Pape Satàn Paperino (ovvero Dante e i fumetti)

La Commedia è la più importante opera letteraria del Medioevo occidentale.

La poesia della Commedia è ricca di riferimenti alla storia, alla filosofia, alla teologia, alla scienza. Anche all’attualità. Dante se la prende giorno per giorno con amici e nemici. Guelfi e ghibellini. Bianchi e neri. Sta sulla notizia, sta dentro, sta sul pezzo come un reporter: cambia idea e prospettiva durante le tre stagioni della migliore serie di tutti i tempi (assieme alle sette della Recherche e al cofanetto completo di Omero): la Divina Commedia.

Per leggerla e capirla occorrono molte più conoscenze di quelle che servono per leggere un graphic novel di Zerocalcare o una storia a fumetti di Dylan Dog.

La Commedia è stata scritta sette secoli fa, e questo vuole dire che noi lettori di fumetti dobbiamo fare un enorme sforzo di immaginazione e di immedesimazione per calarci nel mondo intellettuale e materiale di Dante, un uomo che aveva idee, opinioni e soprattutto esperienze molto diverse dalle nostre. Ma davvero così lontane da quelle esperite da Dylan Dog, l’investigatore dell’impossibile?

Eppure, eppure proprio per noi lettori di fumetti la Commedia è assai prossima.

Lui è solo, in quel momento della notte prima dell’alba, quando il cielo è ancora buio, ha paura, è disorientato, vulnerabile a ogni pericolo, non sa cosa fare.  Dietro di lui una selva oscura e impenetrabile, da cui è appena uscito sembra ancora minacciarlo, estendendosi con l’ombra del suo intrico fitto di rami. Sudato, ansimante, scorge una collina davanti a sé: lassù la luce dell’alba lo raggiungerà più in fretta. Comincia a salire, ma l’ascesa è più faticosa del previsto. Ha paura di non farcela. A peggiorare la situazione tre belve gli appaiono, una più paurosa dell’altra. Cede, precipita giù. A salvarlo dalla rovinosa caduta appare un’ombra, un fantasma, che con voce pacata e autorevole gli offre il suo aiuto.

Ecco, questa è una sceneggiatura perfetta per una storia a fumetti, con tutti i colpi di scena e i cliffhanger che contiene. Potrebbe essere la scena iniziale di un horror. O di un romanzo di tensione con misteri e delitti. O di una storia di zombie e fantasmi. O un romanzo distopico con questo varco verso l’ultraterreno e l’inizio del viaggio.

Ma non è solo science fiction.

Come su wattpadd è anche fanfiction. I personaggi sono tratti dalla realtà. Come nella fanfiction personaggi realmente esistiti si muovono in un mondo di fantasia. Dante non è solo. Lo guida Virgilio nell’inferno e nel purgatorio fino alle porte del paradiso. Poi la donna amata in gioventù, Beatrice, un’anima eletta, donna che ha intelletto d’amore, degna di stare dopo la morte in sommo cielo. Infine san Bernardo, il grande mistico cristiano che intercederà per lui presso Maria e lo scorterà fino al punto dal quale potrà contemplare Dio.

E poi, come fosse un romanzo di Walter Siti, la Commedia è anche un autofiction, un racconto d’invenzione nel quale continianamente il protagonista è anche l’autore del racconto, infatti il narratore Dante Alighieri racconta la storia di Dante Alighieri, sia poeta sia personaggio, in una sorta di viaggio, di trip mistico e psichedelico, creando tra invenzione e testimonianza una sorta di autobiografia di fatti non tutti accaduti.

Quanto c’è di reale e quanto di fiction in ciò che stiamo leggendo?

E per venire più da vicino al tema, quanto c’è di iconico?

La sua forma è la visione, il suo modo il viaggio attraverso mondi immaginari e soprannaturali.

L’inferno è raffigurato da Dante come un gigantesco cono rovesciato che si spalanca sotto Gerusalemme e si restringe attraverso nove cerchi fino al centro della terra dove ha il suo vertice. A generare questa voragine la caduta di Lucifero, che si trova conficcato come un chiodo al centro esatto della terra. Questa enorme massa di terra spostata ha creato agli antipodi la montagna del purgatorio. Alla sommità di questa montagna il giardino meraviglioso del paradiso fino all’empireo.

Il fumetto e il disegno privilegiano la ricezione dell’inferno. Ma non tanto per la sua idea di tragicità. Pieno di demoni, di animali e di mostri, violento e visionario, pieno di morti ammazzati, di diavoli che volano, di punizioni atroci e fantasiose per i dannati. Odore di pece, di sangue, di merda. Piuttosto il set per un action tarantiniano o per un fantasy splatter. Perfetto per l’immaginario contemporaneo che fa di Dante una pop star. Quasi fosse uno youtuber.

Le rime aspre e chiocce, scandite dal ritmo serrato delle terzine, con il loro stile violentemente realistico, duro di suoni stridenti, disegnano la visionarietà dirompente dell’Inferno. Perfetta per il segno e i colori di Lorenzo Mattotti, forse il più grande romanziere per immagini del nostro tempo, che nel 1999 disegna l’Inferno Dantesco Illustrato, edito dalla casa editrice Nuages, poi ripubblicato nei classici Bur nel 2014.

La traspone in figure inquiete e allucinate. Fantastiche ed espressioniste. Disegna diavoli, mostri e ombre. I suoi pastelli sono materici, antirealisti, combattivi, i colori accesi e pastosi che si caricano di senso narrativo, le figure allungate dai movimenti oscuri senza centro.

Dai rossi infuocati, ai blu e ai verdi e ai gialli di linee sinuose e dinamiche che bloccano figure tragiche, seducenti, peccatrici. Che manifestano un’emotività violenta. Quasi festosa. L’impatto narrativo di questa architettura visiva è enorme. Il viaggio un vero trip, psichedelico.

La deformazione espressiva

Le immagini dell’illustratore reggiano Emiliano Ponzi, di una generazione successiva a quella di Mattotti, sono rappresentazioni fortemente strutturate, ripetizioni, linee di fuga e composizioni.  Il suo lavoro si basa sull’uso di texture, linee grafiche ed essenzialità, per comunicare in maniera diretta e sintetica. Iconico e sofisticato, Ponzi, è stato “scoperto” oltreoceano, dal New York Times, e da lì ha iniziato la sua folgorante carriera tanto da annoverare tra i suoi clienti il New Yorker, Le Monde e The Boston Globe. Le sue illustrazioni ricordano le atmosfere di una certa letteratura e cultura americana della metà degli anni ’50. Penso ai romanzi di Richard Yates e alle opere di Edward Hopper.

Le opere sono disegnate per il libro illustrato L’inferno di Corraini editore, del 2012: dove i peccati sono racchiusi nella sintesi di un dettaglio, nove Cerchi tracciano un ritratto contemporaneo dell’Ade dove i golosi sono intrappolati in un grande ghiacciolo, gli avari indossano un completo di grisaglia con giacca e camicia, i traditori portano a termine trattative seduti nelle loro automobili, gli iracondi sono visualizzati in una coppia di sposi bruciata dalle fiamme.

Michael Meier disegna Das Inferno nel 2010. Das Inferno è apparso come striscia quotidiana sulla Frankfurter Rundschau dal 2 agosto 2010 al 30 luglio 2011.

Nella sua Commedia, Dante raffigura un viaggio grandioso nell’aldilà. Come Virgilio guida Dante e Dante guida il suo lettore, nel suo fumetto Michael Meier ci prende per mano e ci accompagna lungo un viaggio d’avventura oscuro e sotterraneo. È un viaggio comico.

Nel fumetto di Meier c’è molto da ridere.

Si è ispirato fedelmente a Dante e allo stesso tempo ha costruito un’immagine tutta personale dell’Inferno. Ha coniugato l’immaginario dell’inferno dantesco con la visione del mondo che noi abbiamo della nostra contemporaneità. Le punizioni fantastiche che Dante poteva immaginare solo all’inferno, sono tradotte nel nostro mondo, tutto secolare. L’inferno ideato da Dio svanisce nell’inferno che gli uomini hanno costruito per se stessi. La critica della società non è affidata a un giudice trascendente, ma a un’attenta e spassosa descrizione del nostro tempo. L’inferno è diventato accessibile, moderno, polisemico. È pieno di sorprese, allusioni e giochi di parole.

Il Dante di Meier, che si è perso nel Ventunesimo secolo indossando solo una canottiera, ci mette davanti agli occhi l’attualità della Commedia settecento anni dopo la sua prima apparizione.

Sia per quelli che hanno letto la Commedia, sia per quelli che non la conoscono sarà un vero spasso infernale.

Nella primavera del 2014 questi tre artisti hanno esposto le tavole dei loro inferni in una mostra organizzata dall’istituto italiano di cultura di Berlino, in occasione del ciclo “Dantes Spuren / Tracce dantesche”, una mostra sulla ricezione dell’inferno dantesco nell’illustrazione, nel graphic novel e nei nuovi media attraverso i lavori di tre tra i più significativi illustratori contemporanei.

Spaziando dalle antiche illustrazioni della Commedia alle sue contemporanee rappresentazioni fumettistiche si fa un viaggio appassionante che, partendo dai primi incunaboli medievali – quasi prodomi degli odierni comics – avrà massimo sviluppo nell’ottocento di Gustave Doré, per raggiungere la tappa fumettistica nel 1947 con La rovina in commedia, parodia di Jacovitti pubblicata per il giornale satirico Belzebù (odissea infernale nell’Italia post bellica), proseguendo con la parodia disneyana L’Inferno di Topolino disegnata da Bioletto e sceneggiata da Martina in perfette e aggiornate terzine dantesche. È la prima storia italiana a fumetti uscita, nella sua integralità, su Topolino giornalino che si rivelò un inatteso e clamoroso successo.

Dello Jacovitti politico, alle prese con i disastri della “liberazione” e dell’invasore alleato, ricordiamo le due tavole di una storia incompleta, La rovina in commedia, pubblicate sul settimanale satirico “Belzebù” nell’aprile del 1947. L’idea era quella di mettere la Commedia dantesca in chiave di satira politica e parodia sociale, rifacendosi al disastro italiano dell’immediato dopoguerra. Nella selva oscura un anonimo personaggio sperduto (l’Italiano medio) prova a imboccare il sentiero di destra, andando a finire nelle fauci della lonza americana; alla richiesta di un prestito la bestia con la tuba da Zio Sam risponde che lo farà, a patto che gli Italiani stiano fuori dal “mare vostrum”. La via di centro porta al feroce leone britannico, con il quale è impossibile persino iniziare a discutere. La strada a sinistra conduce infine verso la lupa sovietica, che allatta due singolari Romolo & Remo chiamati Tito & Palmiro; questa lupa, infida, sbrana i pantaloni dell’incauto viaggiatore. Appare dunque Dante a far da guida e mostra al protagonista la personificazione della Rovina, una sorta di orrida e laida prostituta cadente adagiata sulle macerie delle nostre città. Nella cornice illustrata che circonda la seconda e ultima tavola del dramma a fumetti si vede un piccolo personaggio che esibisce il pugno chiuso reggendo in spalla un sacco con la scritta “Dongo”…

«Io son nomato Pippo e son poeta

Or per l’inferno ce ne andremo a spasso

Verso un’oscura e dolorosa meta.»

L'Inferno di Topolino

L’inferno di Topolino è la parodia Disney dell’Inferno dantesco, pubblicata sui numeri 7-12 di Topolino dall’ottobre 1949 al marzo 1950. Gli autori sono lo sceneggiatore Guido Martina e il disegnatore Angelo Bioletto; oltre che dei consueti dialoghi nei balloons, Martina è anche autore di un complesso tessuto di didascalie in versi che accompagnano per intero la storia. Si tratta di un vero “poema” in terzine dantesche (endecasillabi in rime incatenate secondo lo schema ABA BCB), sforzo che frutterà a Martina la menzione del nome nella prima vignetta, cosa eccezionale visto l’anonimato in cui lavoravano gli autori disneiani dell’epoca. L’Inferno di Topolino, oltre a essere considerata uno dei capolavori di Martina e del fumetto italiano, è stata la prima Grande Parodia Disney italiana.

Così veniva presentata il 13 novembre 1948, quasi un anno prima della pubblicazione, nel Diario degli amici di Topolino la lavorazione dell’Inferno di Topolino: “Il poeta è Dante Alighieri, l’opera è la Divina Commedia. Dopo essere stata tradotta in tutto il mondo, ha tentato l’estro di Walt Disney, che ha creato per voi L’inferno di Topolino i cui versi sono stati scritti da uno specialista in rime da matti: Guido Martina. E quando Dante più Disney più un matto si mettono insieme, saltan fuori cose infernali, di cui vi diamo qui un piccolo campione.”

L’Inferno di Topolino ironizza sul costume della vita italiana del Dopoguerra, con Topolino nelle vesti di Sommo Poeta e Pippo in quelle del suo compagno di viaggio Publio Virgilio Marone. Tutto il cast dei personaggi disneyani dell’epoca è coinvolto in questa parodia: dai Tre Caballeros al Grillo Parlante, da Mastro Geppetto al Drago Timido, da Dumbo a Eta Beta, da Fratel Coniglietto ai Tre Porcellini. Brilla l’assenza di Paperon de’ Paperoni coi suoi fantastiliardi. Qunado Martina scrive L’Inferno nel 1948, il personaggio non è ancora noto ai lettori italiani che, soprattutto in relazione alle varie ristampe, si domandano il perché dell’assenza dello Zione sulla scena infernale. Sfoderando una satira bonaria Martina e Bioletto citano anche le vincite alla Sisal e Fausto Coppi, Totò e Erminio Macario. Ironizzano sulla trascuratezza del verde pubblico, sugli zolfanelli o sull’uso di salire sui treni in corsa all’epoca dello sfollamento, durante la seconda guerra mondiale, da poco conclusasi.

