? Da dove veniva? Cosa voleva? Ma le domande più pericolose riguardavano i mariti.
Quanti ne avrebbe presi?
Gli uomini la amavano e le donne la odiavano.
Donna Rosa era il peccato della lussuria, giunto per portare all’inferno quella città. E ci sarebbe riuscita.
Si ingegnavano storie sul suo conto: una moglie in fuga dal marito, una donna di mali costumi, un’assassina.
Nessuno sapeva nulla, se non che era bella. Maledettamente bella.
La incontrarono poco nei giorni successivi. Una passeggiata dal tabaccaio per un pacchetto di sigarette, un giro tra le vecchie case; seduta al bordo di una fontana, una mano nell’acqua, lo sguardo perso, forse nei ricordi del lontano Mediterraneo.
Sempre uguale, un vestito leggermente scostato, le cosce calde accavallate, il seno in fuga.
Per i più maligni soffriva il ricordo del suo atroce peccato. Forse aveva ucciso l’uomo che amava.
Donna Rosa affascinava. Affascinava quando stava ferma a guardare il sole, o quando si chinava a raccogliere un oggetto.
A donna Rosa cade sempre qualcosa, aveva detto con malizia l’ostessa una mattina.
Non si sapeva nemmeno come si sapesse il suo nome. Lo si conosceva e basta.
Don Michele, il mafioso, fu il primo ad avvicinarsi a lei. E’ una compaesana, aveva detto, ci capiremo.
E si erano capiti. Si era tolto il cappello bianco in un piccolo inchino, i baffi ben lisciati, un fazzoletto nel taschino.
E lei gli aveva offerto la mano e avevano passeggiato, mangiato un’ arancia e parlato del vento del sud.
Le donne dai balconi li avevano guardati e avevano scosso la testa. Ma nessuno osò dire qualcosa, non a Don Michele. Nessuno poteva.
Padre Giovanni ricevette molte confessioni quella settimana. In troppi l’avevano amata nei loro sogni, in troppi la desideravano.
Molti occhi erano fuggiti senza tornare. In parrocchia si cercava una soluzione, dietro agli occhi fuggivano i mariti.
Alle donne non andava a genio, erano di loro proprietà
Il commissario scosse il capo. Non c’è reato ad essere belle.
C’è nel prendere gli uomini.
Non per la polizia.
Ma per Dio sì.
Poi donna Rosa aveva iniziato a colpire.
Il primo era stato Fabrizio.
Figlio del fattore, maniscalco, l’unico in città che sapesse montare un animale. Un vero mascalzone.
L’aveva raggiunta a cavallo, tutti i giorni lungo la via per il mercato. Aveva fischiato e portato dei regali.
Hey bella. Un mazzo di fiori, un sorriso e un pacchetto di sigarette.
E donna Rosa l’aveva preso.
In un fienile, con l’odore di stalla e il prurito dell’erba secca sulla schiena.
Le schegge tra le dita, il viso poggiato al legno.
Io indosso solo biancheria nera, aveva detto lei, portandosi la mano dell’uomo sulla coscia.
E lui l’aveva amata, in tutti i modi, nel caldo del pomeriggio di agosto, con le mani nodose che stringevano il petto molle.
Le gocce di sudore sulla fronte, lungo la schiena, nell’incavatura tra ginocchio e polpaccio.
E aveva baciato ognuna di quelle gocce, ogni traccia di lei, con ardore e desiderio irrefrenabile.
E lei si era lasciata dominare senza tregua, con la passione e la forza di una vera amante.
Donna Rosa era focosa. Esplosiva.
Erano caduti distesi uno sopra l’altro. Sazi d’amore e di calore, sazi di piacere.
Carne, fiamma e bramosia.
Lei aveva acceso una sigaretta. Splendida avvolta nel fumo.
Ah Fabri…mi fai morire
Il respiro affannoso e gli occhi stanchi.
E lui l’aveva guardata e gli aveva detto che era bella, bella e bella.
Poi Donna Rosa era tornata tra le vie della città, con le spighe tra i capelli e lo sguardo ardente, e i giorni erano ripresi.
Una notte Fabrizio era stato costretto a fuggire, nel buio, sopra un treno senza addii.
Un coltello nell’oscurità, luminoso e veloce, per chi aveva guardato Donna Rosa. Un colpo nel buio per chi aveva desiderato un corpo che era suo.
E Fabrizio se ne era andato, silenzioso e triste, dopo aver appeso al collo la catenina di lei. Dopo l’amore fatto da cani, in un letto disfatto.
E aveva scritto qualche lettera da quella terra lontana da cui non sarebbe più tornato.
Ma Donna Rosa aveva un cuore ribelle, indomabile.
Il suo fuoco ardeva troppo caldo per essere imprigionato da un solo uomo.
Lei era una lupa, una pantera, una temibile fiera dagli occhi rossi e il corpo sinuoso.
Scese in piazza una mattina e il suo sorriso riprese ad incantare tutti.
Il commissario si recò a trovarla, intimorito e stanco di quel paese di arsura, perché con Donna Rosa era arrivato anche il caldo.
Bussò alla porta con colpo severo, lui era la polizia in fondo.
Lei indossava una vestaglia bianca. Duro lavoro il poliziotto, troppe domande. Che fine ha fatto Fabrizio? Perché è scappato? Lo sai che ha ucciso un uomo?
Ma Donna Rosa piazzava lì quello sguardo innocente e alzava le spalle dispiaciuta
-A me mi piaceva commissà, al mio fianco lo volevo, le pare che se sapessi dove sta non glielo direi?-
Femmina furba.
Femmina furba e sola, incastrò anche il commissario. L’amore sul pavimento come due brutti amanti, con ancora la camicia e il distintivo addosso.
Anche la legge cedeva a Donna Rosa.
Un giorno tutte le donne del paese si misero d’accordo per scendere in piazza a discutere.