È il primo capolavoro che incontriamo in questa storia del fumetto, ed è una parodia, umoristica, disneyana.

La storia si apre con il finale di una recita teatrale della Commedia con Topolino nella parte di Dante e Pippo in quella di Virgilio. Invidioso del successo riscosso, Gambadilegno fa ipnotizzare da un complice i due nemici di sempre, i quali continuano a comportarsi come Dante e Virgilio. Dopo una sfuriata di Minni, presa da Topolino per Beatrice, Topolino e Pippo si recano in biblioteca per saperne di più su quel Dante per cui devono “soffrir tanti martìri”; alle prese con un gigantesco tomo della Commedia, i due cadono ben presto in preda al sonno, e Topolino viene catturato dal ramo di un albero dell’illustrazione (di Gustave Doré) della selva e portato all’Inferno… Qui incontra ben presto Pippo-Virgilio, e inizia la loro lunga peregrinazione alla volta della “oscura e dolorosa meta” dove pregare Satana di farli uscire dal “doloroso passo”.

Il viaggio dei due è suddiviso in Canti sul modello della Commedia.

L'Inferno di Topolino - Canto Secondo

Canti I-II: il Canto I non è presente nella storia, che inizia dal secondo con la scena della selva oscura. Tuttavia il celeberrimo incipit “Nel mezzo del cammin di nostra vita” viene parodizzato nell’introduzione da “Correva l’anno tal dei tali”; inoltre la scena del sonno di Topolino e Pippo corrisponde al verso dantesco “Tanto era pien di sonno in su quel punto”. Topolino, nella valle che gli ha “di paura il cor compunto”, incontra subito Pippo a bordo di una vecchia bicicletta; dopo una breve spiegazione, Topolino viene incoraggiato da Pippo (“Muoviti, ribaldo!”) (nell’edizione originale l’incitamento di Pippo/Virgilio era “muoviti maledetto”, che poi è stato, per motivi oscuri, forse di censura, modificato in “muoviti, ribaldo”, e in “muoviti, insomma” in altre edizioni) e alcuni diavoli ad intraprendere il viaggio verso il profondo Inferno.

Canto III: Topolino e Pippo non incontrano né la lupa né la lonza, ma in compenso un leone con le mansioni di vigile tenta di multarli per l’assenza di fanale e catarifrangente. Topolino si libera del leone con un gancio sinistro, e i due viandanti giungono infine alla porta dell’Inferno. Tra le iscrizioni presenti, campeggia “Tenere la sinistra: la destra è stata smarrita” che parodizza il dantesco “sì che la diritta via era smarrita”. Topolino e Pippo si presentano al cospetto di Caronte, il quale tenta di allontanarli ma poi accetta di imbarcarli dopo aver saputo che sono poeti (e quindi “sempre morti di fame”), anche se Topolino si confonde presentandosi come colui che ha cantato “le donne, i cavalier, l’armi, gli amori” (al che, Pippo lo sgrida: “Per Giove, sei un ignorante: l’ha scritto Ariosto, non l’ha scritto Dante!”)

Canto IV: Topolino e Pippo entrano nel limbo, in cui gli studenti si vendicano di coloro “che fanno tristi gli anni della scuola”: Orazio, Platone, Cicerone, e soprattutto la personificazione dell’Aritmetica. Poi incontrano – come Dante – Omero e Giulio Cesare, ma anche la personificazione del Sofisma e della Filosofia.

Canto V: Topolino e Pippo scendono nel secondo cerchio, in cui nel salone di bellezza di Minosse vengono puniti i vanitosi che “in testa non avevano cervello / ma solo brillantina sui capelli”. Nella Commedia Dante incontra – dopo Minosse – i lussuriosi (tra cui Paolo e Francesca) che volano in balìa del vento: nella storia ciò si traduce in una bufera che travolge coloro che si “davano arie”.

Canto VI: I due protagonisti si ritrovano nel cerchio dei golosi, e scampano per poco a Cerbero; Pippo cade nella padella di un diavolo che lo offre a Qui, Quo, Qua a mo’ di cappone. I tre fratelli, però, salvano Pippo e tornano in Terra redenti dalla buona azione. Nella Commedia e nella storia il canto si chiude con il verso “Quivi trovammo Pluto, il gran nemico”.

Canto VII: Topolino e Pippo incontrano in effetti il cane Pluto, che Pippo riesce a distrarre con un osso di seppia per canarini. Come nell’Inferno, in questo canto troviamo avari e prodighi: Topolino e Pippo incontrano tra gli avari il cassiere Eli Squick, che “sol godeva udendo fare click / Nel chiudere il portello del forziere”.

Canto VIII: I due “poeti” entrano – come Dante e Virgilio – nella barca di Flegias per attraversare la palude Stigia, dove sono puniti i litigiosi (“Sembra di assistere a una partita di calcio!”). Come Dante viene aggredito da Filippo Argenti, Pippo viene assalito da un professore che pretende di dargli zero in tutte le materie (la satira dell’ex-insegnante Martina contro i colleghi “che gli studenti fanno viver grami”). Scesi dalla barca, giungono alle porte della città di Dite (“Città di Dite – Riscaldamento autonomo”), ma come nell’Inferno una guardia di diavoli impedisce il passaggio. Se nel canto Nono dell’Inferno giungeva un messo del cielo ad aprire la porta, nella storia interviene Dumbo che potrebbe portare in volo Topolino e Pippo se non avesse il “serbatoio vuoto”. A questo punto calano su di loro le due furie Eulalia ed Enza, che soffiano dal naso un ciclone di fiamme: Topolino le sfrutta quindi come motore a reazione legandole ai fianchi di Dumbo.

Canto IX: Topolino e Pippo sorvolano l’area degli “scoperchiati avelli” in cui, invece degli eretici, sono puniti gli iracondi che “prendevano fuoco troppo facilmente”.

Canto X: Dante qui ha un battagliero colloquio con il guelfo Farinata degli Uberti; Topolino trova invece Gambadilegno, che lo sfida ad un incontro di lotta. Tale incontro prende le sembianze di un vero evento sportivo, con Cucciolo (che dovrebbe essere muto) nella parte di radiocronista. Infine, da un’arca salta fuori Paperino, che vorrebbe fuggire ma viene rinchiuso da Topolino e Pippo: scaglia quindi una maledizione (“Vi seguirò per tutto l’inferno!”).

Canto XI: Saltato per sfuggire a Paperino.

Canto XII: Il Minotauro dantesco è rappresentato da Toro Seduto in motocicletta; in luogo dei centauri, poi, Topolino e Pippo incontrano I tre caballeros su un tappeto volante: Paperino, José Carioca e Panchito. Paperino continua a mostrarsi ostile, e viene congedato da Topolino con un calcione (“Guarda la virtù mia s’ell’è possente!”).

Canto XIII: Analogamente alla Commedia, Topolino-Dante e Pippo-Virgilio si addentrano in una squallida selva “in cui già padre Dante aveva notate / non fronde verdi, ma di color fosco”. Alberi secchi, prati polverosi, frutti velenosi rendono la selva somigliante al “Parco di Milano”. Topolino e Pippo riescono a salire su un minuscolo treno in transito, ma la loro corsa termina ben presto contro un albero. I due amici vengono assaliti dalle Arpie, che inizialmente hanno le sembianze della strega di Biancaneve e poi si rivelano essere tanti Paperini inferociti. Tentando di scacciarli, Topolino stacca un ramo da una pianta, ma si accorge di aver lacerato un peccatore tramutato in albero (come Pier della Vigna). Si tratta di Cosimo, giovane cugino di Clarabella, che spiega come nella selva siano puniti i violenti contro le cose e in particolare gli studenti che danneggiavano banchi e muri. Il contrappasso consiste nell’essere usati per costruire banchi scolastici, posti in un’aula popolata di somari (invece delle cagne dantesche) e sistematicamente distrutti a calci. A interrompere la pena è l’intervento della Fata Turchina (erroneamente chiamata Biancaneve), con l’aiuto del Grillo Parlante che convince i bambini a ottemperare ai propri doveri con coscienza.

Canto XIV: Non viene citato (nella Commedia vi sono i violenti contro Dio).

Canto XV: Qui Dante incontra, tra i violenti contro la natura (i sodomiti), il vecchio maestro Brunetto Latini, con il quale ha un cordiale dialogo. Analogamente Topolino, procedendo in un deserto su cui piovono fiamme, incontra il suo vecchio maestro di scuola: egli è punito per l’aver “predicato bene” e “razzolato male”. L’interpretazione delle fiamme cambia radicalmente: se nella Commedia rappresentano la passione insana, nella storia sembrano neve e in realtà sono fuoco, come i peccatori che sembrano buoni e in realtà sono malvagi.

Canto XVI: Saltato perché “contiene gli stessi peccatori del XV, e poi sappiamo già di cosa si tratta!”.

Canto XVII: Dante e Virgilio scendono in Malebolge in groppa al mostro che simboleggia la frode, Gerione; Topolino e Pippo si affidano a un drago che li avverte: “Stiamo entrando nella parte più terribile di tutto l’inferno!”. Al “Gran Bar di Malebolge”, infatti, sono puniti i “frodatori” – tra cui Fratel Coniglietto – a mollo in un mare di pece con le sembianze di cioccolata, che richiama la pena dei barattieri del canto XXI dell’Inferno. Viene parodizzato anche l’inganno dello scaltro Ciampòlo ai danni dei diavoli nel canto XXII: Fratel Coniglietto riesce a fuggire alla pena trascinando al suo posto Compare Orso.

Da qui in poi i numeri dei canti non sono più segnalati, ma alcuni si possono ricostruire a partire da episodi corrispondenti nella Commedia.

Canti XVIII-XIX: Non presenti. Nella Commedia vi sono i ruffiani e seduttori, gli adulatori e i colpevoli di simonia.

Canto XX: Come Dante, Topolino e Pippo incontrano gli indovini (ed Eta Beta), costretti a girare come trottole con un sacco sulla testa. Curiosità: alcuni di essi sono raffigurati con delle schedine davanti a un tabellone di risultati di partite di calcio, tra cui spiccano “Venezia-Juventus 12-0”, “Inter-Milan 6-1″” Internazionale e Totò-Macario 0-0″.

Canti XXI-XXII: Vedi Canto XVII.

Canto XXIII: Qui Dante trova gli ipocriti, mentre Topolino e Pippo assistono alle pene dei suggeritori e degli alunni che marinavano la scuola fingendo di essere malati.

Canti XXIV-XXV: Invece dei ladri della Commedia, Topolino e Pippo trovano Ezechiele Lupo alle prese con I tre porcellini: dopo il tentativo fallito di rapirli per mangiarseli, il “re dei ladri” viene ridotto a mal partito da un’esplosione, un attacco di galline (corrispettivo dei serpenti danteschi) e un tiro di schioppo.

Canto XXVI: Il celeberrimo canto di Ulisse. I consiglieri fraudolenti, nella storia, sono i giornalisti. Topolino e Pippo incontrano Flip, l’animaletto di Eta Beta, all’avvicinarsi del quale “la verità viene a galla”: e infatti i giornalisti iniziano a scrivere per terra con la lingua “Io fui bugiardo”. Poco più in là i due incontrano una fiamma cornuta che racchiude (invece di Ulisse e Diomede) le due anime di Paperino: una metà buona e l’altra cattiva. Topolino e Pippo riescono a spegnere la fiamma cattiva, e così il Paperino “buono” accompagna i due amici verso la “Gelateria della Giudecca”.

Canti XXVII-XXXII: Non presenti.

Canto XXXIII: Il canto del Conte Ugolino. Topolino incontra l’arbitro di calcio Ugolino, intento a rosicchiare un pallone, che gli racconta la sua fine (“Parlare e lagrimar vedrai insieme!”): egli arbitrava a Pisa “una partita / ch’avea in palio il titolo di campione”, e per salvare la squadra che gli aveva dato un milione, non fischiò un rigore. Egli morì, infine, per gli accidenti lanciati dai tifosi. Ugolino dà un morso ancora più forte al pallone (“Ahi football, vituperio delle genti!”) causando uno scoppio che catapulta Topolino, Pippo e Paperino verso la voragine dell’inferno più profondo.

Canto XXXIV: Dante vede Lucifero al centro del lago di Cocito intento a maciullare Giuda, Bruto e Cassio. Ne descrive la mostruosità e il cammino compiuto da lui e Virgilio sul suo corpo, salendo per un oscuro cammino a “riveder le stelle”. Topolino, da parte sua, incontra lo stesso Dante che punzecchia con una gigantesca penna i “traditori massimi”, cioè gli autori della storia. Essi confessano di averlo tradito scrivendo e disegnando la parodia del suo Inferno; Topolino tuttavia ferma Dante e gli fa sentire il coro dei ragazzi felici per aver letto la storia. Al grido di “Perdono!” e “Assoluzione!”, Dante assolve “con la condizionale” i due autori, che lo ringraziano e promettono di non tradirlo più. Dante, infine, vedendo partire i tre pards e i due autori lascia loro il suo ultimo messaggio: se nella Commedia gridava “Ahi, serva Italia, di dolore ostello!” oggi affida al suo verso “la certezza / D’una speranza bella e pura” (si ricordi che l’Italia era appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale), concludendo il canto con “Il ciel per te s’accenda di fiammelle / Splendenti a rischiararti ancor la via / Sì che tu possa riveder le stelle! Dio ti protegga, Italia. Così sia!”.

Sempre dalla penna di Martina uscirà anche la sceneggiatura di Paolino Pocatesta e la bella Franceschina, dove Paolo e Francesca diventano Paperina e Paperino, futuro protagonista de L’Inferno di Paperino, scritto da Marconi e dipinto da Chierchini con la tecnica con cui si realizzavano i cartoni animati. Viene pubblicata su Topolino numero 1654 del 9 agosto 1987.

Qui, Quo e Qua regalano una crociera fluviale sul Colorado a Paperino, essendo molto stressato: durante la vacanza, però, si imbatte nell’entrata dell’Inferno che esplorerà in compagnia di Virgilio, alias Archimede. Come nell’Inferno dantesco, anche in quello disneyano vale la legge del contrappasso:

  • gli inquinatori vengono risucchiati in un vortice di immondizia;
  • quelli che abusavano della burocrazia vengono colpiti da timbri giganti o passati sotto distruggi-documenti “piacevati in vita usar lo timbro? E allora…Tiè!”;
  • i piromani vengono trasformati in alberi e assaliti da corvi sputafuoco (che Arkimedio chiama Erinni) che dicono continuamente “piro…mani” e alimentano le fiamme sui tronchi dei malcapitati peccatori;
  • coloro che usavano la macchina a sproposito sono costretti, vettura sulle spalle, a dovere fare la fila a infiniti semafori;
  • quelli che “spregiaron li pedoni all’incrocio” vengono ora inseguiti e travolti da una specie di macchina infernale;
  • coloro che abusavano delle apparecchiature elettroniche vengono ora assorditi o colpiti da stereo e TV demoniaci;
  • i golosi vengono costretti a consumare continuamente purganti e cibi sgradevoli;
  • coloro che in vita sono stati tirchi e avidi, sono costretti a trasportare sacchi di denaro e altri oggetti preziosi per poi vederli fondere nella lava.

Fatti non foste a legger comics bruti, ma per seguir storielle di valenza” recita il Dante. La Divina Commedia a fumetti di Marcello Toninelli sulle pagine di Off-Side nel 1969, versione a strisce della Commedia che, alla chiusura della rivista, verrà ripresa su Undercomics e poi su Il Giornalino, pubblicando tutte e tre le cantiche nella versione più completa mai realizzata.

Il lavoro di Toninelli, fatto secondo lo stile narrativo della striscai umoristica classica, è divertente e pedagogico. Veloce, ironico, mai troppo dissacrante: poca teologia, storia quanto basta, ma tanto divertimento nella penna, che disegna un segno semplice ma efficace. Virgilio è simpatico, Dante scapestrato, spesso inadeguato e scioperato.

Divertenti anche La vita e il Dizionario alfabetico dei personaggi.

Il viaggio fumettistico della Commedia prosegue sulle pagine di Nathan Never, Cattivik di Bonvi e poi ceduto a Silver e il diavoletto Geppo di Sandro Dossi, carlbarcksiano inventore di questo diavolo buonissimo, costeggia infine il Giappone col manga di Go Nagai.

Go Nagai è il mangaka che ha creato Jeeg Robot, il manga che ha ispirato il superoe di periferia del miglior film italiano della stagione, Mazinga, Goldrake, Ufo Robot e l’intera epopea supereroistica dei super robot, enormi robot guidati all’interno da esseri umani.

In principio più della carta potè l’antenna.

Dalla seconda metà degli anni Settanta i dirigenti delle reti televisive italiane, sia Rai sia private, cominciarono a saccheggiare i magazzini degli studi di produzione giapponese di disegni animati.

Una generazione di ex bambini spettatori originari delle serie giapponesi tv era pronta a far esplodere la febbre dei manga. In Italia tra le collane Bonelli e Disney, il manga diviene il terzo polo del fumetto. I manga sono avversati da genitori e insegnanti come di solito avviene per tutti i buoni elementi della cultura popolare. Era comunque pronta una prima generazione Goldrake, i suoi membri avevano scoperto la cultura pop giapponese nei tardi anni Settanta e oggi hanno quarant’anni.

Il manga è una forma espressiva di grande libertà, sfuggita alla bigotteria religiosa, alle oppressioni che la ragione impone alla fantasia, alle censure e alla ipocrisia del buon gusto omologato.

Il manga sa far ridere, sa far paura, commuovere e indignare megli del fumetto dei super-eroi della tradizione americana.

Profondo innovatore in ogni campo del fumetto giapponese, con il manga Mao Dante Go Nagai inizia la sua esplorazione delle tematiche religiose e demoniache. Da quanto dichiarato da Nagai stesso, fonte di ispirazione per Mao Dante e successivamente per Devilman fu una copia della Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata da Gustave Doré, che aveva avuto modo di leggere durante l’infanzia.

L’opera è pubblicata in tre volumi da Kodansha tra il 1993 e il 1994.

I primi due dedicati all’inferno, il terzo a purgatorio e paradiso.

La commistione tra stilemi narrativi orientali (ovviamente anche grafici: guardate il Caronte col remo in mano), le incisioni di Dorè, il gusto splatter, la vena erotica e la trama della Commedia era rischiosa. Un po’ come se Quentin Tarantino decidesse di ispirarsi alla Commedia per il suo prossimo film. È evidente: il rischio che potesse venir fuori una cosa ridicola era alto. Go Nagai ha rischiato moltissimo ad affrontare la riduzione a fumetti del libro più bello al mondo. Ma ha vinto la sfida. La sua versione è un capolavoro. Splatter e stracult, ma sempre capolavoro è.

Dal punto di vista squisitamente grafico Nagai cerca di attenersi alle celeberrime rappresentazioni dell’incisore ottocentesco Gustav Doré: alcune tavole sono la riproposizione, anche abbastanza precisa, delle incisioni del pittore francese. L’uso del nero è ovviamente massiccio (esiste un luogo più nero dell’Inferno?), l’uso dei retini è moderato mentre gli sfondi cupi fatti a mano, linea per linea, abbondano.

Il tratto del maestro è inconfondibilmente “nagaiano” per quanto riguarda le fisionomie di Dante, Virgilio, Beatrice (la più “nagaiana” di tutti nella sua versione erotica), l’Angelo, Francesca e molti altri dannati, mentre per i mostri (Caronte, Minosse, le Gorgoni, Flegias, Plutone…) si attiene per quanto possibile alla versione di Doré.

Pensiamo all’ottavo girone è composto di dieci fossati circolari che discendono come una scala.  Dante e Virgilio ci arrivano come in una scena di Harry Potter, volando seduti sulla groppa del mostro Gerione, simbolo della frode. Siamo a Malebolge, onomastica dantesca e harrypotteriana. L’Inferno è una cavità completamente buia, in cui ristagna aria densa, che Dante definisce di color “perso”, nero con una cupa sfumatura di rosso. Come una tavola di Mattotti. La prima bolgia è l’inferno dei ruffiani. Sono sferzati con forza dalle fruste dei diavoli. La seconda bolgia è un mare di merda, l’inferno splatter degli adulatori. La sozzura entra nei loro occhi, nel naso, nelle bocche. Il volto meraviglioso di Taide, la puttana d’Atene è ricoperto di merda. Dante si sbizzarrisce a inventare punizioni atroci e fantastiche per i dannati, neanche fosse Tarantino. O George Lucas. Nella terza bolgia stanno i papi simoniaci, che hanno venduto l’anima per denaro. A loro Dante riserva una delle pene più fantasiose. Stanno conficcati a testa in giù, dentro grosse buche di pietra, hanno i piedi e le gambe bruciati da fiamme inestinguibili. Tortura dolorosissima, grottesca, pronta per l’uso di un grande fumetto. Nella quarta le teste torte al contrario, nella quinta la pece melmosa ribolle, è l’inferno dei corrotti, quando tentano di riemergere vengono infilzati dai ramponi dei demoni e fatti a brandelli. La scena è terrificante, splatter e stracult, perché Dante la gira mescolando in sinestesia diverse esperienze sensoriali. Il buio della bolgia illuminata dalle fiamme, le grida dei demoni e i lamenti dei dannati, il calore della pozza bollente, l’odore della pece. E qui Dante strafa anche di sceneggiatura. Coi nomi dei diavoli. Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto dalle grandi zanne, Graffiacane, Farfarello, Rubicante e Barbariccia, il capo della comitiva.

Poi Dante si scatena. Come in Goldfinger ecco gli ipocriti con un mantello che li incapuccia di piombo ricoperto d’oro. Ecco i ladri torturati e morsi dai serpenti con mutazioni orrende e continue come in Alien, con l’uomo trasformato in serpente e il serpente tramutato in uomo. Perché anche l’uomo ha un suo veleno, come il serpente, chiosa Go Nagai.

I dieci fossati di Malebolge sono il luogo nel quale Dante si diverte a mettere in scena tutti gli effetti speciali: dannati che si trasformano in serpenti; diavoli che volano; eterne fiamme infernali in cui il corpo per quanto bruci non si consuma illuminando come lucciole il buio della bolgia, corpi lacerati, c’è chi diviso in due porta in mano la propria testa come fosse una lanterna (Bertran De Born), chi è fatto a pezzi, chi imputridisce continuando a decomporsi tra muffe e vermi.

Insomma c’è tutto l’immaginario pulp e splatter contemporaneo. Il fantasy e l’horror e gli zombie.

Dopo essere emerso dall’oscurità e dalle sofferenze dell’inferno, Dante è pronto a proseguire il proprio viaggio da vivo nell’aldilà, entrando “in quel secondo regno/dove l’umano spirito si purga/ e di salir al ciel diventa degno.” Luogo di pentimento e di speranza, regno dell’espiazione e dell’avvicinamento a Dio, questo è il purgatorio. Le anime sono impegnate nel lungo percorso di purificazione e il designer statunitense Milton Glaser visualizza questa straordinaria incarnazione poetica e teologica della tensione tra il ricordo della vita terrena e il desiderio di salvezza. Sono immagini tensive, vibranti di malinconica dolcezza. Figurativizzano e cristallizzano l’atmosfera di attesa e di sospensione che attraversa la seconda cantica.

In occasione del recente Salone del Mobile la Galleria Nuages di Milano ha presentato un’esposizione dedicata a Milton Glaser, il grande graphic designer americano, fondatore dei mitici Push Pin Studios, inventore del marchio I love NY col cuore rosso conosciuto e copiato in tutto il mondo.

Milton Glaser è legato a Nuages da 30 anni, per le edizioni della galleria ha illustrato I fiori del male di Baudelaire e, appunti, Il Purgatorio di Dante Alighieri.

Maestosa conclusione del viaggio del Poeta nell’Aldilà, sfolgorante esempio di poesia in grado di esprimere l’inesprimibile, il Paradiso stupisce ancora oggi per le invenzioni linguistiche e la vertigine intellettuale in cui immerge il lettore. Nella sua ascesa attraverso i cieli dei beati, Dante diventa testimone dell’armonia perfetta che permea il Paradiso, arrivando a creare una lingua “trasumanata” per esprimere la bellezza assoluta dell’“Amor che move il sole e l’altre stelle”. Le magiche apparizioni che popolano le sfere celesti trovano qui un interprete d’eccezione in Moebius, maestro assoluto del fumetto contemporaneo, noto per le sue storie fantastiche e fantascientifiche, capace di tradurre l’estasi mistica della cantica nel susseguirsi di figure fantastiche e coreografie immaginifiche rappresentate dalle sue chine acquarellate. Moebius aveva lavorato alle scenografie di Alien, Tron, Il quinto elemento.

Di fronte al teologico, all’inconoscibile, al mistico, immobile e inafferrabile mondo celeste ha scelto di piegare la sua personalità alle regole già scritte della visione: “Gustave Dorè era la mia sola via d’accesso all’ombra portata dalla luce paradisiaca sfiorata dalla penna angelica dell’artista… ho appoggiato di nascosto la mia carta da ricalco” Le figure sono bagnate da ombre di luce sospinte da leggeri venti. Piccoli angeli si dispongono in formazioni danzanti creando figure diverse e più grandi. I colori sono diluiti e lucenti. Moebius rappresenta gli effetti speciali del paradiso in perfetta sintonia con Dante: ne visualizza la circolarità, i movimenti coreografici dei beati, ponendo l’accento sulla coralità e sulla loro fusione con Dio, attraverso la formazione di figure geometriche o immagini collettive di uccelli, croci e altre forme simboliche.

Per concludere ecco nel 2014 da Rizzoli Lizard Infierno! 2 di grande una grande coppia disneyana, e non solo, del fumetto italiano Silvia Ziche e Tito Faraci.