Se Padre Gianni non voleva far niente e la polizia era corrotta ci avrebbero pensato loro a sistemare quella lì.
Ma proprio quel pomeriggio Donna Rosa passeggiava vicino a Nonno Anselmo, il più vecchio della città, aiutandolo a portare la spesa.
Lui le parlava come ad una figlia raccontandole della donna che aveva amato tanti anni prima, gli occhi pieni di tristezza.
E allora nessuno osò avvicinarsi, non si disturba Nonno Anselmo.
Le cose proseguirono in quel modo per molti giorni, ogni volta che si perdeva di vista un marito si gridava al furto d’amore.
I bar alla sera erano vuoti, gli uomini erano a casa, guardati a vista.
Solo il sabato sera potevano uscire. Si accompagnano le moglie a ballare.
E una notte anche Donna Rosa decise di seguire il suono di quella musica.
Un abito nero come la morte, il seno gonfio e le labbra più rosse che mai.
Mosse i tacchi sul selciato fino all’entrata della Milonga.
Ci fu quasi silenzio quando entrò.
Le donne la fissarono sbalordite, non poteva andare anche lì.
Gli uomini scricchiolarono sulla sedia. Pronti ad invitarla.
Chi avrebbe osato stringerla fra le braccia? Uno di loro l’avrebbe condotta con sé quella notte.
Lei guardò dritto davanti a sé e si sedette su uno sgabello al bancone.
Rum. Un bicchiere con ghiaccio, freddo gocciolante.
Le luci della milonga sulla pelle leggermente sudata.
Il fuoco di Donna Rosa ardeva.
Poi Paulo le fece un cenno dal piano. L’aveva vista dall’entrata e l’aveva capita subito.
Tolse le dita dai tasti e nel silenzio le porse la mano per invitarla a seguirlo.
La fece poggiare sulla coda scura dello strumento, buio come il suo vestito, poi tornò al suo posto.
-Canta per me-
Si sistemò i capelli bianchi e il solito smoking scuro.
Bevve un bicchiere di vino, ne aveva bisogno, poi poggiò le dita e riprese a suonare.
Gli occhi di tutta la sala sul volto di Rosa.
Ed iniziò a cantare.
Un brano che portava l’odore del mare e del vento, della sabbia e del sole.
Un canto di coltelli, di cocktail e malinconia.
La voce profonda e bella, commuovente.
Nel cuore di tutti svanì la rabbia e la gelosia: c’era posto solo per la tristezza. La perdita del paese che si è amato, delle persone care, il bisogno supremo di ogni persona: amare ed essere amati.
Perché era questo che faceva Donna Rosa, lei non rubava i mariti, lei amava ed era amata, per una sola ora.
E ogni donna cercò di imparare da quel canto di terre lontane, terre Argentine e terre Siciliane, terre di tango.
Le lacrime scesero dagli occhi di Paulo, mai aveva trovato qualcuno che desse una tale voce ai suoi suoni.
Ricordò la sua giovinezza, il suo amore per la musica, ricordò il suo primo pianoforte.
Quando la canzone svanì nessuno osò aprir bocca, rimasero tutti immobili, come incantati, in attesa di svegliarsi da quella strana magia.
Donna Rosa passò fra tutti, lentamente, e si allontanò nei vicoli scuri della città. Nessuno seppe mai dove fosse andata, forse a sdraiarsi nei raggi della luna alla ricerca della stessa stella che guardava dal patio di casa.
Ma quella notte dormì sola.
Nei giorni seguenti le cose cambiarono. Tutto iniziò con un piccolo gesto, un cesto con della frutta sotto la finestra di Donna Rosa.
Sa, sono passata al mercato e ho pensato di comprargliele.
Un aiuto per pagare l’affitto.
Fra donne bisogna aiutarsi.
E la vita riprese a scorrere inesorabile. E se ogni tanto spariva qualche marito nessuno ci faceva più tanto caso. Donna Rosa in fondo era una brava persona e poi gli uomini tornavano sempre più innamorati di prima.
Quando qualche giovane si allontanava le madri si guardavano complici.
Come biasimarlo, dicevano, in fondo si sa, non si può resistere:
Donna Rosa è una vera Siciliana.
Milano come Buenos Aires
Anche Milano nasconde la sua Buenos Aires. Come uno specchio, nei vicoli più stretti, dove i palazzi si protendono sul selciato con le loro mura vecchie al gusto di mattoni, sporchi di una fuliggine del secolo precedente, con antri oscuri di mistero e donne affacciate sull’uscio delle case.
Case nascoste, usci a pagamento.
Il latrato di un cane che abbaia in lontananza e il profumo di cibo speziato dalle finestre, musica ambulante per qualche spicciolo e una voglia matta di mettersi a ballare.
La Buenos Aires di Milano è più timida e forse più cattiva. I coltelli si vedono solo all’ultimo minuto, quando urlare e mordere bestemmie è diventato ormai inutile, quando gli speroni di stivali da cowboy hanno smesso di tintinnare lungo le salite che portano ai selciati delle chiese e gli uomini si incontrano e brutto grugno sotto lo sguardo di un vecchio crocifisso.
Parole di sfida al cancello di un parco, puttane nel buio.
Uomini dallo sguardo duro sui gradini, sul bordo di una fontana, le dita in bocca per fischiare alle ragazze “Hey signorina”.
Baci strappati al sapore di tabacco, mani maledette nell’ombra.
Da lontano il suono stridulo di un bimbo che piange, coperto dal passaggio di un pullman, dal gorgoglio di una fontanella sempre aperta sul pavimento. La guerra dei briganti, uno scoppio di pistola nel buio, rivoltella nel cassonetto.
Milano di giorno, Milano di notte: Argentina in scala.