È un lavoro per sottrazione perché rinunciano ai baloons e alle parole per valorizzare al massimo la efficacia narrativa del fumetto come racconto per immagini. Ci raccontano le peripezie di due diavoli, che svolgono il ruolo di agenti speciali tra Terra e Inferno, ma anche tra Paradiso e Purgatorio. Infierno! 2 raccoglie il primo e ormai introvabile episodio e aggiunge una nuova storia, in cui i due diavoli sbirri e loro mascotte teratologica hanno a che fare con una provocante e sfuggevole anima femminile.

Anche il secondo episodio mantiene la premessa originaria, quella di non utilizzare balloon né didascalie di nessun tipo e lasciare parlare solo l’azione e la mimica dei personaggi. Faraci e la Ziche sono due narratori di prim’ordine che, attingendo all’esperienza di autori Disney, fondono commedia slapstick, giallo, satira politica e un pizzico di erotismo senza soluzione di continuità e soprattutto senza un attimo di respiro.

La sceneggiatura è stracolma di gag e colpi di scena ma gli autori non perdono mai di vista l’obiettivo di portare avanti le tragicomiche vicende. La Ziche ha un controllo notevole della tavola, alternando felicemente sequenze serrate a scorci terreni e ultraterreni, e impreziosendo il tutto con dettagli ed espressioni comiche dei personaggi.

Si ride molto ma a denti stretti e si finisce per parteggiare per i due (poveri) diavoli, alle prese con vittime inaspettatamente scaltre, che scoprono altarini di ogni tipo, svelando che aldilà e aldiquà hanno molto in comune.

Trame – I mille fili dell’arte tessile

«Il mio cucire ha più merito degli scarabocchi di entrambi voi» sorride canzonandoli Fanny Brawne, musa ispiratrice del poeta inglese Keaton, rivolgendosi all’amato che la dileggia per le sue “opre femminili”. La scena appare nel film di Jane Campion Bright star dedicato alla tragica esistenza del poeta romantico inglese ed è un vero saggio (fra comunanza e forza metaforica) di ricamo e parola poetica

Non a caso la pellicola si apre con il primissimo piano di un ago che esce ed entra in una stoffa bianca e finisce con un’immagine speculare, un altro ago che penetra una stoffa nera. Fra i due aghi passano gli anni e irrompe la morte, perché John Keats muore a Roma, a soli 26 anni, il 23 febbraio del 1821. La ricerca della parola poetica di Keats crea la trama su cui Fanny ricama ossessivamente mentre lei si tramuta in anima e musa del poeta, spesso immersa in un brulichio poetico di farfalle, la rappresentazione grecadella psiche.

A Giulia Niccolai, cofondatrice della rivista Tam Tam assieme ad Adriano Spatola nel 1972, legatasi successivamente alla poesia concreta e visiva, sono bastati cinque rocchetti di filo rimbaudiano, uno rosso, gli altri blu, verde, giallo e nero tratteggiati a pastello su un foglio da disegn,, ma dalle cui spolette disegnate escono fili veri , per intrecciare la parola poema. È un’opera del 1974 e il filo si lega nuovamente alla parola poetica, certo con lo scarto semantico di finti fusi di filato solo dipinto, ma queste pure forme, con la presenza vivida di legami, rimandano alla traccia antica del filato e delle storie che si dipanano o ci confondono.

Forse che Ulisse si sia fermato a Ulassai in Sardegna? Maria Lai (1919-2013) è un’artista sarda, asciutta, caparbia, carismatica, senza veli. Proprio lei, che riprende a tessere e sprigiona nella gentilezza della forma delle sue opere una forza mitica e sorgiva, deve aver sentito voci di sirene e le ha trascritte nei suoi Libri cuciti, pagine nate fra gli anni ‘70 e riprese nei ‘90, tutte impunturate di fili che trasbordano come onde, code fuori dai margini, grovigli di storie che scivolano via.  Nei suoi Percorsi di invenzione Maria Corti narra come Ulisse si sarebbe rimesso in mare dopo aver domato i Proci a Itaca, come gli aveva profetizzato l’Indovino Tiresia nell’XI libro dell’Odissea:

«quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,/o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,/allora parti, prendendo il maneggevole remo ». Ed ecco che le nuove strade di Odisseo sulle tracce dell’antica via Herakleia portano anche in Sardegna, in un percorso tramato di invenzione che Maria Lai ha trascritto nella lingua dei fili magari, quelli delle barbe di bisso che solo in Sardegna ancora si filano, lunghi filamenti di grandi valve immerse nel mare.

Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi
Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm, foto: pierluigi dessì/confini visivi

Se Pontiggia nei Contemporanei del futuro afferma che i classici non sono alle nostre spalle, ma davanti a noi, che li si deve ancora raggiungere, anche la ricerca di Maria Lai ha avuto il passato come futuro: dai Ready-made del telaio, dal pane carasau, alle arti di ricamo e tessuti del passato arcaico sardo, dall’antico gesto della tessitura agli interventi ambientali. Tutti modi di «fare i conti con le madri » scrive Vanna Romualdi in Off Loom, un testo dedicato alle mostre della Fiber Art in Itali. E prosegue: «Aspetti che passano attraverso un sistema di cura e attenzione e pongono il fare al centro di relazioni essenziali con la memoria, la natura il tempo». Implacabile destino questo del tessere: all’inizio doveva ottemperare a requisiti di robustezza e leggerezza creato dall’arma femminile delle maglie, del colpo di spola che unisce madri e progenie come un cordone ombelicale, una tradizione che si annoda e si snoda nel tempo. Poi nel 900 tutte queste trame sviluppano lentamente una dimensione estetica.

Fili, intrecci, reti e nodi, ricami e uncinetti, tessuti e fibre, storie antiche del filare e la Berta che sempre filava, diventano materia e soggetto d’arte.

Certo sdoganare il manufatto per connotarlo come creazione artistica è stato un percorso difficile, soprattutto in Italia, per il pregio del suo tessile come arte applicata.

Dove finisce l’artigianato e dove comincia l’arte? È la domanda quasi ossessiva che si ripresenta fra gli studiosi della Fiber art o Textile art, Soft sculpture, Art fabric: «tutti nomi inglesi che non hanno ancora trovato una soddisfacente traduzione nella lingua italiana» , come scrive Lydia Predominato , artista che combatte il pregiudizio contro la manualità della Fiber art . L’artista è anche una delle promotrici con Bianca Cimotti Lami della prima mostra italiana di Off Loom, Fuori dal telaio nel 2000 e poi delle Biennali della Fiber Art di Ameglia.

Rompere resistenze culturali. Già la strada veniva dissodata nella «seconda metà dell’800 con il movimento inglese Arts and Crafts, proseguito con l’Art Noveau e, soprattutto, con le avanguardie del ‘900, Futurismo e Bauhaus in primis, Espressionismo astratto americano». I tessuti di Depero, il suo Arazzo festa 25, ritagli di pannolenci cuciti secondo un disegno dell’artista, narrazione quasi ludica di episodi bellici e il vestito antineutrale di Giacomo Balla. L’Arazzo dei leoni di Cambellotti, i tessuti di Mariano Fortuny e Gio Ponti che interviene nel sostenere il tessile come arte.

E poi i Sacchi di Alberto Burri, le tele tagliate di Lucio Fontana e i feltri di Joseph Beuys: l’artista –sciamano racconta che il feltro è per lui il tessuto dal potere salvifico che lo ha restituito alla vita. Ferito gravemente durante la seconda guerra mondiale, viene salvato da una tribù di Tartari che lo raccolgono morente e lo avvoltolano in un panno di feltro, spalmato di grasso. Feltro e grasso ricompaiono in decine di sue performance.

Nel 1958 al Moma di New York si allestisce la mostra Textile Usa. Per la nuova progettazione tessile.

La storia italiana nella genesi del movimento della Fiber Art procede a punti lenti e ha un momento nodale nella Biennale Internationale de la Tapisserie Ancienne et Moderne di Losanna, progettata dall’ artista-arazziere Jean Lurçat con Pierre Pauli. Nascono opere tessili, Trame d’artista, riprendendo il titolo di un libro critico informatissimo di Marina Giordano sul tessuto nell’arte contemporanea. Si va alla ricerca di quello scarto emblematico che rende unico l’operato tessile dell’artista rispetto alla creazione dell’utile. Ma anche in questo tentativo di trovare i profili di opera d’ arte diversi dal prodotto di artigianato la pezza della fiber art si trova imbastita con la grande corrente del design.

Marisa Merz – Senza titolo - s.d.
Marisa Merz – Senza titolo – s.d.

La diffusione del tessile si capillarizza nella seconda metà del Novecento, rinverdisce linguaggi anche sulla spinta italiana dell’Arte Povera che rivaluta i materiali e  gesti artigianali poveri come il fare la maglia, ma con quale nuovo empito: Marisa Merz sferruzza,  filo certo, ma di rame: dalle sue mani nascono reti modulate in tasselli geometrici , trapezoidali o triangolari disposti ad esempio in forma crescente l’uno dentro nell’altro secondo rapporti matematici,  in una progressione essenziale, primordiale. O utilizza matasse di canapa che pendono come lunghi capelli su una rete metallica, sorta di scalpi galleggianti, elementi naturali e astratti, richiamo ad un troppo umano e al suo esser perduto.

Marisa Merz - Untitled, 1966 - Wire mesh and hemp
Marisa Merz – Untitled, 1966 – Wire mesh and hemp

Il medium tessile con gli anni 70/80 è sdoganato e si possono individuare alcune linee cruciali del rapporto tra le pratiche contemporanee e le tecniche del filo. Permane la memoria del tessere e ricamare, quella della tradizione lenta e rigorosa associate a Penelope o Creusa, tutte fuso e focolare domestico. Ma questo filare e cucire è sottoposto a un fitto interrogarsi sull’ “art and craft” :  ecco  il  ricamo maniacale di Francesco Vezzoli , “l’artista delle lacrime” . Si è divertito, con un certo sadismo, a far piangere le sue dive, lacrime sincere nel deserto dell’apparire, ricamate in colori pastello su foto in mortuario bianco e nero. Vezzoli ricama con perizia artigianale, per chi ha visto nel taglio e cucito un riscatto per quelle pratiche basse, di femminea quotidianità, un riscatto nei confronti di un’arte maschile troppo sicura di sé.

Ma c’è chi ha fatto del ricamo tradizionale con macchina da cucire un percorso sapiente per dare ascolto ai tessuti, alla loro anima tattile. Nessun richiamo alla pittura in Marialuisa Sponga, anima della Fiber Art italiana, da poco scomparsa. Forte controllo formale e la macchina che ricama assemblando non solo materie, stoffe della tradizione, ma si espande al polietilene, al cellophane, a metalli, reti, assemblaggi con punti antichi, affermando una nuova estetica tattile e visiva.

Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003
Francesco Vezzoli Le Collier De Larmes (Ritratto di Capucine in Nero) 2003

Altri artisti hanno prediletto l’uso della forma purissima delle fibre. In un lavoro che sfida la percezione Gabriel Dawe, artista messicano, crea spiazzanti arcobaleni indoor, spettri nati da un’apparente visione prismatica di un raggio di sole, confinato entro le quattro mura di uno spazio della galleria. Da vicino, i trucchi dell’artista si rivelano. L’opera d’arte è fatta di ordinari fili da ricamo agganciato dal pavimento al soffitto in sovrapposizioni replicazioni e variazioni cromatiche. Una perizia artigianale altissima quella di Dawe che crea, come in un miraggio, un’illusione ottica che incanta i sensi, distorcendo le percezioni; è quasi come se l’artista ricamasse l’aria.

Gabriel Dawe
Gabriel Dawe

E ancora fili che diventano ossessivi, intricati, spesso rossi di un magenta da vasi sanguigni o all’opposto così inchiostrati come quelle ragnatele pendule dei bui sottopassi sono quelli di Chiharu Shiota, giapponese trapiantata a Berlino. Certo i suoi sono fili di ragno e rappresentano un risorgente mito di Aracne, la giovane fanciulla che sfidata a duello la dea Atena per la creazione di una tela perfetta, ne viene punita e trasformata in grosso ragno. L’impressione a Venezia, all’ultima Biennale, visitando nel padiglione giapponese l’installazione di Chiharu Shiota, era quella di immergersi nel rosso viscoso dei fili penduli e molli, dai quali sgocciolavano chiavi che l’artista si è fatta spedire da tutto il mondo. Sotto, due imbarcazioni derelitte, carcasse che mai avrebbero riportato i proprietari di quelle chiavi ad un loro porto o posto sicuro. Patria ricordi sentimenti vita e anime si sarebbero imbozzolate e perdute.

Chiharu Shiota - The Key in the Hand - Biennale di Venezia 2015
Chiharu Shiota – The Key in the Hand – Biennale di Venezia 2015

Ci possono essere ragnatele salvifiche? Secondo alcuni aracnologi, i ragni usano riferimenti astronomici come coordinate per tessere le tele, come la posizione della Luna o la polarizzazione della luce nel cielo. Gli astrofisici hanno individuato un collegamento tra le ragnatele e l’origine dell’universo e Tomas Saraceno, artista argentino che crea architetture utopiche, vagabondando tra le teorie sulla genesi delle galassie e la logica di crescita delle ragnatele, ha ideato un’installazione dal titolo 14 Billlions (2010) dove ha digitalizzato, ricostruito e rielaborato una ragnatala tridimensionale in una tessitura spaziale fatta di fili neri di nylon, immersa in un flou visivo e bioacustico. La costruzione ragnesca nasce da un’ibridazione fra la logica costruttiva di una vedova nera e quella di una tegenaria, sovrapposte e ribaltate in una specie d’intersezione galattica. Il tutto immerso in una stanza lattiginosa, che dilata lo spazio. La ragnatela sembra essere tanto scolpita quanto disegnata nell’aria e gli spettatori possono entrare dentro, strisciando sotto i fili, a … rivedere le stelle.

Photo credits: catalogo della mostra 14 Billions (Working Title), Skira, Milano 2011

Io ti salverò, o scuola!

Cosa accadde quando decisi di smettere d’insegnare a scuola con mio grande rammarico, segnando così un’altra sconfitta nella mia vita da intellettuale.

Ma le delusioni e le sconfitte a metà del cammino della mia vita, dopo quasi un decennio del secondo millennio cristiano, si accumularono nel giro di pochi anni. Un giorno, mentre parlavo con un professore universitario in pensione, mi arrivò una telefonata. Era la scuola. Mi ero dimenticato di essere iscritto nelle liste delle supplenze sia per le medie che per le medie superiori. Così, per una settimana, avrei dovuto insegnare italiano in una classe di seconda media di una scuola cittadina. A cinque minuti da dove lavoravo. Mi sembrava una chiamata del destino. Non potevo dire di no all’occasione di tornare a insegnare, per almeno una settimana. Poche ore in tutto. Il fatto mi divertiva. La scuola era vicino, così accettai. Finalmente avrei toccato con mano come andava la scuola italiana, primo motore di un paese colto, economicamente e moralmente all’avanguardia come il nostro. E le sorprese furono importanti per il mio morale.

Cuore
Cuore

Gli avrei letto un racconto come Lo specchio deformante di Čechov, uno dei miei cavalli di battaglia con cui avrei fatto capire la mia passione per la scrittura e il leggere. Pensai di innovare il modo di fare lezione con le lavagne elettroniche, di preparare testi e immagini, per proporre ai ragazzi una didattica interattiva, moderna, degna di una scuola all’avanguardia, usando la televisione, la pubblicità e i giornali come strumenti didattici. Dopo poco meno di mezz’ora mi ritrovai di fronte a una classe incontrollabile di ragazzi che urlavano come pazzi, agitati, al limite della schizofrenia. C’era un gruppo di cinque bravi relegati in un angolo della classe, spauriti, muti e rassegnati, e due iperattivi, uno dei quali per salutarmi fece un paio di capriole per terra davanti a me, facendo ridere la classe intera. La metà erano extracomunitari che non conoscevano l’italiano, tra un marocchino un po’ svanito che non capiva ancora dove fosse capitato ormai da qualche mese, due ucraini, un russo, e un egiziano ammutoliti. Il più grande tra loro era un bosniaco ciccione, ripetente con la testa rasata che mi guardava torvo, probabile figlio di qualche guerrigliero della guerra serbo-croata della metà anni novanta. Infine c’erano due ragazzine dislessiche con gravi ritardi non solo nella comprensione del testo che mi mettevano molta tenerezza. Dopo mezz’ora di fatica presi il libro di Čechov e tra mille «Stai zitto!» «Restituisci la merenda!» «Sì, vai pure in bagno!» «Lascia stare la tua compagna di banco!», «Alzati! «Non tormentare la tua vicina, per piacere!» riuscii finalmente a trovare un po’ di calma e concentrazione.

Stavo finendo di leggere la prima pagina quando entrò in classe urlando un ragazzo autistico che picchiava una sedia, con tanto d’insegnante d’accompagnamento che lo inseguiva correndo. Si avvicinò  pericolosamente verso la finestra cercando di buttarsi giù nel cortile. Lo afferrai insieme alla professoressa di sostegno che ridendo mi disse: «Ma sa, fa sempre così! Non capisce niente, io cerco di tenerlo ma è difficile anche farlo star buono in classeª.

Ero sconvolto. Non riuscivo a capire dove avevo sbagliato o dov’ero finito, quindi il giorno dopo entrai in classe, mi appoggiai alla scrivania e aspettai guardandoli in silenzio. Il ciccione bosniaco cominciò a dare pugni alla spalla della sua compagna di banco, la ragazzina dislessica. Allora mi avvicinai, lo sollevai di peso insieme al banco, mettendolo in un angolo della stanza, e gli dissi con un sorrisino minaccioso: «Appena ti muovi o alzi la mano, io vengo qui e ti do indietro quello che hai appena fatto alla tua compagna!»

Ci fu subito un gran silenzio.

Quando entrò un ragazzo universitario, che aveva mandato la presidenza come osservatore psicologico per i due iperattivi che avevano aumentato le loro capriole per mettersi in mostra a quel giovane imberbe, lo presi per il colletto e senza nemmeno dargli tempo di entrare e parlare, lo buttai fuori dicendo che lì comandavo io e non c’erano psicologi del cazzo che venivano nella mia classe.

Si erano tutti zittiti. Poi presi il libro di epica e cominciai, in un grande silenzio, a leggere l’Odissea, Polifemo che si mangia i compagni di Ulisse, e feci vedere come strappava i corpi con un pezzo di torta salata rubata senza chiedere il permesso da sotto il banco ad uno dei due iperattivi che si guardò bene dal rispondere o dal protestare per il mio ladrocinio.

Nel giro di un’ora li avevo tutti sotto controllo, fino a quando non entrò il bambino autistico che portò di nuovo scompiglio, urlando, picchiando il tavolo e la seggiola con una violenza a cui decisi di non opporre resistenza.

Parlai col preside, denunciando che la presenza del bambino autistico era assolutamente sbagliata, che per lui ci volevano strutture adeguate, e che metterlo in una classe come quella era controproducente per tutti. E questo, sottolineai, per colpa di una scuola imbecille, incapace d’intendere che esere democraticamente aperta a tutti non voleva dire mescolare tutti in uno zoo. CosÏ i dislessici e gli extracomunitari avevano bisogno di un aiuto per recuperare alla svelta. Protestai vivamente e il povero preside mi guardò con gli occhi rassegnati, come per dire di lasciar stare, di non infervorarmi troppo per quei disgraziati, sia normali che autistici o semideficienti. «Cosa vuole che facciano nella vita. Sono la maggior parte figli di disgraziati. Non pretenderà di cambiare il mondo della scuola dopo un giorno di supplenza?»

Protestai, dissi che ci voleva un’altra insegnante di sostegno perché quella era un’incapace, che diceva cose tremende contro il ragazzo in sua presenza.

«Ma guardi che capisce tutto!» dissi alla donna. Era una quarantacinquenne, napoletana, che non avendo voglia di insegnare, si era data al sostegno.

«Ma cosa vuole che capisca, E’ autistico! La sua famiglia è esasperata dalla sua presenza: ce l’ha in casa tutto il giorno. Non dormono più perché urla e corre anche di notte, buttando tutto all’aria. Suo fratello, che era normale, ha dato segni di autolesionismo e convulsioni per colpa sua. Stress emotivi. Capisce, un figlio così è una disgrazia». E lo diceva mentre teneva per mano il ragazzo chiuso in una stanza tutta imbottita di materassi in quella scuola all’avanguardia nel trattamento dei ragazzi autistici. Il tutto aveva l’aspetto di un ring di pugilato.

Pensai che il sostegno ci voleva per lei più che per l’autistico e glielo feci capire, tanto che per un’intera settimana il ragazzo entrò solo una volta sbattendo la sedia.

In classe la soglia di attenzione dei ragazzi era ridotta a cinque, dieci minuti al massimo, poi saltava per aria tutto, con risa, gridolini e lotte, e  riprendere la loro attenzione era sempre più difficile.

Alla fine della settimana cercai di far recuperare gli stranieri assegnando dei grandi esercizi di copiatura da testi italiani, con l’idea di un vocabolarietto personale dove accanto alla parola scritta in italiano si doveva anche stilizzare un disegnino e la parola nella loro lingua madre. Per i dislessici inventai un esercizio di copiatura e di lettura di testi facili e umoristici molto brevi; infine, per i bravi, cominciai a far leggere in fotocopia racconti assolutamente nuovi, per invogliarli ad andare avanti più velocemente nel programma. Era una didattica diversificata che non portò, in breve, nessun beneficio, ma solo col tempo avrei risolto qualcosa: ero il supplente e il supplente sta solo una settimana che spesso si considera di vacanza. Ma con me, dopo aver fatto capire chi comandava, erano stati bravi e li premiai, come avevo promesso loro, con l’ultima ora della settimana in giardino, all’aperto.

Presero tutti la sedia e si sedettero in circolo. La mia presenza attirò l’attenzione di alcuni insegnanti, tra cui una che seguiva un ragazzo down, Matteo, serissimo.

«Non ha chiesto il permesso al preside. Queste cose non si fanno. Non si portano fuori i ragazzi senza permesso» disse l’insegnante di sostegno.

Senza risponderle la guardai come si guarda un cane schiacciato da una macchina.

«Le responsabilità sono sue se accade qualcosa!»

«Non me ne frega un bel niente!» risposi sorridente. Dovevo avere una faccia da schiaffi.

Raccontammo insieme quello che era accaduto nella caverna di Polifemo e avrei letto la vendetta di Ulisse che avrebbe dichiarato il suo nome al gigante accecato, scatenando le ire degli dei. Per mezz’ora tutti mi seguirono con grande partecipazione. Nell’aria calda della primavera, all’ombra di un albero, riuscii a fare finalmente lezione. Poi accadde di tutto. Prima si alzò l’autistico che si avvicinò a me, fece come tre salti di gioia dentro al cerchio delle seggiole, si avvicinò toccandomi le labbra con le dita e poi cominciò ad urlare saltando. Io restai come di sasso per quel gesto che valeva mille ringraziamenti. Poi all’improvviso, in un momento di silenzio, mentre parlavo di Nessuno che urlava contro Polifemo che aveva cominciato a tirare i suoi enormi pietroni in mare, il ragazzo down lasciò andare un’immensa scoreggia che fece ridere tutti. «Matteo ha scoreggiato!», ´Oh, Matteo, che puzza!».

L’insegnante mi guardò sorridendo imbarazzata per lui. Anch’io scoppiai a ridere di fronte alla faccia serissima di Matteo che non si era minimamente scomposto. Quello era il segno che aspettavo, un’immensa scoreggia al mio destino di insegnante da parte di un bambino down, la cui faccia serissima definiva perfettamente la gravità del segno divino come il tuono di Zeus sulla mia testa. Un monito sacro. E lì capii. Così si chiudeva la mia carriera scolastica d’insegnante, e quando mi chiamarono per aver vinto tre concorsi per le elementari, medie e superiori, rinunciai a tutte e tre le cattedre perché non ero nato per fare l’assistente sociale, rinunciando così, da pazzo, al posto statale, sicuro per una vita.

Il suono che tramonta (e il tarabuso dice la sua)

A mo’ di introduzione – L’invito di THE LIVINGSTONE a scrivere degli interventi di argomento musicale mi spinge a seguire le orme del grande esploratore. Per un musicista, esplorare vuol dire chiedersi di cosa sono capaci i suoni: di raccontare? di ridere? di piangere? di camminare? di sorprendere? di ingannare? forse anche di tramontare? Per i lettori di questo blog, spero che esplorare possa significare la scoperta di musiche nuove, su cui di volta in volta farò di tutto per accendere la curiosità. Per non esser troppo solo, scelgo dei compagni di viaggio: ad accompagnarmi saranno i Peanuts, l’alfa e l’omega dell’umana saggezza.

Peanuts, compleanno di Beethoven 1994. Lucy porta la torta, Sally la paletta per tagliarla, Schroeder se ne esce con un «wow!» di ammirazione. Sulla destra, Woodstock e Snoopy confabulano. Woodstock fa una domanda, e come sempre son solo trattini verticali messi uno dopo l’altro, seguiti da un punto interrogativo. Snoopy gli risponde «Musica per uccelli? No, Beethoven non ha mai scritto musica per uccelli».
Verrebbe da smentire Snoopy (e Schulz) ricordandogli il celebre passo ornitologico nel secondo movimento della Sesta sinfonia. Ma può ben darsi che pure Schulz lo conoscesse. In effetti, una musica che mima il canto degli uccelli è perciò stesso «musica per uccelli»?
Lasciando irrisolta la questione se di queste musiche possano fruire in maniera consona anche le creature alate, di musiche che in un modo o nell’altro fanno riferimento al canto degli uccelli ce n’è parecchie, anche al di là di Beethoven. Si pensi, fermandoci alla sola letteratura per tastiera, a François Couperin (1668–1773), che con tono brillante ritrae Le rossignol en amour [L’usignolo in amore], La linotte effarouchée [Il fringuello impaurito], Les fauvettes plaintives [I passeri lamentosi] e Le rossignol vainqueur [L’usignolo vincitore]; brevi pagine da leggere anche come giochi di società, dediche e divertissements. Si pensi poi a Vogel als Prophet [L’uccello profeta] dalle Waldszenen [Scene del bosco] di Robert Schumann (1810–1856). O alle trame simboliste di Maurice Ravel (1875–1937) e dei suoi Oiseaux tristes [Uccelli tristi], estratti dal ciclo Miroirs [Specchi]: il richiamo degli uccelli, a volte irrigidito nella ripetizione di una sola nota, altre volte sciolto in un melodizzare sinuoso, ha in sé la sacralità delle cose che giungono dall’altrove.