Al Vecchio Mulino l’oste è sulla porta, degustazione di vini per quel mezzogiorno, sole caldo tra l’edera rampicante, brocche d’acqua sulle vecchie tovaglie a quadri, una chitarra e un dondolo, per il sonno dei più anziani, per il riposo della pancia piena.
Palloni contro la parete, urla di ragazzini, la signora Giovanna urla dalla finestra: che la smettano o il marito verrà giù a suonargliene col bastone.
Corse in bicicletta, sempre in fuga? Da cosa? Dalla scuola, da sé stessi, dal maledetto lavoro.
Odore di tram e smog, di carne e di jazz.
La notte sorprende con la sua ironia.
Basta traffico, nessun grido di bambino, niente arsura al sudore. Rimangono l’odore del tabacco, il sapore del vino, le campane della sera.
Si sente ancora qualche colpo in lontananza, ma non si è certi che sia una pistola, forse è una gomma esplosa, forse chissà…
Un nuovo profumo riempie la città, acqua di colonia, per gli uomini che vanno a ballare con le camicie non stirate e le bretelle per i pantaloni larghi, delle ragazze nei vestitini al primo appuntamento, di nascosto dai padri, delle signore che si vendono, tutte gambe tette e sorrisi, lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. Una rosa in testa.
E la Milonguita. L’insegna che si accende con un ronzio, le porte che cigolano alla spinta.
All’interno il silenzio, riposo prima della notte.
Pista da ballo consumata, seggiolini senza schienali. Candele e fiori per le coppie di sposi, luci spente per gli amanti.
La gente entra e si siede, chiacchiera e sorride. Occhi che scrutano, cercano, assaporano.
Gambe scoperte che chiamano, giocano, danzano.
Le dita di Paulo sul pianoforte, vecchi tasti neri e bianchi. Uno è rotto. Pazienza, si salterà quella nota.
Un fiammifero acceso vicino al bancone, zac, strofinato sulla custodia, una fiammella per la candela.
E cala la notte. Inizia il tango.
Brano lento, sofferente, consunto. Suonato mille e mille volte, per gli innamorati, per gli assassini, per le belle donne.
Le prime coppie sulla pista. Posso invitarla? Mani tese, sguardi ardenti.
Donne composte a bordo pista, le mani in grembo e la testa alta. Attendono i cavalieri.
E poi la stretta, corpo contro corpo.
Le camicie a dividere la carne.
Birra nei boccali, vino sul bancone. Uomini solitari senza futuro, con le lacrime bloccate dietro gli occhi. Non escono, non per loro.
Una ragazza se ne va presto. È stufa per questa sera.
Due sconosciuti si baciano. Avranno modo di conoscersi quella notte.
Enzo ed Eva Ramirez sono all’ingresso, salutano i ballerini.
Ogni tanto fanno un tango. Unici, incredibili, la folla si ferma.
Conoscono il segreto del tango, quello che si tramanda da generazioni nella loro famiglia.
Lo ha portato Juan Ramirez quando ha aperto quel posto. Un regalo per sua figlia.
Si stringono e danzano, sottili e levigati, forti e inscindibili. Evita, occhi chiusi, bella e di fuoco.
L’abito scuro, le gambe tese.
Lo sguardo serio di Enzo, i passi distesi, l’eleganza.
E il silenzio cala intorno, perché il segreto del tango si muove in quella pista. Inaccessibile a chiunque, ma visibile a tutti.
È un’armonia che si può palpare con le dita, che si può annusare nell’aria.
E tutti riprendono a ballare, e si amano, e si odiano e sudano.
Cravatte, scollature, gonne, bretelle, cosce.
La pelle scura, le mani unite.
Uomini e donne che ballano. In mezzo a tutti loro, quella notte: il tango.
È sensibile, gentile, indossa un cappello. E sorride.
Si farà mattina.
Poi le porte chiuderanno e l’insegna smetterà di ronzare.
È presto. La notte è ancora molto lunga.
Notte di pelle e mani.
Notte di Milonguita.
La poesia. Segni e parole per la verità
Su Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazione in Italia, a cura di Daniela Marcheschi, Mursia, Milano 2016
Ho sempre pensato che l’arte, in ogni sua espressione, tragga il massimo della sua possibile oggettivazione e transitività dalla capacità dell’artista di esprimere al più alto grado la sua soggettività. Una tale visione del fatto artistico potrebbe far apparire particolarmente problematica una lettura critica dell’opera: cercare di enucleare i valori e i disvalori che la tramano e la caratterizzano, i suoi punti di forza e di debolezza, non solo sul piano di un’estetica oggi particolarmente “fluida” e inclusiva, se confrontata con le categorie più o meno canoniche ancora in vigore nel secolo scorso, ma anche in merito alla sua capacità di attivare nuovi stimoli conoscitivi e formali, di mostrare cioè quei caratteri metamorfico-evolutivi che evidenziano una tensione creativa viva e vigile, aliena da quegli esercizi di reiterazione del dejà vu così diffusamente praticati; un dejà vu che magari in origine ha mostrato connotazioni innovative, fruttando all’artista un momento di attenzione e di fortuna critica, ma che non ha tardato a farsi maniera, cifra di una riconoscibilità funzionale alle classificazioni dei regesti letterari, più inclini a cogliere le peculiarità proteiformi ed esornative piuttosto che i segni peculiari di una visione “desueta”, i frutti di ricerche artistiche non gravitanti nell’orbita di una mediaticità telematica, televisiva o giornalistica, peraltro solo marginalmente interessata ai fatti letterari e in special modo a quelli poetici.

Se queste considerazioni hanno una loro ragion d’essere, se colgono alcune caratteristiche e alcune tendenze attive fra chi si occupa di letteratura, allora si deve accogliere con un plauso riconoscente l’iniziativa editoriale della Mursia, che nella sua collana Argani ha recentemente pubblicato Antologia di poeti contemporanei. Tradizioni e innovazione in Italia, curata con peculiare acribia da Daniela Marcheschi, la quale dopo aver escusso minuziosamente, nell’arco di diversi anni, i testi di un numero rilevante di poeti italiani, ne ha selezionati 21 che ha incluso nell’antologia, riservando a ciascuno di essi una nota introduttiva, alcuni riferimenti bibliografici e un mannello di testi cui ha affidato il compito di esemplificare non soltanto le peculiarità della poesia di ogni autore, ma anche il suo work in progress, visto che fra gli aspetti che la curatrice ha tenuti presenti nella sua scelta è chiaramente evidenziata la capacità di innovarsi e di mantenere una vivezza poetica nell’arco della propria attività creativa, e il cui lavoro lascia presagire un proficuo sviluppo.
La selezione degli autori (14) e delle autrici (7) inclusi nell’Antologia curata dalla Marcheschi è grandemente apprezzabile per lo scrupolo con il quale è stata condotta la ricerca, che risulta affrancata da quegli omologanti preconcetti e striscianti conformismi che, in passato, hanno prodotto antologie con un numero più o meno ampio di poeti, ma facenti sempre perno su un nucleo di autori appartenenti a “scuderie” ben riconoscibili e riconosciute, sostenuti da un’editoria alla quale per un bravo poeta è difficilissimo accedere se non ha personali “connessioni” con chi effettua le scelte editoriali. In proposito, già negli anni ‘90 comparve sulla rivista «Poesia» un eloquente articolo di Alessandro Carrera, che mostrava appunto la sostanziale impossibilità da parte di un autore privo delle sopracitate “connessioni” di accedere alle poche collane di poesia delle grandi editrici italiane, le uniche che hanno la forza di far arrivare nelle librerie italiane i libri di poesia che, come sappiamo, sono letti da una sparuta élite.
La Marcheschi non si è allineata al costume prevalente: ha letto i testi pubblicati dalle grandi ma anche dalle piccole case editrici, degli autori del Nord e di quelli del Sud Italia, quelli di coloro che flirtano con le sirene dei media ogni volta che ne hanno la possibilità, e di coloro che «lavorano zitti», come esortava a fare l’indimenticato Giovanni Boine. E se fra coloro che hanno recensito l’Antologia della Mursia c’è chi ha lamentato l’esclusione di alcuni dei soliti noti, ciò dimostra quanto sia insidiosa l’assuefazione al già sentito, al già letto, e quanto sia stato distratto il recensore nel leggere l’introduzione della stessa Marcheschi, che chiarisce in maniera inequivoca le ragioni delle esclusioni e quelle dell’inclusione dei suoi 21: Pier Luigi Bacchini, Giampiero Neri, Franco Loi, Fernando Bandini, Elio Pecora, Jolanda Insana, Nanni Cagnone, Anna Cascella Luciani, Giorgio Manacorda, Cristina Annino, Maurizio Cucchi, Lino Angiuli, Assunta Finiguerra, Biancamaria Frabotta, Guido Oldani, Roberto Piumini, Maura Del Serra, Amedeo Anelli, Margherita Rimi, Antonio Riccardi, Paolo Febbraro. C’è poi da considerare che, attardandosi con capziosa pervicacia nella disputa inclusioni/esclusioni, ognuno avrebbe i suoi motivi per sostenere l’inclusione del tale autore e l’esclusione del talaltro; così, volendosi prestare all’annoso giochetto, per quanto mi riguarda, per dar conto efficace dei valori che si esprimono in Italia in ambito poetico, non proporrei ulteriori inclusioni, e magari espungerei un paio di autori di area lombarda con la certezza di non recare pregiudizio ai valori dell’Antologia.
Essendo abituato a osservare i fatti letterari italiani con sguardo alloctono, non ho potuto ignorare che, di fronte a iniziative editoriali di rilievo come quella della Mursia – cui va riconosciuto anche il merito di aver affidato la sua Antologia a un critico autorevole per competenza, comprovata dal cospicuo lavoro effettuato, apprezzato anche in ambito internazionale e per l’indipendenza di giudizio – la critica militante italiana abbia per lo più scelto di non pronunciarsi, con lo scopo evidente di non voler attivare un proficuo dibattito, “laico” e a tutto campo, nei molteplici canali e meandri dei media. Un dibattito che sarebbe stato e sarebbe utile sia per i lettori sia per coloro che amano disinteressatamente la letteratura e la poesia, scevra da quell’intreccio perverso fra la pratica del mentire e quella del fare letteratura, teorizzato da Adam Gopnik. Si è scelto invece di applicare la sordina (se non di ordire una specie di “congiura del silenzio”) con l’intento di non dar conto e di non suscitare eco a uno sguardo “altro”, capace di incrinare quella mappa di valori e disvalori conformi al canone corrente. Anche in questo non posso non concordare con quanto afferma la Marcheschi a proposito dell’attività e della responsabilità etica del critico: «Lo sguardo di un critico, come di ogni altro intellettuale è tanto più prezioso quanto più è soggettivo ed eticamente centrato sui principi della responsabilità e della verità. Solo se vi sono tante solide verità soggettive, frutto della consapevolezza intellettuale, di una cultura la più vasta possibile e dello slancio etico a costruire oltre se stessi e insieme con gli altri, si può partecipare attivamente alla letteratura». E inoltre: «Un critico è tale […] soprattutto se si fa carico di chiarire a fondo i valori che attribuisce alle opere e non smette di sostenerli […] (se) ci mette e rimette la faccia». Più avanti, riferendosi a chi ha dichiarato la necessità della resa del critico nell’attuale temperie letteraria, la Marcheschi ribadisce incisivamente che il suo compito è invece «ripartire a fare studi e scelte con pazienza […] leggendo tutto […] aprendo le finestre e aiutando tutti a crescere».
Fra i poeti, che la Marcheschi ha accolto nell’Antologia di Mursia (pp. 334, 22 €), non mancano i dialettali come Loi e la Finiguerra, oppure autori che portano nella loro opera il sigillo della formazione greca e latina, come la Insana e Bandini, oppure attenti alla cifra scientifica come Bacchini; fra i nati intorno agli anni ‘50 sono inclusi autori come Roberto Piumini, che riversa nella scrittura dedicata ai bambini (ma anche agli adulti) la sua impronta pedagogica, o come Maura Del Serra, che affianca alla sua attività poetica potente e raffinata una vasta produzione teatrale. Il più giovane autore antologizzato è Paolo Febbraro, che coniuga con merito poesia e critica ed è noto anche per le sue collaborazioni alle pagine letterarie de «Il Manifesto» e al supplemento culturale de «Il Sole 24 ore».
Mi preme inoltre segnalare la riflessione/esortazione della curatrice: «La poesia, la letteratura sono arti che andrebbero sostenute in maniera più ampia, vissute con maggiore coscienza da chi le pratica e con maggiore deontologia professionale. Sarebbe necessario anche sostenerle e diffonderle nel quadro di una maggiore diffusione della lettura, insegnate più e meglio per farle amare, per rendere un paese e una cultura migliori […]. Si avrebbe inoltre bisogno di una visione di insieme, di una mappa o una piattaforma di iniziative coordinate, capaci di coinvolgere l’editoria, la scuola e la formazione dei docenti, i lettori, i giornali, le istituzioni, dalle locali al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca». Come si vede, le affermazioni della Marcheschi travalicano la riflessione sull’orticello letterario coltivata dai più, spingendosi con passione nell’ambito di una concreta e vitale presenza della letteratura e della poesia, indicando attori e processi operativi da attivare per una crescita culturale diffusa, nonché per una “civilizzazione” individuale e sociale tanto necessarie e da più parti invocate. Al riguardo si può osservare che la curatrice è stata coerente con i suoi assunti anche nella scelta dell’impronta stilistica data all’Antologia, scegliendo di esprimersi con una scrittura piana e agevolmente accessibile anche ai non specialisti, alla quale non fa difetto il rigore dello studioso, ma che non scoraggia l’amatore o il semplice lettore che vuole essere informato su quanto è rilevante nel panorama della poesia italiana contemporanea.
Da parte mia riterrei utile che questo volume fosse consigliato dai docenti di materie letterarie dei licei italiani e delle università come lettura integrativa ai programmi specifici dei loro corsi, in modo da offrire alle giovani generazioni una mappa aggiornata e credibile delle tradizioni e dell’innovazione che hanno nutrito e nutrono la poesia italiana degli ultimi decenni.
L’altro mondo di Faustine
Faustine è una giovane donna alto-borghese che vive a Parigi nell’ultimo scorcio di secolo dell’Ottocento. Il marito è un brillante e abile finanziere che l’ha sposata per i suoi natali ma che non l’ama. È una donna sensibile e intelligente, incapace di comunicare al mondo la ricchezza della sua interiorità. Sappiamo che la sua infanzia è stata tormentata e solitaria, scandita in certi periodi da rituali ossessivi che l’hanno isolata ancora di più dal contesto sociale nel quale viveva:
“Sul far della sera, prima di cena, Faustine s’inginocchiava in camera davanti all’immagine di Gesù, accendeva due candele e pregava infervorata. A volte si presentava a tavola con gli occhi rossi e gonfi, segno che nella preghiera aveva pianto. Non toccava quasi cibo. La madre allora, per punizione, la rimandava in camera, e lì la bimba riprendeva il suo monologo davanti all’immagine di Gesù.”