Olivier Messiaen - Catalogue d'Oiseaux
Olivier Messiaen – Catalogue d’Oiseaux

Ma si pensi soprattutto a Olivier Messiaen (1908–1992) e a tutta la sua produzione, in cui così largo spazio ha la voce degli uccelli, incantate creature che vivono un’esistenza intermedia fra terra e cielo, mimando la perenne tensione umana verso la trascendenza. In particolare, lo sterminato ciclo del Catalogue d’oiseaux [Catalogo d’uccelli] per pianoforte. E in particolare il cuore della raccolta, il brano più ampio (mezz’ora circa di musica), il capolavoro: La rousserolle effarvatte [La cannaiola].
Come in tutti gli altri brani del Catalogo d’uccelli, vi è qui un uccello protagonista, la cannaiola: piumaggio bruno uniforme – segni particolari, loquacissimo. Ma ci sono pure tutti i suoi colleghi: merlo, averla, codirosso spazzacamino, fagiano, migliarino di palude, picchio verde, storno, cinciallegra, batticoda, forapaglie, forapaglie macchiettato, cannareccione, gabbiano, folaga, allodola, porciglione, usignolo.
In ogni brano del Catalogo d’uccelli, viene ricostruito un vero habitat naturale: qui, si tratta di uno stagno (e la «musica degli stagni» apre e chiude, circolarmente, il brano). In tutti i brani del Catalogo la musica “racconta” anche il tempo che passa e le ore della giornata: qui, un’intera giornata dalla mezzanotte alla mezzanotte (e oltre), passando attraverso notte fonda, alba, meriggio, tramonto e di nuovo notte fonda. La «solennità della notte», così la chiama Messiaen, è un terribile rintocco di gong nel registro grave del pianoforte. Il meriggio è l’interminabile (interminabile!) suono uniforme del forapaglie macchiettato, una specie di acutissimo frinire d’insetto: «la stanchezza della natura sotto il sole». Il tempo si ferma, il mezzogiorno è una scheggia di eternità.
E poi, alba e tramonto, scene madri del pezzo. Curiosa e quasi incomprensibile, questa cosa della musica che “racconta”, “descrive”. Sappiamo che i suoni sono senza significati, questo almeno nel senso in cui la parola «matita», nel ben più esplicito linguaggio verbale, significa quell’oggetto lì, con la punta, che serve per scrivere. Al di fuori di un contesto culturale, una combinazione di suoni non è una notte, non è una ninfea, non è un tramonto. Non è nemmeno semplice chiarire perché, col procedere dei suoni verso il registro acuto, si ha la sensazione che salgano, e col loro procedere verso il registro grave si ha la sensazione che scendano. Qualcosa fra suggestione culturale e psicologia cognitiva, che diamo di solito per scontata.

Sta di fatto che nella scena dell’alba della Rousserolle gli accordi che accompagnano il canto salgono salgono salgono e ancora salgono. Mentre nella scena del tramonto scendono scendono scendono e ancora scendono. L’alba sveglia gli uccelli (la protagonista già vegliava e già loquacemente si era espressa). Durante il tramonto, invece, gli uccelli tacciono. Tutti tranne uno: il tarabuso.
Il pianista non ornitologo, in procinto di eseguire il brano, fa ricerche, trova online un documentario su questo strano airone deforme e scopre il suo carattere schivo. Scopre che gli etologi, per rintracciarlo, devono esercitare l’arte della pazienza e solo a fatica, con tutto un armamentario di antenne e microfoni, riescono a catturare da lontano e soffocato il suo richiamo cupo ed elementare, quasi di colombo: «ù-ùuuuu, ù-ùuuuu». Ma per nulla lontano, né soffocato, è questo richiamo nella Rousserolle, bensì più che fortissimo, con l’indicazione «muggito». Il tarabuso è il mostro nella notte, quella che c’è e quella che si annuncia.
Mentre i suoni stanno tramontando (gli accordi scendono scendono), a un certo punto, il tarabuso eccolo che prende a muggire. I suoni sono passati da rossi e viola con riflessi arancio (Messiaen i colori dei suoni li vedeva per davvero, non si tratta di una metafora) a viola con riflessi dorati. Il tarabuso muggisce ancora. L’ascoltatore, in un capolavoro di sinestesia, vede con terribile evidenza il sole che scende, fino a toccare l’orizzonte. Gli accordi scendono ancora. Il sole scompare.
L’usignolo, brutale, interrompe il silenzio e l’ascoltatore rifiata, uscendo dal sortilegio.
Non per molto, però: accade l’imprevisto, inesplicabile. Dopo pochi secondi, eccoli lì, ritornano gli accordi del tramonto. Perché? Ci eravamo sbagliati? Il sole non era scomparso dietro l’orizzonte? Il precario sistema di significati di cui ci siamo resi complici era tutto un’illusione?
No: il sole è davvero scomparso, prova ne è che questi inesplicabili accordi ricominciano da un po’ prima, da quando il sole era un po’ più su all’orizzonte. E dunque?
La soluzione dell’enigma è in partitura. In prossimità di quel passo, Messiaen scrive: «ricordo del tramonto». Già, quasi dimenticavamo che di fronte a questa scena c’è qualcuno che la guarda, che la vive e per il quale pure trascorre il tempo. Ma con uno strumento che ha del magico, la memoria, costui può forse revocarlo, il tempo.
A questo punto non stupisce nemmeno più l’ultimo dettaglio della sorpresa: il ricordo, anziché essere un’eco sbiadita, è più forte del tramonto vero e proprio. Forte crescendo a fortissimo, scrive Messiaen, ma non sapremmo rimproverare un’interprete che lasciasse esplodere il suono del ricordo ben oltre il normale fortissimo.
È cosa specificamente umana. Le cose sono talvolta ancora più forti nel ricordo, nella loro assenza (ne attendiamo il ritorno?) rispetto a quando le abbiamo vissute.

Indicazione per l’ascolto de La Rousserolle effarvatte di Olivier Messiaen (pianista, Yvonne Loriod) e una specie di mappa (incompleta, ché altrimenti non c’è più avventura) per l’esplorazione:

0’00’’ Notte
5’05’’ Alba
9’25’’ Meriggio
19’35’’ Tramonto
23’45’’ Ricordo del tramonto
24’22’’ Notte

Ben-Hur, un’avventura italiana

PRELUDIO

Riecheggiano nel web le urla feroci di chi non ha visto neanche il film con Charlton Heston, ma ha già piantato unghie e denti sul nuovo Ben-Hur, dilaniandolo in mille pezzi ancor prima che sia stato proiettato nelle sale. Questo remake non s’aveva da fare, non si può distruggere così la memoria del suo illustre precedente girato in Italia negli anni ’50, uscito ai tempi del glorioso Technicolor e dell’eccezionale e costosissimo Ultra Panavision. Quello che però sfugge ai fanboys – nell’Era di Facebook e del sempiterno revival del 3D – è che la celeberrima versione del 1959 era già un remake di un remake.

Prima della dentatura da squalo di Charlton Heston vi è stata la grazia messicana del Ramon Novarro (uno dei primissimi attori a fare coming out in un’epoca in cui questo significava la certezza quasi matematica di perdere ogni privilegio a Hollywood) nel Ben-Hur del 1925, quello veramente avanguardistico e straordinario, che a sua volta era un remake gonfiato e ampliato della versione del 1907 con William S. Hart, il quale sarebbe diventato negli anni ’10 icona western del periodo muto americano. Quest’ultima piccola produzione era uno sperimentale adattamento cinematografico della trionfale trasposizione teatrale del romanzo del Generale Lew Wallace.

Ben-Hur (1959)
Ben-Hur (1959)

Una parentesi che più di Ben-Hur meriterebbe un film: Wallace è stato il Governatore del New Mexico che nel 1879 spinse Billy the Kid a fare da informatore indicando i colpevoli dell’omicidio Chapman in cambio del “perdono per ogni crimine commesso”; il pistolero testimoniò, ma il procuratore distrettuale locale si rifiutò di onorare la promessa fatta da Wallace. Billy the Kid allora fuggì dal carcere, il resto è leggenda.

Quarant’anni dopo la morte del Kid, nel 1925, il romanzo di Wallace approdò per la seconda volta a Hollywood, e per la prima volta in Italia.

 

VIAGGIO IN ITALIA

Dopo dispute tra le major hollywoodiane, i diritti per la realizzazione sul grande schermo di Ben-Hur vengono acquisiti dalla MGM, che nel 1922 decide di fare il più grande film di tutti i tempi. L’Italia viene scelta come terra di conquista, soprattutto per approfittare dei bassissimi costi locali del lavoro.

Hollywood, che mette in scena le avventure dell’eroe carismatico, non poteva non apprezzare Benito Mussolini, leader carismatico weberiano ed equivalente politico di Douglas Fairbanks. Pugno di ferro e randellate come nei film di cappa e spada e un faccione indimenticabile. Mussolini è in prima linea per offrire agli americani tutto l’aiuto di cui hanno bisogno per la realizzazione di Ben-Hur, salvo poi salire sul cavallo matto quando scopre quanto siano pagate le maestranze hollywoodiane rispetto ai salari erogati da questi alla manovalanza italiana. Vecchio socialista, il Duce si offende a tal punto da orchestrare una serie di contro-movimenti popolari e cavalcare (dopo averlo lui stesso creato) un malumore, tra i carpentieri assunti per la costruzione degli immensi set, che si concretizza in una serie di scioperi che aumentano ancor di più i ritardi sulla tabella di marcia del film. Quando però alcuni operai, che stanno lavorando a Ben-Hur, scioperano per rendere omaggio alla salma di Giacomo Matteotti, assassinato nel giugno del 1924, Mussolini manda un gruppo di camicie nere in modalità spedizione punitiva a spaccar  loro le ossa.

I produttori di Ben-Hur vogliono costruire una copia del Circo Massimo e della Porta di Giaffa poco fuori da Porta San Giovanni a Roma. Vengono assunti in centinaia per completare questi lavori in sette settimane, ma dopo sette mesi le monumentali opere di gesso e cartapesta sono ancora lontane dall’essere completate. Il motivo di questo rallentamento costante è dovuto, come si è già detto, a scioperi. Mussolini prende alla lettera il suo celeberrimo motto “La cinematografia è l’arma più forte” e la ribalta a suo favore, conficcando nel costato della MGM una lama per provocare una lenta emorragia in termini economici. Sostanzialmente, più tempo i lavoratori ci mettono a finire quei set, più a lungo possono lavorare. Così facendo, il Duce si prende gioco dei produttori hollywoodiani, obbligandoli a stare a questo gioco per quasi un anno. Dividendo in “squadre” i carpentieri è possibile far scioperare una settimana l’una, una settimana un’altra e così via. I problemi di disoccupazione si risolvono così anche ai tempi dell’Italia Fascista.

Ben-Hur (2016)
Ben-Hur (2016)

Nel frattempo Charles Brabin, che è ancora (per poco) al timone di Ben-Hur, prova a girare la scena della battaglia navale, ma si rende presto conto che gli  scioperi imperversano anche ad Anzio, nei cantieri navali. Dopo qualche settimana, che il cast tecnico trascorre sulle spiagge in attesa di procedere con le riprese, le imbarcazioni sono finalmente pronte e si può partire, ma sorgono tre problemi: due aggirabili e uno insormontabile. Le navi completate in ogni dettaglio, da prua a poppa sono solo tre e, per dare l’illusione di una flotta, le rimanenti vengono solo abbozzate di profilo e montate su delle zattere. Da lontano nessuno se ne può accorgere. L’altro problema sono le barchette dei pescatori, che incuriositi da tutto quel movimento, continuano ad avvicinarsi, rovinando una ripresa dopo l’altra. Ci sono dei motoscafi della produzione che con costanza intervengono a cacciarli via, ma è come tappare una falla con un dito perché i pescatori continuano a comparire da ogni lato. E questo è nulla in confronto alla mazzata che arriva quando le autorità portuali stabiliscono che le navi del film non sono né sicure né atte alla navigazione. Allora vengono rispedite nei porti d’origine per essere rese a norma, ma ciò non basta perché a quel punto viene concesso loro d’essere utilizzate solo se ancorate. Passino i pescatori che sbucano nell’inquadratura, ma è impossibile filmare una battaglia con delle navi perfettamente immobili. Bisogna ripartire da capo. Altro tempo, altri soldi, altri lidi. Ci si sposta a Livorno.

 

IN FONDO AL MAR

All’interno dell’epica attorno alla lavorazione di Ben-Hur, c’è un episodio che più di tutti assume toni horror. Per le riprese della battaglia navale, girata sulla costa livornese (dopo mesi sprecati sulla costa di Anzio e la sostituzione alla regia di Brabin, rimpiazzato da Fred Niblo), sono necessarie svariate centinaia di comparse e moltissimi italiani si presentano il giorno del “casting” che consiste in una semplice domanda: “Sai nuotare?” e se la risposta è positiva viene fornito loro un abito romano o da pirata, uno spadone e vengono spediti sulle navi. Le indicazioni del regista sono ancora più semplici “Datevele di santa ragione!”, orchestrando rozzamente una delle sequenze più iconiche del film, preludio di una tragedia reale che da lì a poco non si sarebbe soltanto sfiorata. Occorre però fare un passo indietro, alla chiamata sul set di quella gioventù italiana.