Ha tre figli di cui non sappiamo quasi nulla, e un marito totalmente dedito ai giochi di potere, che non disdegna distrazioni erotiche, in particolare con una giovane pittrice folgorata ad Argenteuil da Monet in persona e che, oltre a farsi mantenere da personaggi facoltosi, a tempo perso ora dipinge.
Da alcuni anni nella vita di Faustine, una vita esangue e tutta giocata sulla sottrazione, in particolari circostanze – perlopiù davanti a opere d’arte e reperti archeologici –, accade qualcosa, un godimento imprevisto, quasi un miracolo: Faustine ha delle assenze, quasi delle allucinazioni, e percepisce la realtà in modo soprannaturale. Questi istanti di beatitudine, di puro godimento, diventano una seconda vita per lei, una vita segreta di cui chi le sta intorno non sa nulla.
L’esistenza di Faustine, che conosce la gioia solo quando sfiora pericolosamente il delirio e per il resto scorre piatta e solitaria, subisce uno scossone quando incontra nel negozio di un antiquario l’archeologo Henry Polsen, con cui scopre di poter condividere interessi e sensibilità, ma che con la sua inconsapevole sensualità scatena nella donna una crisi isterica che espone la famiglia e il marito allo scandalo. Nella casa di campagna, dove il marito ha trasferito precipitosamente la famiglia, Faustine sembra lentamente riprendersi, ma solo per crollare definitivamente alla vista del quadro che la giovane pittrice ha fatto recapitare al marito e nel quale è ritratta una giovane donna impudicamente esposta allo sguardo di un uomo che ha tutta l’aria di essere Julien. Un corpo abitato dal desiderio, non murato come il suo, e del quale Faustine si sente defraudata. Quel corpo senziente, desiderante, gaudente che doveva essere il suo è, colmo dell’ironia, il corpo dell’amante di suo marito.
Mi sono chiesta che cosa renda disturbante il romanzo di Patrizia Crippa. E disturbante lo è per davvero, a una prima e ancor più a una seconda lettura.
Non ci lascia tranquilli la lingua che l’autrice ha deciso di utilizzare, una lingua inattuale, che vive nei nostri ricordi, ma che non usiamo più, che appartiene solo alla nostra memoria e ci costringe a confrontarci, volenti o nolenti, con il nostro passato, con i decenni che sono alle nostre spalle e con le letture che a quegli anni risalgono. Una scrittura quasi anacronistica, la sua, che sembra modellarsi sui suoi protagonisti e sulla città nella quale si muovono e che sembra non conoscere il nostro tempo. Impossibile, abbandonandosi al suo ritmo quasi ipnotico, non uscire dalla quotidianità fatta di cellulari, mail, ritmi frenetici, suoni metropolitani in cui siamo immersi, e non ritrovarsi come per incanto nella Parigi del 1885. Ma è anche una lingua capace di inaspettate crudezze, una lingua carnale che ci parla dei corpi e della loro insopprimibile materialità. Emblematico, a questo riguardo, il racconto che Faustine fa a padre Antonin, quando gli confida ciò che accade durante il parto, “il mistero della creazione”. Un racconto nel quale ciò che è alto, puro, soave, inviolabile si mescola in modo grossolano con ciò che è greve, sordido, violento, sporco. Il racconto di ciò che “davvero” accade durante il parto è qualcosa di volutamente raccapricciante, e il raccapriccio nasce proprio dalla commistione inammissibile: amore e odio, bellezza e bruttezza, purezza e putrefazione, corpo in gloria e organi separati dal corpo, dotati di vita autonoma, che formano un orrendo corteo dopo la nascita:
“Allora, le ragazze al tavolo vi depongono gli occhi, gli occhi che nascono dopo il bambino, occhi sempre aperti, li vedesse, padre Antonin, che occhi! Sono sempre lì di fronte a te, due piccoli occhietti obliqui, e a volte ti sembra di essertene liberata, ma proprio allora corri il rischio peggiore, ti stanno guardando la nuca e la schiena, e la spina dorsale ti si scioglie! E poi esce sempre odore di fiori marciti, lo conoscete, padre Antonin, l’odore dei fiori marciti?”
Nel romanzo di Patrizia Crippa, poi, è sottilmente disturbante la coesistenza di due piani narrativi, ben messi in luce da Piero Andujar nella prefazione, che mescolano continuamente e in modo impercettibile due realtà apparentemente estranee l’una all’altra: quella della vita che scorre sul piano di ciò che sta insieme, che si tiene, e di cui fa parte la convivenza sociale, la politica, il quotidiano, la rete sottile dei riconoscimenti e degli scambi tra individui presi nel gioco del vivere; e quella della sospensione del senso e del tempo, l’immobilità del mezzogiorno di cui parla Nietzsche e di cui fa esperienza Faustine nelle sue assenze, che evocano la Grecia e il dionisiaco, lo sfumare del limite e il perdersi nel tutto. Da una parte i dettagli anche frivoli, il richiamo a ciò che appare e seduce, il profumo e lo charme di un mondo favoloso, con gli allettamenti di una città magica; dall’altra l’incombere del dolore e del disfacimento.
Ma più di ogni altra cosa a creare disturbo è lei, Faustine, una donna che continua a sfuggirci fino all’ultima pagina e di cui in fondo non comprendiamo mai davvero il segreto. Il messaggio che ci consegna è la sua assoluta impossibilità a varcare la soglia. Ma non sappiamo perché. È bella, giovane, ricca, sa godere dell’arte e della natura. Eppure non può tenere insieme la sua vita interiore e quella che conosciamo come vita reale, il mondo che sta intorno a noi. È vero che è murata nel suo corpo, ma è anche posseduta da ciò che sta fuori del suo corpo: il marito, Annette, madame Tournelle, gli altri. E il suo dramma sta proprio nel non saper coniugare le due realtà che la abitano. Faustine, che non capiamo, che a tratti ci irrita e ci indispone con la sua incapacità di far fronte alla vita, tocca un tasto sensibile in tutti noi, ci ricorda quanto è difficile tenere insieme ciò che è separato e quanto il prezzo per tenerlo insieme sia spesso troppo alto. Alla fin fine, Faustine porta solo agli estremi quello scompenso di fondo che tutti noi sperimentiamo ogni giorno e che solo i ritmi e i rumori della vita quotidiana ci permettono di ignorare. “Il mondo va avanti perché ce n’è un altro di mondo, sommerso e muto, di cui, anche chi lo vede, non può dire niente”, come dice la protagonista del romanzo. Ma basta vivere una sospensione anche piuttosto breve di tali ritmi e rumori, per mettere in crisi un equilibrio che di solito percepiamo come stabile e naturale: uno degli elementi che nella giornata silenziosamente scandiscono il tempo viene a mancare e noi ci ritroviamo disorientati, ciò che era ovvio non lo è più, niente è più scontato, tutto quello che eravamo abituati a situare relativamente ai nostri punti fermi, il prima, il dopo, il durante, fluttua nel vuoto, sconosciuto e quindi minaccioso. Faustine è come se sperimentasse qualcosa del genere nelle relazioni, quelle che, prima dell’incontro con Polsen, davano un ordine al suo mondo, che la ancoravano alla realtà, nonostante le sue assenze, i suoi rapimenti estatici di fronte ai reperti archeologici. Dopo che lui è entrato nella sua pupilla “come su un sentiero”, niente è più come prima, e lei si perde. Quello che prima era possibile – far convivere in pace i due piani esistenziali senza dover per forza sceglierne uno – adesso non lo è più, la punta del desiderio incrina la lastra di cristallo e Faustine va in pezzi.
Gli editori e la sindrome di Highlander
C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nei riti del mondo editoriale italiano. Con un senso di spaesamento quasi onirico, nei giorni scorsi, ho camminato fra stand affollati da valanghe di libri, pantagruelico alibi d’un Paese dai bassi indici di lettura. La compagnia di giro è sempre la solita, ma il contesto è cambiato. Non più gli spazi del Lingotto che richiamano alla memoria il pregresso acronimo Fiat, ma i 35 mila mq di Rho Fiera dove –dal 19 al 23 aprile- si è svolta la prima edizione di “Tempo di libri”, la kermesse milanese che, per dirla in modo un po’ melodrammatico, ha scippato il Salone del libro di Torino come Giacobbe fece con la primogenitura di Esaù, dandogli in cambio un piatto di lenticchie, e come il sottoscritto ha tentato di fare scippando i versi di Pascoli nell’attacco di questo pezzo.