Il tasso di disoccupazione è talmente alto che migliaia di giovani si presentano per partecipare al film, molti dei quali mentono sul fatto di sapere veramente nuotare. Inoltre, il clima politico che si respira tra i figuranti è pesante, tra fascisti e anti-fascisti pronti a scannarsi a vicenda ad ogni istante. Un giorno Niblo, ispezionando una delle navi, trova una pila di vere spade nascoste sotto delle vele e scopre ben presto che le persone preposte al casting hanno diviso le comparse in fascisti (i romani) e anti-fascisti (i pirati). Se Niblo non se ne fosse accorto, nella baraonda qualcuno ci avrebbe rimesso la pelle sul serio. Terribile presagio.

Nel tumulto indicibile di quella battaglia navale, (e lo si nota quando si guarda il film) un incendio necessario per il film, spinto da un vento non preventivato, si propaga a tutta la trireme romana provocando il panico tra le comparse che o si buttano in mare o s’inginocchiano a pregare i santi delle loro terre. Francis X. Bushman, uno degli attori di punta del film e personaggio chiave dell’intera “Spedizione Ben-Hur” in Italia, dice al regista d’interrompere le riprese perché ci sono persone in acqua che stanno affogando. Niblo, con il fiatone della dirigenza della MGM che ha già perso milioni di dollari per un film ancora in alto mare, risponde che ognuna di quelle barche costa un’enormità e che per nessun motivo girerà ancora una volta quella scena.

La verità su quel che succede quel giorno non viene mai a galla: stando agli uffici del casting, a fine serata solo tre comparse non sono presenti all’appello, ma si fanno vive all’indomani dopo essere state recuperate da un peschereccio livornese, ancora vestite da centurioni romani, a reclamare il compenso e i loro vestiti civili. Circola però anche un’altra storia: uno degli assistenti alla regia sarebbe stato mandato di nascosto sopra una barca a remi, sul far della sera, a legare con catene e pesi gli eventuali vestiti e cadaveri galleggianti dove poche ore prima era stata girata la battaglia navale in modo tale da farli sparire definitivamente, facendoli così affondare e diventare tutt’uno col pavimento marino o cibo per pesci. Se così è stato, l’MGM è riuscita a occultare tutto, complice anche il fatto di essere in una terra straniera.

Torniamo un attimo a Francis X. Bushman, che da co-protagonista diventa investigatore di quello che succede dentro e fuori dal set. La sua importanza prima, durante e dopo le riprese del film è fondamentale per ricostruire il caos della realizzazione di Ben-Hur. A differenza di quasi tutte le altre personalità legate al film, i ricordi di Bushman sono i più crudi, cupi e truculenti e fanno emergere un’altra facciata dell’industria cinematografica dell’epoca.

Aggirandosi nei camerini, un paio di giorni dopo le riprese, Bushman chiede se tutto si sia risolto per il meglio, insomma se dopo la battaglia navale tutti son tornati a reclamare i loro abiti e a riconsegnare quelli usati per il film. L’addetto al guardaroba delle comparse è solenne nella sua risposta: “Ah, mancano molti costumi …”.

 

EPILOGO: MUSSOLINI S’ARRABBIA

Ben-Hur lo conosciamo tutti, una storia di vendetta e perdono, rivincita e sentimento, su cui aleggia la figura di Gesù Cristo che, come un fantasmino, compare e scompare senza mai farsi vedere in volto. Quando Mussolini finalmente vede il film va su tutte le furie, inizia a sbraitare e assieme a lui iniziano ad abbaiare anche i fedelissimi che gli stanno attorno. “È una vergogna! Gli americani c’hanno gabbati!”. Il Duce si è immaginato tutt’altro, si è girato un film nella testa che non corrisponde a quello su pellicola. Lui era convinto che il romano Messala (interpretato da Francis X. Bushman, la nostra guida per questa storia) avrebbe vinto la corsa e sarebbe stato l’eroe. Quando vede che non solo Messala muore miseramente schiacciato sotto il peso dei cavalli e delle bighe, ma che l’eroe e vero protagonista del film è Ben-Hur, un ebreo a cui capita pure di diventare schiavo, Mussolini impazzisce e censura il film. Forse gli bastava soffermarsi sul titolo del film o leggere una sinossi per capire di cosa si trattava. Ad ogni modo, nessun italiano deve vedere un tale scempio, è un’onta che va lavata col sangue. Manganelli agitati in aria e tanto rumore per nulla.

Ritrovare Europa

L’Europa è legata al Mediterraneo, io credo, nel senso che l’Europa è un luogo del Mediterraneo. Ma il Mediterraneo è un luogo dai confini incerti. Chi lo vuole stretto fra i Dardenelli e le Colonne d’Ercole vive nell’economia organicistica del potere, senza avvertire l’estensione dell’apparato psichico. L’organicismo risponde così alla logica religiosa del discorso, che ha spartito e diviso l’Europa lungo tre punti cardinali: la Croce, il Muro (del pianto) e la Ka‘ba (la pietra nera). Manca il quarto punto, il più importante, relativo al linguaggio e dunque insituabile, incollocabile in una qualsiasi spazializzazione o riduzione del Mediterraneo a una ideologia, a un rituale o a una nazione che sono i tre punti ordinali della religione. La distanza fra la mitologia e la religione è molto breve, ma la loro distanza imposta dalla visione religiosa del mondo invece è infinitamente grande: favola l’una, Verità l’altra, senz’accorgersi della verità della favola.

Carta Geografica del Mar Mediterraneo
Carta Geografica del Mar Mediterraneo

Nell’ordine del linguaggio, quell’ordine che la psicanalisi indica in una topologia attraverso cui è possibile tracciare una geografia delle regioni dello psichico, il Mediterraneo si estende, a Oriente, almeno fino a Bagdad. E ci fu un tempo in cui, nella sua estensione sembrava non avere confini.
Nello psichico ritroviamo il tempo in cui nacque un’altra Europa che non era quella cristiana del Sacro Romano Impero e dei suoi confini tracciati dalla Croce: l’Europa delle lingue. Lo si può cogliere immediatamente, una volta che proviamo a tracciare, sia pur velocemente, la geografia del Mediterraneo a partire dalla nascita delle sue lingue attuali. È l’Europa che nasce da una esperienza che ha la sua origine nella Spagna araba. Ed è un’esperienza che si propaga in tutto il Mediterraneo.
Alfonso X di Castiglia, il Savio, nel XIII secolo costituì dei collegi di traduttori dall’arabo, dall’ebraico e dal greco. Vennero tradotte in latino centinaia di opere filosofiche, matematiche, naturalistiche, astronomiche, anatomiche, mediche, alchemiche e tutto quanto concerneva la conoscenza da Platone e Aristotele fino a quel tempo. Quelle traduzioni si diffusero in tutta l’Europa dall’università di Parigi a quella di Colonia, da quella di Oxford a quella di Bologna. E in Spagna si moltiplicarono i «collegi» dei traduttori, da Toledo a Siviglia a Barcellona. Ma già allora non era un’esperienza nuova.
Un secolo prima, in Sicilia, vi fu la più grande fioritura dell’arte e della cultura sotto il regno dell’imperatore Federico II. Poeti e sapienti arabi, ebrei, greci e latini composero, scrissero e tradussero. La grande esperienza della poesia in Sicilia diede la prima forma della lingua italiana. E con la poesia si rinnovò anche il diritto, la matematica e la filosofia. Ma anche qui l’esperienza non è nuova perché Federico II sposò Costanza d’Aragona che dalla Spagna portò l’uso della sua corte, la sua intelligenza e la sua gaiezza e anche i poeti provenzali. Così, sempre a ritroso, troviamo la Scuola medica di Salerno che qualcuno vuole fondata già nel IX secolo e che una leggenda racconta essere stata istituita da quattro medici: l’arabo Adela, l’ebreo Helinus, il greco Pontus e il latino Salernus; anche presso la scuola salernitana la grande attività fu la traduzione da una lingua all’altra delle opere mediche contemporanee e dell’antichità. Queste traduzione raggiunsero Montpellier e Parigi dove si fondarono le importanti e celebri scuole mediche di Francia. Ma prima ancora troviamo l’importante centro di traduzioni del califfato di Cordova dove lavoravano a tempo pieno 200 traduttori. E durante l’espansione araba a Nord della Spagna, per quel poco che ci restarono, nell’VIII secolo, nascono e si sviluppano i poeti provenzali sotto l’influsso di quelli arabi di Andalusia, quegli stessi provenzali (i trobadores) che Costanza d’Aragona portò poi in Sicilia.
Tutto questo movimento intellettuale durò alcuni secoli fra l’VIII e il XIII, fino a quando la chiesa cattolica soffocò tutto sotto il suo potere, nel bagno di sangue della Provenza e nel soffocamento del movimento di Francesco in Umbria il quale, se non fu cruento, non fu meno drammatico per la storia della cultura e della spiritualità europee. Quel vivere secundum formam sancti evangelii operato dal movimento di Francesco riproponeva altrimenti i valori della spiritualità catara. Ma da allora non fu più possibile nessuna spiritualità al di fuori dell’ortodossia ecclesiastica, e la ragione di stato, ovvero la ragione della forza, fu la sola ragione ammessa come tale nella relazione fra gli uomini: secundum formam ecclesia.
È una veloce incursione nella storia, me ne rendo conto. Ma qui serve solo a sottolineare quel quarto punto d’orientamento che abbiamo detto essere insituabile perché esiste nel linguaggio e che orienta il Mediterraneo nella lingua. Il Mediterraneo non è cristiano. E l’Europa non è la cristianità, come hanno voluto, e ancora si vuole. O almeno, sono cristiani quel Mediterraneo e quell’Europa che si sono chiusi in difesa dietro le resistenze del potere. È l’Europa germanica e romana del Sacro Romano Impero. Ma nella lingua l’Europa e il Mediterraneo sono greco, ebraico, arabo e latino. È l’Europa nata in Andalusia, nella Spagna araba, e in Sicilia.
La nostra Europa nata dalla traduzione.
La traduzione ha comportato la fine dell’uso della lingua latina. Quei traduttori che traducevano l’arabo, il greco, l’ebraico e il latino hanno di fatto creato le prime lingue che costituiranno l’Europa, il castigliano e il catalano, il provenzale e il siciliano. Perché il latino, diventato troppo rigido, non era più in grado di soddisfare le esigenze di rappresentazione del linguaggio e cioè quella nuova organizzazione dell’immaginario che veniva formandosi, soprattutto a opera della poesia e della matematica, nell’incontro delle lingue e dei linguaggi. Così come la “latinità” nasceva dalla traduzione in latino dell’Iliade, l’Europa nasceva dalle traduzioni di quattro lingue e di quattro alfabeti differenti. Le nuove lingue aprivano un’altra via della sessualità: la «nuova fissazione» di una trascrizione, che si apriva sulla rappresentazione angelica della donna, di matrice araba e musulmana che i trovatori cristiani di Provenza prima e i siciliani poi cantarono nella loro poesia, avviava la dissoluzione del Sacro Romano Impero e del potere totalitario della religione sulle coscienze.
Con pari impegno, e con la stessa giocosità, occorrerebbe oggi, e forse ancora più d’allora, tanto coraggio e tanta intelligenza. Occorre di nuovo rompere con la supremazia dei discorsi religiosi e restituire all’Europa la sua vitalità che è data dal Mediterraneo e dall’incontro delle lingue e degli alfabeti. E questo oggi è possibile solo pensando a un’estensione dell’Europa stessa, in grado di accogliere i popoli e di rimarginare la frattura fra Europa e Asia. E dunque riconoscere che la Turchia, ma anche il Libano, Israele e la Palestina sono parte dell’Europa. Lo sono perché rappresentano uno sviluppo dell’Europa per gl’intrecci che a vario titolo hanno legato questi luoghi del Mediterraneo fra di loro nel corso di questi nostri tremila anni di storia. Ritrovare così il grande disegno dei nostri padri antichi, da Omero e Virgilio, da Federico II a Dante Alighieri e infine ai rinascimentali. Restituire vita, poesia e sorriso a quest’Europa, aggredita dalla follia e dalla stupidità delle religioni, intristita e affaticata dal peso dei paramenti ecclesiastici, colpita a morte dall’ignoranza, dall’avidità e dalla superbia.