Da Cagnaccio ai Pesce Balla
Nel XX° secolo la produzione di cataloghi e libri d’Arte raggiunse livelli inimmaginabili. Ci fu anche un gran numero di esemplari senza valore, di carattere paesano, pubblicazioni delle quali niente si sa o poco e, per fortuna, introvabili sul mercato. Si tratta di testi scritti da personaggi di infimo profilo, senza una minima istruzione, esseri che si buttavano in qualsiasi avventura pur di accaparrarsi un pasto. Tuttavia, libri privi di apparati critici, senza biobibliografie, a volte mancanti di indici dei nomi e dei numeri di pagina, compaiono nel Dizionario essenziale dell’Arte Italiana del Novecento (a cura di Aurelio Morbinoni, Edizioni del Bernino, Nizzolo, 2001). Tra le tante segnaliamo le seguenti edizioni.

Manet e l’asparago mancante
Partiamo da “un” Asparago. Già solo uno! Ci si sofferma quasi di sfuggita davanti a questo piccolo quadro costruito sinteticissimamente, ton sur ton fra nuance di bianco latteo, grigi e malva.

Il “modello” è lì in bilico su un bordo di un piano di marmo dalle venature di un colore vicinissime a quello dell’asparago. Il piccolo quadro del 1880 viene colto dal visitatore quasi di sfuggita, mentre con gli occhi è alla ricerca dei capolavori di Manet nella mostra a Palazzo Reale a Milano intitolata Manet e la Parigi moderna, aperta fino al 2 luglio, con la curatela del presidente del Musee d’Orsay Guy Cogeval. Eppure è questo asparago che ci prende per il naso e che fa ripensare al breve ironico apologo di Achille Campanile, Asparagi e l’immortalità dell’anima, a offrirci un saggio sulla quintessenza del dipingere di Eduard Manet. Basta leggere la scheda di presentazione all’operina nel catalogo Skira per cogliere la vena umoristica dell’artista: «Questo piccolo dipinto venne donato da Manet a Charles Ephrussi, storico dell’arte, editore della “Gazette des Beaux-Arts” e banchiere che gli aveva comprato il quadro Un mazzo di asparagi. Poiché Ephrussi aveva pagato una cifra superiore a quella richiesta, l’artista gli inviò L’asparago accompagnato dalle seguenti parole: “Al suo mazzo ne mancava uno”.» Spiritoso e ironico Eduard Manet, ma attenzione: l’opera di soli 16×21 centimetri, non è un regaluccio semplice, rivela tutto il talento di un artista e come scrive Georges Bataille, «Questa non è una natura morta come le altre! Morta, sì, ma al contempo vivace.» È un realismo straordinariamente tangibile quello di Manet, dato da una pittura nervosa, sincopata, fatta di tache, macchie e righi veloci, spregiudicata, ma da non confondere mai con quella impressionista; seppure l’artista venga riconosciuto da Bazille, Renoir, Monet come il loro maestro e il capofila, Manet rifiuterà sempre di esporre con loro, gli Intransigenti, questo il primo nome del gruppo degli impressionisti. Manet va sempre alla ricerca di quel riconoscimento ufficiale, di quella patente accademica che a Parigi offriva solo il Salon, voleva essere un classico. E lo è. La sua meditazione sulla pittura classica è proprio quella che ne beve la lezione più vera e non la imita, ma la rende moderna. Manet a lungo non sarà compreso. Le sue opere saranno dileggiate, irrise e ritenute scandalose: da Le déjeuner sur l’herbe dove un nudo femminile è esibito in compagnia di due gentiluomini parigini vestiti di tutto punto, alla nudissima, sprezzante e invitante Olympia; la donna con uno sguardo da “Nessuno mi può giudicare” guarda direttamente lo spettatore adescandolo, indossa solo un perverso collarino nero e dondola sciatta una ciabattina verde. Questa non è certo una posa da dea, i cui corpi perfetti dal vellutato color di mandorla venivano ammessi nella loro nudità sui quadri degli artisti accademici, da Ingres a Cabanelle in testa, ma qui invece c’è un corpo da pasto per i voyeur di una casa chiusa. L’ Olympia non è in mostra, ma ce n’è una copia che occhieggia da un altro capolavoro di Manet: Il ritratto di Emile Zola del 1868, dove lo scrittore di Nanà e del J’accuse è lo strenuo difensore della “pittura moderna” di Manet con Baudelaire e il poeta Mallarmè, il cui ritratto fluido e melanconico è pure in mostra.


Nel quadro dietro a Zola di coltello occhieggia la riproduzione di quell’Olympia che sembra guardare riconoscente verso chi, in modo profetico, l’aveva definita un “capolavoro” degno del Louvre. In realtà sono proprio gli elementi di contorno al profilo da medaglia, inespressivo e statico di Zola, ad essere una cartina di tornasole, anzi una “summa” dell’arte di Manet. Insomma questo non è il ritratto di Zola, ma l’autoritratto indiretto dello stesso artista francese e dei fondamenti del suo dipingere moderno: l’arte giapponese e Velázquez. Il Giappone arriva in Francia proprio come la Grande Onda di Hokusai. Essenzialità e bidimensionalità colpiscono Manet come tutti gli Impressionisti; nel quadro il paravento nipponico e una stampa di Utamaro testimoniano questo amore. Ed ecco poi la Spagna con la presenza nell’opera di una incisione dai Borrachos (I beoni) di Velázquez, «il pittore dei pittori», afferma Manet quando, giunto in Spagna nel 186, vistando il Prado viene incantato dal Buffone Pablo di Valladolid di Velázquez, tanto da raccontare all’amico Fantin Latour: «Lo sfondo scompare: è solo aria, che circonda questo buffone di corte» E aria sia! Ed è quella che circonda l’icona della mostra: Il piffero – Le fifre del 1866.

La tavolozza dei colori è ridotta all’essenziale, lo spazio è privo di profondità: unico accenno alla tridimensionalità è l’esile ombra dietro al piede sinistro. Si distingue a malapena il confine tra il piano orizzontale del pavimento e quello verticale dello sfondo, perché il Piffero è quasi sospeso nell’”aria” grigia uniforme, con pochissime sfumature e totalmente spoglia.
Ed è un rumor di nacchere e toreade nella sala della mostra “L’heure Espagnole”. Nel Combattimento di Tori (1866) la massa furoreggiante è data solo da brevi macchie indistinte, quasi en attendant Picasso, mentre il critico dell’epoca, Edmond About, descrive il quadro come “un torero di legno ucciso da un topo” per evidenziarne gli “errori” di prospettiva.

Pifferi e massa, clochard e miserabili , tutti senza distinzione tra alto e basso, sono i muti testimoni della Vita moderna che dà il titolo alla mostra, così come la vorticante ballerina gitana del dipinto Lola di Valnciaq, o La cameriera della birreria, del 1878-79, con i suoi boccaloni in equilibrio, ma dallo sguardo fisso e indagativo, quasi non sentisse dietro di lei il can can del ballo; drasticamente segata a metà la cantante, con un vero taglio della disciplina emergente, la fotografia.

Sguardi persi, solitudine e ombre che salgono fino al mistero nero del Balcone.

In bianco abbagliante c’è l’amata Berthe Morisot, sua modella, cognata e pittrice, accanto una coppia di amici, e dietro, nel buio di gazza, il figlio Leon: immobili, come persi in un vuoto interiore. Il quadro fa nuovamente scandalo. “Chiudete le imposte!” ironizza il caricaturista Cham, ma ormai, per mano di Manet, i neri abissi della psiche si fanno largo nella vita moderna.
Giuseppe Ungaretti, complice della nostra innocenza
Un poeta italiano enclave fra l’alfa e l’omega della poesia neoellenica del XX secolo
Quando New York non era ancora la big apple che oggi tutti conoscono, un ultra-millenario emblema di cosmopolitismo e integrazione si era già costituito sulle coste del Mediterraneo: Alessandria d’Egitto. L’eterogenia della popolazione aveva portato all’assenza di un sentimento patrio preciso, di una tradizione culturale definita, favorendo altresì una libertà di costume anomala per gli standard europei. L’unico spazio comune all’interno dei confini urbani non era un luogo o un edificio pubblico, ma una lingua, la lingua greca.
Assume i toni della favola pensare che in quella città fuori dal tempo, al tavolo di una latteria del boulevard di Ramleh, ogni sera Constantino Kavafis, impiegato part-time dell’Ufficio irrigazioni e massima voce poetica delle letteratura neoellenica di inizio secolo, sedesse al tavolo con i giovani redattori della rivista Grammata a cui spesso si aggregava un non ancora ventenne Giuseppe Ungaretti.

Ungaretti – nato ad Alessandria un quarto di secolo dopo Kavafis -, in tarda età, ricorderà il poeta greco con l’ammirazione di chi sapeva di essersi seduto non sulla spalla, ma accanto alla sedia di un gigante sentenzioso e assorto, ma pur sempre umile e affabile:
«non voleva che lo considerassimo più d’un compagno, sebbene ci fosse maggiore d’età e già dagli intenditori fosse salutato vero poeta. A volte, nella conversazione lasciava cadere un suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata, allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere».

La memoria si fa versi nella prima produzione dell’autore de Il porto sepolto e le lezioni desunte dal Canone Kavafis si delineano con saggezza sotto diversi aspetti: innanzitutto viene recuperata l’intenzione di scrivere una sorta di «Iliade rovesciata, in cui gli eroi sono sempre più grandi della loro caduta» (D. Grandmont), esempi fulgidi potrebbero trovarsi nella voci di San Martino del Carso o di Veglia che reagiscono strenuamente all’orrore della guerra, portando alla luce l’élan vital che abita chi sopravvive ad una catastrofe, parallelamente in Kavafis si potrebbero leggere Il dio abbandona Antonio e Troiani; la seconda influenza è presente, invece, nell’accento storicistico ravvisabile non solo nell’argomento trattato, ma soprattutto nella sua inclusione all’interno dell’assetto formale delle poesie, infatti costante della poesia ungarettiana è apporre una data che collochi il testo in una determinata dimensione cronica, proponendo un modo di poetare storico, che si concentri più sui particolari (τὰ καθ’ ἕκαστον) che sull’universale (τὰ καθόλου) – per utilizzare categorie aristoteliche -, eppure tale tipo di operazione talvolta era già stata praticata dallo stesso Kavafis in cui non è difficile rintracciare testi come Il gennaio del 1904 o Giorni del 1909, ’10 e ‘11.
Nel 1912 Giuseppe Ungaretti lascia l’Egitto ma porta con sé quel lampo di luce greca che Alessandria gli aveva donato per illuminare il mondo fra le due guerre, restando fedele alla lirica degli alberi delle nuvole e delle stelle di matrice arcaica. Questo bagliore sembra giungere alle isole dell’Egeo e avere la forza di irraggiare Odisseas Elitis, poeta ellenico e vincitore nel 1979 del premio Nobel per la letteratura, che scriverà un breve saggio sulla poetica di Ungaretti, contenuto in Carte scoperte (Atene, 1974) e pubblicato in Italia nella raccolta di saggi Il metodo del dunque (Roma, 2011, curatela di Paola Maria Minucci).