9 pensieri come contributo alla nascita di una Bellezza insurrezionale e due poesie

1.    La poesia, al suo meglio, è energia di ricominciamento che permane verginale, non avvizzisce al tramontare delle epoche.
2.    La bellezza non è solo oggetto di nostalgia delle perdute armonie (di quelle classiche, rinascimentali, barocche, romantiche ecc. ecc.), ma è svelamento sconvolgente in grado di spalancare le porte del tempo allo splendore di un futuro possibile.
3.    Il movimento mitomodernista sfida gli “allegri becchini” impegnati ad evocare l’agonia della nostra civiltà, pronti a ridicolizzare ogni generoso tentativo di rigenerazione.
4.    Basta con la poesia dell’infelicità storica, intellettuale e personale. Basta con l’incapacità di amare senza nulla chiedere in cambio.
5.    Nel mondo taroccato di borse, nasi, seni e opere d’arte il cui unico valore consiste nel prezzo, la poesia sprigioni quell’energia metafisica, quella tensione simbolica che è all’origine di ogni civiltà e di ogni esistenza autentica.
6.    In un mondo dove domina la libertà di iniziativa e di speculazione, libertà intesa come successo sociale acquisito col denaro, ricordiamo come Dante ritenesse la libertà come il massimo dono di Dio alla natura umana e additiamo le parole di Catone (Purgatorio, 1, vv. 71-72) “libertà va cercando, ch’è si cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta”, per invitare a lottare con e per una libertà di pensiero alimentata dalla bellezza terrestre e cosmica.
7.    Se il pensiero etnocentrico ci radica nella terra dei padri, il pensiero mitico, circolare, unisce le varie etnie a origini comuni, riportandoci a una primigenia fratellanza.
8.    Contro le miserie della mediocrità e del risparmio quotidiano, ricordiamo Gorgia, il sofista, quando fa dire a Callicle che la bellezza dell’esistenza consiste nel “versare il più possibile”.
9.    Un pensiero è valido se diventa azione.

Tomaso Kemeny
Tomaso Kemeny

Aurora mitomodernista

La grande ala di fuoco della scrittura
vola verso l’aurora
di solo suoni armoniosi vestita
verso l’aurora
quella che seduce
il silenzio
con la sua pelle di parole.

Ora un turbinio di scintille
traccia una sinfonia
per la costruzione di un mondo
dove la bellezza risplenda ovunque
come urgenza di riordinamento
senza percorsi prestabiliti
verso il futuro.

 

Rime sovversive per i migranti in lacrime

I codardi discendenti del Misericordioso
si dilettano a mozzare il capo al cristiano
rispettoso, a stuprare femmine indifese,
a depredare, devastare, abbattere
statue e Chiese e così ogni mese
migliaia di migranti preferiscono naufragare
a proprie spese piuttosto che rimanere
in balia dei nefasti briganti di Dio.
I  poeti da sempre si perdono nella selva d’oro
dell’immaginazione e si smarriscono
in un mondo simbolico migliore, un esilio volontario,
ma io, ancora bambino, mi vidi in fuga
con la famiglia a torto dichiarato
nemico del popolo, dal distorto carnefice
stalinista dell’Ungheria, conobbi l’esilio
e dimora tra i fiori selvaggi di André Breton
e nel meraviglioso canto del Foscolo e del Tasso.
Che siano fedeli di un Dio guerriero,
o compagni social-traditori, o schiere razziste-reazionarie
risultano appartenere tutti alla tradizione dei
maledetti massacratori e involontari buttafuori
della composita ruota delle minoranze diverse
e dissenzienti. Per le vittime dei persecutori,
dei violatori degli ideali originali, traccio,
con sovversione, un cerchio ove siano obbligati
ad ascoltare la continua lettura dei testi
di cui, i vari tipi di ingannatori delle genti,
si sono dichiarati e si dichiarano legittimi
guardiani, o, altrimenti, questi rinnegati
vengano costretti a camminare in silenzio
e in punta di piedi, in lacrime verso il paese da loro
propagandato e del tutto immaginario,
oltre i confini della realtà.

 

Solo la grande poesia

È vero: solo la grande poesia
può salvare l’anima degli alberi,
dei boschi, dei fiumi e dei monti.
È la luce della poesia
a salvare le piante e gli amori,
a conservare, l’immagine ineffabile
delle stelle.
Ma solo l’anima
dei popoli potrebbe arrestare
la grande devastazione.

La forza del cestino

Mario Pannunzio, il mitico direttore del «Mondo», raccomandava, esigeva, che si ricorresse il meno possibile alla maiuscola. Perché l’enfasi, la coda del pavone, i girotondi intorno all’ombelico, lo slogan (la parola ridotta a slogan, moraviano bersaglio) confondono e nascondono questo e quel cuore di tenebra.

Giovanni Arpino
Giovanni Arpino

Si lamenta – una geremiade ospitata su «La Stampa» –  che la letteratura italiana «non scriva più le maiuscole», a differenza delle consorelle straniere. Ma gli scrittori nostrani, le migliori energie, hanno preferibilmente evitato gli incensi. Come tradurrebbe Sciascia: «le evasioni e gli arabeschi», Sciascia non a caso. Lo stendhaliano Sciascia, consapevole che la letteratura discende per li rami della cronaca (il sottotitolo di Il rosso e il nero è «cronaca del 1830»). La cronaca a cui rimanda naturalmente il giornalismo, soprattutto il giornalismo inteso come «écriture», mai arreso alla routine. Ecco Mario Pannunzio, ecco, attraverso Pannunzio, la raccomandazione mai arrugginita di Emilio Cecchi: «Il giornalista in sé e per sé è men che nulla se non consente ad essere qualcosa come uno scrittore e un controversista, uno storico e un polemista», se non «si rassegna a dipendere da Swift e da Machiavelli, da Pascal, da Demostene e da Sant’Agostino».

Certo, se si invita a riscoprire la maiuscola per indicare l’urgenza di raccontare la necessità come non concordare? Ma – si perdoni il gioco di parole – non è necessario amplificare la necessità accantonando la minuscola. Purezza, la «Purity» di Jonathan Franzen, il romanzone da cui muove la doléance sul quotidiano torinese, non ha forse il pregio di indurre a riaprire L’ussaro sul tetto di Giono, un provenzale inno alla purezza che non sopporta squilli di tomba?

Nel nostro pantheon letterario, ai vertici, c’è sicuramente Guido Piovene. Già negli anni Settanta (sarebbe scomparso nel 1974) avvertiva che «la crisi del romanzo è vera perché comincia dalla vita», vita, non Vita, la céliniana ricerca della perla nel fango, non l’immaginifico roteare intorno alle apparenze.

Dov’è la vita nelle pagine degli scrittori o sedicenti scrittori italiani (e non solo) del nostro tempo? Si evocano i Calvino e gli Eco. Sarebbe il caso, qualche volta almeno, di ritornare a uno scrittore che Piovene prediligeva, in lui riconoscendo «un impavido indagatore del presente», Giovanni Arpino.

Arpino che non evitava «l’inferno umano» («L’unico vero inferno è il presente, miserabile e però insostituibile»). Arpino che non esitava a togliere il saluto a coloro che «fuggono nei secoli andati o si precipitano in quelli futuri o insistono coi loro mesti rintocchi da pieve antica». Arpino che aveva in serbo una somma lezione per chi – italiano o non – vuole avventurarsi nel teatro della letteratura, non ristagnando nelle anticamere, non baloccandosi con alfabeti puerili, dissennati, rozzi, veri monumenti all’allibire, riflessi del nulla (per carità, con la minuscola). Quale lezione? La forza del cestino (il cestino così necessario per approdare – ma sì, si ricorra alla maiuscola – alla Necessità).

Afrorismi… sull’Arte

John Tenniel - Il the del Cappellaio Matto
John Tenniel – Il the del Cappellaio Matto

Il critico esterofilo: c’è Del Guercio in Danimarca.

Arnaldo Pomodoro non ha il senso di polpa.

Le mele di Andrea Del Castagno, i cavalli di Paolo Uccello.

Una volta volevo acquistare un Duchamp ma non avevo sufficiente denaro. Allora l’ho venduto.

Galleria illuminata: la Pilat di volta.

Le cuciture dello Squarcione, i numeri di Lorenzo Lotto.

Meglio Pardi che mai.

I cassetti di Maso di Banco, l’incarnato del Carpaccio.

La leggerezza di Sebastiano Del Piombo, i fianchi di Guido Reni.

Il verde di Rosso Fiorentino, il giallo di Remo Bianco.

Le galline di Collodi fanno le uova di legno.

Se son Pancrazzi non li vogliamo.

Ibn al-Hayṯam (Alhazen) e l’invenzione della prospettiva

Un recente e affascinante saggio dello storico dell’arte tedesco Hans Belting (Florenz und Bagdad. Eine westöstilche Geschichte des Blicks, 2008; pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2010 col titolo I canoni dello sguardo) ha rilanciato un’ipotesi che una nutrita schiera di studiosi di area anglosassone – David Lindberg, Jack Greenstein, Mark Smith, David Hockney, Charles M. Falco – aveva già formulato a partire dai primi anni 80 del secolo scorso: l’invenzione della prospettiva nelle arti visive fu solo un frutto miracoloso del genio rinascimentale italiano, o non fu piuttosto il punto d’arrivo di un lungo cammino teorico iniziato poco dopo l’anno Mille grazie al grande fisico e matematico arabo Ibn al-Hayṯam, ossia quell’Alhazen che fu autore del più importante trattato di ottica del Medioevo?

Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)
Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)

Prima di esaminare in breve la questione, vorrei dire subito quello che in sostanza ne penso: l’indagine di Belting è giusta nei propositi e meticolosa nelle argomentazioni, anche se forse eccede nella certezza delle conclusioni. Chi può infatti assicurarci che sia stata proprio la Perspectiva di Alhazen, filtrata dagli studi fisico-matematici di Biagio Pelacani – che morì nel 1416 – a ispirare direttamente le teorie del Brunelleschi, dell’Alberti, di Piero della Francesca e del Ghiberti? Belting definisce Pelacani come “l’inventore dello spazio matematico”, ed è possibilissimo che i nostri teorici della prospettiva abbiano attinto a piene mani dal suo spazio visivo perfettamente alhazeniano (la geometria piramidale dei “raggi visivi”); ma d’altra parte è sufficiente dare uno sguardo al pavimento disegnato da Ambrogio Lorenzetti nella Annunciazione – che è del 1344 – per renderci conto di quanto il cammino della prospettiva pittorica fosse già progredito in Italia ben prima del Quattrocento.

Chiarito questo punto, andiamo all’origine di questa storia. Perché è qui che, io credo, ci possono attendere le vere sorprese. Come al solito, nonostante le innumerevoli fonti di conoscenza offerte dalla vastità degli studi orientalistici, si tratta di sgretolare un pregiudizio che è frutto di un tenace eurocentrismo: la scienza fiorita nel mondo islamico tra l’ottavo e il tredicesimo secolo non fu un’opera di pura e semplice trasmissione o interpretazione del sapere greco, ellenistico o indiano. Fu una cultura creativa, innovativa e per vari aspetti rivoluzionaria. Fu, come affermato più di trent’anni fa dallo storico della scienza Edward Grant, la vera matrice della rivoluzione scientifica europea del XVII secolo. Studiosi del calibro di Carlo Alfonso Nallino o Miguel Asín Palacios lo avevano già fatto notare ben prima di Grant. E ora anche Belting lo afferma mostrando l’esempio indiscutibile di Ibn al-Hayṯam, che: “con la sua correzione rivoluzionaria dell’ottica antica dimostra ancora una volta che la cultura araba non si lascia ridurre a mera cultura della traduzione”.

Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)
Hasan Ibn al-Haytham (Alhazen)

Nato a Baṣra (Bassora) nel 965, Ibn al-Hayṯam visse la vita tormentata tipica dei geni. Diffusasi per tutta la umma islamica la sua fama di grande fisico e matematico (era riuscito a risolvere un’equazione del quarto grado ricorrendo alle coniche di Apollonio, grazie all’intersezione di una circonferenza con un’iperbole), fu chiamato in Egitto dal califfo fatimida al-Ha̅kim, che lo incaricò di studiare un progetto per imbrigliare le piene del Nilo. Ma il progetto fallì, Ibn al-Hayṯam cadde in disgrazia, e per salvarsi dall’ira del califfo cominciò a fingersi pazzo. Morì nel 1039 al Cairo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita in un tugurio nei pressi della moschea di al-Azhar, guadagnandosi il pane con piccoli lavori di traduzione di testi scientifici.

Fu intorno al 1028 che Ibn al-Hayṯam scrisse il suo capolavoro, quel Kitāb al-manāẓir che, a partire dalla versione latina di Gherardo da Cremona (nota coi vari titoli di Liber de aspectibus, o De crepusculis, o Perspectiva Alhazeni), alla fine del secolo XII pose le basi dell’ottica moderna. Cancellando in un solo colpo le antiche teorie della visione ereditate dai “fluidisti” (Euclide, Ipparco, Tolomeo, Eliodoro di Larissa), dagli “eidolisti” (Epicureo, Lucrezio), e da Aristotele (che aveva tentato una mediazione fra la teoria dei fluidi e quella degli “éidola”), il genio di Baṣra dimostrò – servendosi principalmente della camera oscura, di cui fu l’inventore – che a ogni punto degli oggetti che noi vediamo corrisponde un punto dell’immagine che si forma nei nostri occhi, grazie al “raggio visivo” che li congiunge. E partendo da questa osservazione sviluppò una teoria geometrico-matematica dei raggi.

La fama di Alhazen si diffuse universalmente nell’Europa del XIII secolo, e non solo tra gli studiosi di fisica e matematica. Jean de Meung nel Roman de la Rose esaltò l’importanza del suo trattato. E Chaucer nei Canterbury Tales mise in rilievo il suo nome tra gli autori che avevano studiato le proprietà degli specchi. La civiltà islamica ha dato anche questo all’Europa. Non solo le opere ben più note e celebrate, come il Canone della Medicina di Avicenna, o il Gran Commento aristotelico di Averroè, o il Libro dell’Algebra di al-Khwarazmi. C’è ancora molto da scoprire nelle “radici islamiche” della nostra cultura.