Nel suo lavoro critico Elitis si lascia andare all’autobiografia e confessa di accusare un forte senso di malessere ogni volta che si accosta alle mostruosità delle metropoli. Unico esorcismo possibile sembra allora fare o pensare semplici cose (mangiare del pane o pensare ad un’isola) per recuperare quella «sufficiente scorta di luce» che controbilancia il buio nel mondo. In questi casi la poetica ungarettiana sopraggiunge spontaneamente nell’animo del poeta greco per cercare di delimitare, nella complessa realtà che ci circonda, le linee della vita «in un disegno il cui limpido contorno, come il mare intorno a un’isola, ci lascia vedere meglio quale possa veramente essere il mondo degli uomini in tutte le epoche, una volta tolto il peso delle nostre vanità».
Il lettore profila un’immagine di Ungaretti come complice della sua innocenza, qualità che non concede scudi o armi contro ciò che quotidianamente subiamo, ma ci permette di osservare il mistero della vita e della morte con la certezza di essere mondi.
Il poeta di Mattina (M’illumino / d’immenso) e l’autore del Dignum est (ΣΤΗΝ ΑΡΧΗ τὸ φῶς, “In principio c’era la luce”) sono due uomini che hanno vissuto distintamente le loro esistenze, cercando di tracciare con i loro versi le traiettorie comuni dei raggi del sole mediterraneo: un sole onnipresente e intramontabile anche quando si è giunti al confine con l’abisso.

Pochi mesi prima di morire Ungaretti inseguirà ancora quella luminosa stella nella speranza estrema che una poesia possa fare deflagrare le tirannidi che ci attanagliano:
Grecia 1970 Roma, il 12 dicembre 1969 Atene, Grecia, segreto, vertice di favola incastonata dentro il topazio che l’inanella Sul proprio azzurro insorta in minimi limiti, per esse- re misura, libertà della misura, libertà di legge che a sé liberi legge. Sino dal mare, dal cielo al mare, liberi l’umano verti- ce, la legge di libertà, dal mare al cielo. Non saresti più, Atene, Grecia, che tana di dissennati? Che tana della dismisura, Atene mia, Atene occhi aperti che a chi aspirava all’umana dignità, apriva gli occhi. Ora, mostruosa, accecheresti? Chi ti ha ridotto a tale, quali mostri?
Come scalare il Guercino
Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola. Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.
Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.


A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?


Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale… Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846. Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.
A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.

E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.

Per mantenere le stimmate del mondo terreno – e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 – Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».


Culiano, la gnosi come thrilling
Per raccontare questo thrilling filosofico conviene partire di lontano, dalla fine degli anni venti, quando Mircea Eliade, all’epoca giovane studente rumeno, in futuro scrittore fantastico e storico delle religioni, conosce a Firenze Giovanni Papini e due storici delle religioni, il sacerdote Ernesto Buonaiuti e il professor Vittorio Macchioro, entrambi ai ferri corti con la Chiesa e col fascismo. In Italia raccoglie la documentazione per la sua tesi di laurea sulla Filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno e legge A history of indian philosophy di Surendranath Dasgupta. È la lettura di questo libro a suggerirgli una di quelle idee che decidono il corso d’una vita. Poiché la sua famiglia non può permettersi di pagargli gli studi in India, dove vuole trasferirsi dopo aver letto Dasgupta, Eliade scrive al maharaja Manindra Chandra Nandy di Kassimbazar chiedendogli una borsa di studio. Questi gliene offre una a stretto giro di posta. Poche settimane più tardi Eliade è a Calcutta e studia con Dasgupta. Impara rapidamente il sanscrito, scrive novelle, tiene un diario, studia lo yoga e la storia della filosofia indiana.
Passano 45 anni e un giovanissimo studente dell’est, Ioan P. Culianu, scrive a Eliade una bella lettera dagli abissi della Romania di Ceasescu. A Bucarest, gli dice, non potrò mai studiare, come vorrei, storia delle religioni. Eliade, il suo modello, un compatriota, non potrebbe procurargli una borsa di studio americana? È praticamente la stessa lettera che Eliade, nel 1927, aveva scritto al maharaja di Kassimbazar. Come ci sono offerte che non si possono rifiutare, ci sono favori che non si possono negare: Eliade si prende a cuore il caso. Riesce a procurare al giovane rumeno (il solo rumeno che sotto Ceausescu osi manifestare interesse per una materia antisocialista come la storia delle religioni e per un nemico del popolo come il fascistissimo Eliade) una borsa di studio italiana; il Dipartimento di Stato americano, temendo un’infiltrazione dei servizi segreti rumeni, risponde infatti picche alla richiesta di Culianu, che in Italia pubblica alcuni libri fondamentali sul dualismo, sull’identità tra religione e politica, sulla filosofia rinascimentale, e in particolare su Giordano Bruno e sulle tecniche della propaganda. Soltanto all’inizio degli anni ottanta Culiano ottiene un visto per l’America. È assistente e professore supplente d’Eliade all’Università di Chicago, dove lo storico delle religioni insegna storia del cristianesimo; alla sua morte, nel 1986, gli succede sulla cattedra. Tre anni più tardi, quando Nicolae Ceausescu e signora sono finalmente sbalzati dal trono, Culianu non s’unisce al coro dei rumeni esultanti, ma sente subito odore d’imbroglio. Soprattutto quando a Timisoara comincia la macabra saga dei cadaveri: centinaia d’oppositori assassinati e sotterrati in un campo, che la polizia politica rumena, passata agl’insorti, disseppellisce uno dopo l’altro (puro Bram Stoker) in diretta televisiva, all’ora dei telegiornali americani.